
Come nel caso del bimbo di Liverpool, Anthony Hayden pronuncia una sentenza di morte per una musulmana di Leicester che ha appena partorito una bambina.Il suo bambino è nato un mese fa, ma una mamma inglese trentenne non lo potrà crescere. Né potrà stare vicino alla sua sorellina, che ha circa tre anni. A stabilirlo è stato un tribunale, secondo il quale sarebbe nel miglior interesse della signora spegnere il respiratore, che la sta tenendo in vita. La sentenza del giudice Anthony Paul Hayden è arrivata dopo la richiesta avanzata dai medici dell'ospedale universitario di Leicester, che hanno in cura la donna. La giovane mamma, il cui nome non è stato rivelato per volontà del tribunale, è arrivata in ospedale un mese fa con sintomi gravi legati al Covid. Era incinta di 32 settimane e quindi i medici hanno deciso di fare un parto cesareo per salvare il piccolo che portava in grembo. Poi l'hanno sedata e lasciata in uno stato di coma, legata a un respiratore, per valutare l'andamento delle sue condizioni. Che purtroppo non sono migliorate nel corso di queste settimane. Al punto che secondo gli specialisti per la signora il destino è segnato: la loro diagnosi è che il pancreas ha smesso di funzionare e un polmone è morto, quindi le condizioni della donna sarebbero ormai disperate. Ecco perché, a loro parere, non avrebbe senso mantenerla ancora attaccata a una macchina. Per l'ospedale questa scelta non servirebbe a prolungare la vita, ma a rendere la sua morte più lenta e meno dignitosa: una valutazione che non trova d'accordo né il marito né la sorella della donna, che non hanno accettato l'idea di staccare il respiratore, quando i medici l'hanno prospettata. Di fronte al disaccordo tra parenti prossimi e équipe sanitaria, l'ospedale si è rivolto alla Corte di protezione, che si occupa dei casi di persone che non hanno la capacità di intendere e di volere e quindi non possono assumere direttamente delle decisioni. In quella sede è entrato in gioco Hayden. Il giudice ha ascoltato il parere di medici e specialisti, che hanno parlato dello sviluppo della malattia e hanno sottolineato come la giovane donna soffra anche di una patologia, chiamata morbo di Addison, a causa della quale le ghiandole che producono ormoni essenziali funzionano in modo irregolare. Una ragione in più per non credere in una sua ripresa e per valutare pari a zero le sue possibilità di guarire. Giudizi contro i quali si sono schierati marito e sorella della giovane mamma, che sperano in un miracolo, anzi, in quanto musulmani, pregano perché avvenga. Dopo aver ascoltato le parti, però, Hayden ha deciso che i medici possono spegnere il respiratore e procedere con un piano palliativo, che condurrà la mamma verso la morte «con dignità». Leggendo ad alta voce la sua sentenza, il giudice ha precisato che «la vita e le speranze di questa donna sono state cancellate da un virus insidioso e che una giovane famiglia è stata divisa prematuramente». «Una tragedia incommensurabile, di una tristezza quasi indicibile» ha aggiunto, con la famiglia «che spera in un miracolo». Miracolo che però il giudice Hayden non ritiene di voler aspettare. Di fronte ai responsabili dell'ospedale e alla famiglia ha scritto un verdetto definitivo per la giovane mamma, anche se è rimasta attaccata al respiratore solo per poche settimane. Quindi, in fondo, non ha nemmeno rappresentato un «costo» eccessivo per la sanità britannica, che durante la pandemia, con i suoi 110.000 morti per Covid, ha avuto ben altre spese da affrontare. Anche per questa ragione la scelta della corte suscita perplessità. Ma forse l'esito dell'udienza non era poi così imprevedibile. Perché non è la prima volta che Hayden permette ai medici di spegnere un respiratore e terminare una vita. È stata sua anche la scelta finale nel caso di Alfie Evans, il bambino di 23 mesi che nell'aprile del 2018 era ricoverato all'Alder Hey Children Hospital di Liverpool. Anche in quel caso, secondo il giudice, l'unica cosa dignitosa da fare era far morire il piccolo, nonostante le proteste dei genitori che hanno lottato come leoni per salvare il loro primogenito e a dispetto anche della campagna di stampa e della catena di solidarietà che si erano sviluppate a favore della sopravvivenza del bambino.In fin dei conti il caso della mamma affetta da Covid finisce per far parte di una casistica che nel Regno Unito è ormai tristemente lunga. La prima «vittima» fu Charlie Gard, che a 11 mesi è stato «condannato» a morte da Justice Francis nel luglio del 2017, nonostante anche il presidente Trump e il Papa si fossero mobilitati a favore della sua salvezza. Poi c'è stato Isaiah Haastrup, appena 11 mesi, affetto da una grave condizione per via di un errore nel parto, che è stato «terminato» nel gennaio del 2018, su indicazione del giudice Alistair MacDonald. Lo stesso che, in realtà, nell'ottobre del 2019 ha salvato Tafida Raqeeb, una bimba londinese di 5 anni, a cui il ventilatore non è stato spento alla fine di una lunga battaglia legale e che adesso si trova in cura all'ospedale Gaslini di Genova. Nel suo caso, il fatto che i genitori si professassero musulmani e non potessero quindi accettare che a decidere della vita della bambina fossero gli uomini, è stato considerato come un elemento chiave per la decisione. Le credenze della famiglia, invece, non sono state considerato rilevanti per questa giovane donna. Il giudice ha deciso per l'interruzione della ventilazione, che avverrà nel giro di qualche giorno. A meno che marito e sorella della donna decidano di ricorrere contro la decisione.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».