2021-07-29
Il medico che curava i malati è morto di umiliazioni e insulti
Giuseppe De Donno era il capofila della cura al plasma. Aveva salvato vite ottenendo solo grane. Il suo gesto è una denuncia. «Ho la coscienza a posto», ha detto nella sua ultima intervista a una tv locale. E di sicuro lui, il professor Giuseppe De Donno, medico in prima linea, eroe in corsia, persona purissima e capofila della cura al Covid basata sul plasma, la coscienza a posto ce l'aveva eccome. Ora bisogna vedere se ce l'hanno quelli che l'hanno insultato, offeso, umiliato, attaccato, isolato, bistrattato, calpestato, quelli che lo deridevano chiamandolo «messia» o attribuendogli la «vocazione a fare il martire» (vero Selvaggia Lucarelli?). Bisogna vedere se la coscienza pulita ce l'hanno «gli scienziati prezzolati», come li chiamava lui, che non perdevano occasione per denigrarlo e bastonarlo mediaticamente. E quelli che hanno cercato di farlo passare per matto. «Il Pd di Mantova mi ha definito demente», si lamentava e non si dava pace («Io vengo da quella storia, mi vergogno di venire da quella storia»). La celebrità non gli piaceva, le zuffe mediatiche neppure. «Non mi interessa diventare famoso, non voglio presentare Sanremo», ripeteva. «Voglio soltanto salvare più vite che posso». E in effetti di vite umane ne ha salvate tante. Tantissime. Non la sua, però. Il dottor De Donno si è ucciso martedì sera. Si è impiccato nella sua casa. A inizio giugno si era dimesso a sorpresa dall'ospedale Poma di Mantova, dove era primario di pneumologia e dove aveva lottato in prima fila contro il Covid salvando decine di malati, grazie alla sua terapia con il plasma iperimmune. Era tornato a fare il medico di famiglia. «Ho subito tanti attacchi», disse in quell'occasione a una tv locale. La sua ultima intervista. Era amareggiato. Lo sguardo triste. Per lui, figlio di un militare dell'Arma e orfano in tenera età, l'onore e l'orgoglio erano tutto. Glieli avevano distrutti entrambi. E hanno continuato a distruggerli perché il coro dei selvaggi (più o meno lucarelli) ha sghignazzato anche di quella sua scelta. «Mi interessa solo curare i malati», spiegava lui. E loro giù a prenderlo in giro. Ma certo: come si permette? Un medico che pensa a curare i malati? E non solo a vaccinarli? Ma dove siamo finiti? Ecco, appunto: «Dove siamo finiti?». Deve aver pensato così il dottor De Donno a inizio giugno quando si è ritirato a fare il medico di famiglia, tornando alle origini. Ma si è chiuso sempre più in se stesso. Il suo Whatsapp (come immagine di profilo usava quella di un gattino) è fermo al 20 giugno. Da un mese non scambiava messaggi con nessuno. Io mi sento in colpa perché l'ultimo glielo avevo mandato a ottobre. «Che succede della cura al plasma?», avevo chiesto. Risposta: «Noi la usiamo sempre». «Torna a raccontarcelo in trasmissione?». Silenzio. Nessuna risposta. Non ho insistito. Era stato a Fuori dal coro un paio di volte, ma sapevo che non amava i riflettori. Si era esposto nella primavera 2020 per difendere la sua terapia, che avrebbe potuto salvare tante vite umane, ma l'onda d'urto degli attacchi di Burioni, degli insulti social, dei collegamenti interrotti a Porta Porta, erano troppo per lui. Prima aveva sospeso tutti i suoi account social ed era sparito nel nulla. Poi era ricomparso. Ma sempre più scosso. Sempre più deluso. A ferirlo in particolare era stata la decisione dell'Aifa e dell'Istituto superiore della sanità che, su indicazione del ministero della Salute, avevano deciso di affidare la sperimentazione sulla plasmoterapia all'azienda ospedaliera di Pisa, anziché al suo ospedale, il Poma di Mantova, che la stava già applicando sul