2019-11-21
Il giudice che cerca Silvia Romano è l’uomo chiave del caso Mitrokhin
Mario Scaramella sta ricostruendo tutte le fasi del rapimento della cooperante in Somalia. Fermato un uomo, 23 i sospettati. Il sequestro è politico e porta la firma degli jihadisti di Al Shabaab, gruppo affiliato ad Al Qaida.Per il rapimento di Silvia Romano, la cooperante italiana della Ong Africa Milele, scomparsa un anno fa dal villaggio di Chakama, c'è un fermato: si fa chiamare Sufayan, ma probabilmente è il suo nome di battaglia. È stato prima nelle mani dei servizi segreti somali, che lo hanno interrogato. Poi, con molta probabilità, verrà consegnato al pool anti pirateria e anti terrorismo. Ma le notizie al momento sono molto contenute. E addirittura filtrano con difficoltà anche tra le stesse autorità somale. Il nome del fermato è contenuto in un documento di cui La Verità è in possesso e, insieme a quelli di altre 22 persone, compone l'elenco di chi avrebbe avuto un ruolo nel rapimento. Dal momento della consegna da parte dei rapitori kenioti fino a qualche settimana fa. C'è, per esempio, Nur Shill, capo dei pirati dell'Oltregiuba e dello stato del Sudovest, che con la sua banda composta da altri otto somali controlla le città di Jilib e Bulofulay. C'è Awowe, membro dell'organizzazione proveniente dal Qatar, indicato come responsabile della gestione dell'ostaggio. C'è il dottore Abu Hamza, che è coinvolto e che avrebbe visitato la ragazza. Ci sono Jamame, Abdirizak, Alì Ared e Ubeyd, che hanno trattenuto la vittima tra il 20 novembre 2018 e la fine di settembre 2019. Moalim Geedov e Abduallhi Geedov, padre e figlio, avrebbero spostato la sequestrata verso la zona interna di Bakool region. Sono «tutti sospettati», è scritto negli atti con i quali viene informata l'Alta corte del Sudovest della Somalia, «di collegamento con i top leader di Al Shabab, Mahad Karate, Bashir Quorghab Djabril e Ahmed Omar Abucubeyd». La richiesta di misure preventive cautelari e patrimoniali è stata inviata il 10 novembre al presidente dell'Alta corte del Sudovest della Somalia, Ahmed Ai Musse, e contiene tutte le scoperte investigative del pool anti pirateria e anti terrorismo legate alla scomparsa della cooperante. La ventitreenne della Ong Africa Milele sarebbe quindi in Somalia, nelle mani di un gruppo islamista che, come aveva svelato La Verità, sarebbe vicino agli jihadisti di Al Shabaab, gruppo affiliato ad Al Qaida. I 23 sospettati, tra pirati, capi locali di Al Qaida e mediatori, avrebbero organizzato e gestito il sequestro della ragazza italiana. Nella documentazione si fa esplicito riferimento anche al movente: si tratterebbe di un sequestro politico. La ragazza è accusata dagli jihadisti di fare proselitismo cristiano nella comunità dove si trovava come volontaria e ha portato i pirati a gestirla «con lo stesso protocollo adottato per le spie». Per questo è stata quindi spostata più volte tra diversi gruppi interni all'organizzazione. Nel rapporto al presidente dell'Alta corte del South West, firmato dall'italiano Mario Scaramella, membro onorario dell'Alta corte, già docente alla South West State university e assistente del procuratore federale della Somalia nella repressione della pirateria, ma anche noto per essere stato in contatto con l'agente segreto russo Aleksandr Litvinenko, avvelenato con del polonio nel 2006 (vicenda collegata alle indagini della commissione parlamentare sul dossier Mitrokhin), viene quindi individuata tutta la catena che, dal momento del rapimento, fino alle ultime fasi di detenzione, avrebbe operato per far perdere ogni traccia dell'italiana. Ora però ci sono nomi e cognomi. Si tratterebbe di un gruppo di élite, denominato Amnyat (coinvolto in numerose altre attività criminali e di vari business illegali), composto dai nove personaggi indicati con i nomi reali o con quelli di battaglia, tutti somali, e da una decima persona, del Qatar, responsabile della gestione dell'ostaggio. Silvia Romano sarebbe stata nelle loro mani fino a fine settembre 2019. Ed è durante questo periodo che sarebbe stata anche visitata dal capo dei medici di Al Shabaab. La volontaria sarebbe poi stata trasferita a Jilib nelle mani di altri cinque jihadisti, posti sotto il comando di Sufayan (il pirata detenuto nel carcere di Baidoa, da cui pare sarebbe arrivato il contributo alle indagini fondamentale per ricostruire le varie fasi del sequestro), per poi, a quanto risulta da informazioni di intelligence, essere nuovamente trasferita nella regione di Bakool sotto la responsabilità del capo della locale cellula di Al Shabaab e di suo figlio, entrambi legati ai vertici dell'organizzazione terroristica. Ora l'inchiesta è in una fase delicata e la ricerca potrebbe essere a una svolta. Da qualche giorno i carabinieri del Ros, il raggruppamento operativo speciale dell'Arma, delegato per le indagini dalla Procura di Roma, sono arrivati in Somalia. Gli inquirenti stanno anche valutando l'ipotesi di inviare una rogatoria internazionale alle autorità somale. La pista era emersa già ad agosto. In particolare erano stati considerati d'interesse investigativo alcuni contatti telefonici avvenuti prima e dopo il sequestro tra i tre kenioti accusati di aver rapito la ragazza (Abdulla Gaba Wario, Moses Luwali Chembe e Said Adhan Abdi) e alcune persone in Somalia. Quanto raccolto dal pool anti pirateria somalo ora potrebbe fare la differenza. Negli uffici dell'ambasciata italiana al momento ospitati nell'aeroporto di Mogadiscio c'è già fermento. Anche se dalla Somalia avvertono: «Qui è in vigore il vecchio codice penale italiano, il Codice Rocco, e quelli che nella richiesta di misure cautelari vengono indicati come sospetti devono trasformarsi in prove prima di procedere agli arresti». Ma dall'aria che tira tra gli investigatori s'intuisce che l'inchiesta è uscita dal pantano in cui era immersa fino a qualche settimana fa.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
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