2022-10-23
Il mandato eterno di Xi Jinping inizia tra epurazioni e minacce a Taiwan
Il Congresso modifica la Costituzione e consolida il leader come «fulcro del partito». Sancita l’opposizione all’indipendenza di Taipei. Mistero sull’ex presidente Hu, allontanato a forza dall’aula. Quattro capi silurati.Si è concluso ieri il ventesimo congresso del Partito comunista cinese. Un evento che ha visto Xi Jinping rafforzare considerevolmente il proprio potere. In primis, sono stati introdotti degli emendamenti alla Costituzione, che definirà l’attuale leader come «fulcro» del partito. Non solo: nel documento è stato inserito anche un esplicito riferimento alla volontà di opporsi ai cosiddetti «separatisti» di Taiwan. In secondo luogo, ai vertici del partito si è verificato un repulisti: sarebbero infatti stati esclusi dalla Commissione centrale sia il presidente della Conferenza politica consultiva, Wang Yang, sia il premier, Li Keqiang (entrambi, guarda caso, considerati non troppo vicini a Xi). In terzo luogo, il presidente riceverà oggi un inedito terzo mandato come segretario generale: un elemento, questo, che - secondo la Cnn - potrebbe portarlo addirittura a un incarico a vita. Ultimo fattore, ma non meno importante: ieri, mentre si teneva la cerimonia di chiusura del congresso, l’ex presidente cinese, Hu Jintao, è stato improvvisamente scortato fuori dalla Grande sala del popolo. In particolare, sembra che, almeno in un primo momento, fosse riluttante ad uscire. Ora, la versione ufficiale è che sia stato allontanato per motivi di salute. È tuttavia noto che Hu non risulti in rapporti troppo idilliaci con il suo successore. E c’è chi pensa che Xi, con questa mossa, abbia voluto dare un forte (e inquietante) segnale politico: quasi a voler non solo colpire un «oppositore», ma anche cancellare la storia recente del Pcc. In tal senso, la rivista Foreign Policy non ha escluso che Xi abbia voluto umiliare deliberatamente il suo predecessore. In tutto questo, proprio ieri la Santa Sede ha reso noto di aver rinnovato per altri due anni l’accordo con Pechino sulla nomina dei vescovi. Un rinnovo che era nell’aria, ma che - annunciato proprio al termine del congresso del Pcc - assume una rilevanza politica particolare: si tratta infatti di una vittoria diplomatica significativa per Xi soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, che non hanno mai visto di buon occhio questa controversa intesa. Non dimentichiamo d’altronde che, a partire dal 2018, l’attuale presidente cinese ha promosso un progressivo indottrinamento ideologico dei cattolici cinesi (la cosiddetta «sincizzazione»), mentre negli ultimissimi anni hanno continuato a verificarsi imprigionamenti di prelati non allineati al regime comunista. Insomma, pare proprio che Xi abbia graniticamente rafforzato il suo potere. Il che è indubbiamente vero, anche se i problemi sulla sua strada non mancano. I risultati deludenti in economia e l’impopolare severità della sua politica «zero Covid» mostrano che il leader cinese non può dormire dei sonni totalmente tranquilli. Esistono nel Pcc delle frange a lui ostili. E non è detto che, nei prossimi mesi, non possano cercare di mettergli in qualche modo i bastoni tra le ruote. Tra l’altro, anche su Taiwan corre dei rischi. Al netto della retorica roboante, non è detto che Xi punti a seguire i falchi del partito su questo dossier: il presidente cinese sa bene che, in caso di invasione militare dell’isola, Pechino rischia di impantanarsi a causa di una probabile guerriglia. Dall’altra parte, aumentano però le pressioni sul tema dei microchip: dossier rispetto a cui la concorrenza con Washington sta crescendo sempre di più. Taiwan, insomma, costituisce un dilemma di difficile soluzione per il leader cinese. Questa situazione complessiva dovrà essere tenuta ben presente dal nuovo governo italiano. Grazie soprattutto alla sua capacità di infiltrazione, la Repubblica popolare rappresenta infatti un rischio per la nostra sicurezza nazionale. Va detto che il neonato esecutivo sembra fortunatamente avere le idee chiare in merito. In campagna elettorale, Giorgia Meloni ha ribadito la necessità di rafforzare i legami con gli Stati Uniti, esprimendo inoltre il proprio sostegno a favore di Taipei: un elemento, questo, che scatenò l’irritazione dell’ambasciata cinese a Roma. Negli ultimi anni, la fondazione Farefuturo, presieduta dal nuovo ministro dello Sviluppo economico Adolfo Urso, ha inoltre spesso messo in evidenza i rischi legati all’influenza cinese sull’Occidente. A giugno 2021, Urso è diventato tra l’altro presidente del Copasir: comitato che, lo scorso febbraio, ha lanciato esplicitamente l’allarme sulle infiltrazioni del Dragone. Non solo: l’attuale ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha più volte invocato, da titolare del Mise nel precedente governo, il golden power per bloccare alcune (pericolose) acquisizioni industriali da parte di Pechino. Insomma, il nuovo governo di centrodestra sembra avere le carte in regola per fronteggiare la minaccia cinese. Qualcosa che non può invece dirsi di alcuni rilevanti settori dell’opposizione. Tutti ricordiamo le controverse visite del fondatore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, all’ambasciata cinese a Roma tra il 2019 e il 2021. Così come tutti ricordiamo la linea soft del governo giallorosso nei confronti del Dragone. Senza dimenticare Enrico Letta che, alle ultime elezioni, si è messo insieme a Demos: partito che è emanazione della Comunità di S. Egidio. Quella stessa Comunità che figura, da sempre, tra i principali fautori dell’intesa tra Cina e Vaticano. Tra l’altro fu proprio Paolo Gentiloni, da premier, a partecipare - unico leader del G7 - al forum di Pechino sulla Nuova via della seta nel maggio 2017. E pensare che c’è ancora chi dice che il Pd sarebbe una forza politica atlantista!
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)