
Abbassare la guardia sul radicalismo nostrano sarebbe un errore fatale. Lo dimostra l'analisi dei profili di 27 terroristi eseguita dalla Cattolica di Milano: se il carcere è fucina di conversioni, è tra le mura domestiche che si innesca il germe della violenza.Diciassette anni fa a New York furono 3.000 i morti nel crollo delle Torri Gemelle e la stagione del terrorismo globale prese il suo roboante avvio. E non è perché non ci sono stati attacchi jihadisti eclatanti negli ultimi mesi che la buriana è ormai passata: il terrorismo resta una delle minacce diffuse nel contesto della guerra ibrida che stiamo tutti combattendo nel 2018. Per difenderci abbiamo bisogno di consapevolezza e conoscenza, per esempio è importante avere chiaro una sorta di ritratto del potenziale terrorista sia per intercettarlo, anticipandone le mosse, sia per prevenire il cosiddetto processo di radicalizzazione che lo porta a diventare terrorista. Inoltre, appare chiaro a tutti come il terrorismo jihadista sia un fenomeno transnazionale, con storie di qualcuno che sbarca in Italia, ammazza a Berlino e attraversa la Francia per venire infine neutralizzato nei dintorni di Milano, Anis Amri piombato sul mercatino di Natale. È in questa prospettiva che si è collocato un importante progetto di ricerca, coordinato da Globsec, un'organizzazione indipendente che si occupa di sicurezza con sede a Bratislava, che ha coinvolto 11 Paesi europei e ha cominciato ad analizzare le biografie e le caratteristiche di 225 individui arrestati per terrorismo nel 2015 e successivamente condannati. Il punto sulla situazione italiana è curato dal centro di ricerca Itstime dell'Università Cattolica che ha contribuito a questa fase preliminare con la analisi di 27 casi «nazionali». Dunque, sui 225 totali, 197 sono terroristi del jihad, di cui 120 in galera, 20 espulsi, 29 ammazzati, 28 in fuga. Gli 11 Paesi coinvolti (Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda e Spagna) sono quelli che, secondo Europol, nel 2015 hanno avuto almeno 20 arresti per terrorismo. Ma l'obiettivo dello studio non è solo il disegno del profilo del terrorista è anche quello di capire se esiste una relazione tra passato criminale di un individuo e suo reclutamento nel jihad, a conferma della tesi di Olivier Roy per cui stiamo assistendo a una «islamizzazione della violenza».Da questo punto di vista 56 dei nostri jihadisti europei erano già stati arrestati prima di essere accusati di terrorismo, ma almeno un terzo di tutti i 197 soggetti aveva già avuto rapporti difficili con la legge. Soprattutto, però, di quei 56 arrestati bene i due terzi erano finiti dentro per crimini gravi come rapina, assassinio, maneggio di armi ed esplosivi e solo un terzo per crimini più lievi. E ancora di più, chi è finito in prigione, nella maggior parte dei casi, ha avuto proprio tra quelle mura la possibilità di entrare in contatto con le ideologie radicali che lo hanno condotto al terrorismo islamista confermando, più che la centralità della relazione «criminale che si fa terrorista», la significatività di un luogo, la prigione, che può favorire il reclutamento del terrorista.I nostri 197 jihadisti sono per l'87% uomini, con un'età media di 30 anni, per la metà (51%) nati e cresciuti nel paese europeo, i restanti sono stranieri non europei (17%) e immigrati di prima generazione o naturalizzati (11%). La scarsa educazione si dimostra un carattere ricorrente, visto che solo il 20% ha frequentato una scuola superiore, una miseria (8%) se si considerano i terroristi con un passato criminale, a cui si associa uno scarso successo nel lavoro: solo il 28% aveva un lavoro al tempo del suo arresto. E' interessante notare come un quarto circa (26%) dei casi analizzati corrispondesse alla figura del foreign figther, il combattente di ritorno da una zona di guerra, in genere Siria, e di questi la metà fosse stato un «regolare di Isis», l'altra metà invece fosse arruolato nel Califfato non per un compito in prima linea, ma di supporto come poliziotto, giornalista, reclutatore e altro. Inoltre, approfondendo le loro storie emerge che se 58 vennero arrestati da soli, solo 3 di loro sembravano non avere legami con altri membri del jihad, configurandosi come potenziali «lupi solitari» del terrorismo.La scarsa rilevanza del legame «criminale poi terrorista» è ancor più sottolineata nei casi italiani, di cui solo un paio (su 27) erano stati già arrestati, ma soprattutto la nostra specificità emerge nelle caratteristiche di un processo di radicalizzazione che si sviluppa nel contesto amicale e familiare e nella pratica dell'espulsione come mezzo di difesa: la relazione annuale del Viminale ricorda che in un anno (agosto 2017/2018) sono state espulse 108 persone per motivi di sicurezza, 135 foreign fighters sono monitorati e oltre mezzo milione di controlli su persone e 200.000 su auto. Insomma l'attenzione è alta e la guardia non può essere abbassata. Perché, per esempio, la maggior parte dei jihadisti oggi in prigione nelle varie carceri europee torneranno a piede libero entro il 2023 e nessuno sa come evolverà la minaccia da qui ad allora, né che tipo di monitoraggio le polizie dovranno e potranno seguire nei confronti di questi «ex». Si tratta certamente di una libertà guadagnata avendo scontato la pena, ma che non evita turbolente preoccupazioni soprattutto rispetto a quel 30% di terroristi e criminali che, proprio in galera, possono essere ancora reclutatori o rinforzarsi sulle loro posizioni radicali.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.