campo, insieme con il San Matteo di Pavia. Rivediamo il film: fra febbraio e aprile 2020, durante la prima devastante ondata del Covid, quando ogni medico si arrangiava come poteva e veniva provata ogni possibile cura, al Poma di Mantova e al San Matteo di Pavia, sotto la regia di De Donno, cominciano a usare la terapia del plasma iperimmune, cioè quello prelevato dalle persone che hanno appena fatto il Covid. I risultati sono straordinari: su 48 malati gravi, 45 guariscono, fra cui anche una donna incinta (Pamela Vincenzi), che sopravvive e mette al mondo una meravigliosa creatura.Dunque a maggio 2020, quando si tratta di far partire la sperimentazione ufficiale, sembra naturale che venga affidata a chi la sta già praticando. Invece no. Viene scelta Pisa. Dove, per altro, in quel momento i malati sono pochi, per cui prelevare plasma dai convalescenti è piuttosto difficile… Risultato? La sperimentazione slitta. Traccheggia. Comincia solo a settembre, poi si disperde in mille ritardi e impicci. Lo stesso direttore di Pisa, Francesco Menichetti, parla di «interesse per la ricerca venuto meno». Così passa un anno. E nessuno si stupisce quando, nell'aprile 2021, l'Aifa pubblica i risultati finali che bocciano la cura con il plasma. Per De Donno, però, è un'ulteriore botta. «Noi la continuiamo a usare», mi diceva a ottobre. E com'è possibile che una cura che viene usata e che funziona all'ospedale di Mantova, poi non funzioni altrove? Ci si può fidare davvero di quella ricerca? Perché l'«interesse era venuto meno»? E di che interesse stiamo parlando? In effetti la terapia del plasma ha avuto fin dall'inizio molti nemici. Innanzitutto proprio perché si tratta di una cura e non di un vaccino: come è noto, tutto ciò che potenzialmente è in grado di guarire dal Covid (terapie domiciliari, monoclonali, terapia al plasma…) è stato guardato con sospetto da chi ha puntato all'immunizzazione di massa come dio unico senza alternativa. In secondo luogo perché la terapia al sangue ha un difetto in più rispetto a tutte le altre cure: costa poco. O nulla. «È democratica. Del popolo. Per il popolo. Nessun intermediario. Nessun interesse», scriveva De Donno. Tutti motivi validi per farla sparire, non vi pare?«Quando parlo ai convegni la prima slide che mostro riguarda i conflitti d'interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso», disse De Donno in un'intervista a Oggi. Aggiunse sconsolato che «tutto resta in mano agli scienziati prezzolati».Lui prezzolato non lo era. Nemmeno no vax, come qualcuno lo accusava senza sapere (è stato tra i primi a vaccinarsi a dicembre 2020). Era soltanto un medico. Un medico puro. E infatti anche nel suo ultimo giorno ha fatto fino in fondo quello che un medico dovrebbe fare: ha curato i malati. Ha fatto l'ultima visita. Poi è tornato a casa e si è ucciso. Lascia una moglie, due figli e un cane dalmata, Beniamino, cui era molto affezionato. Non ha lasciato, invece, lettere d'addio. Molti dei suoi seguaci sui social non credono all'ipotesi del suicidio. De Donno, che non era un complottista e predicava ovunque la trasparenza, non avrebbe amato congetture fumose e dietrologie. «Ma non è stato solo un atto di disperazione. È stato un atto di denuncia», dice Antonino D'Anna, che lo conosceva bene. E allora la Procura di Mantova, che ha aperto un'inchiesta sulla morte, raccolga la denuncia e indaghi per capire chi ha spinto il dottor De Donno a togliersi la vita. Perché bulli e campagne d'odio devono scandalizzare sempre. E sempre devono essere puniti. O questa volta non vale solo perché nel mirino è finito un bravo medico anziché un gay?
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)