2020-01-13
Il flop di Renzi e Costamagna, che volevano fare affari con l'Iran
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Nel 2016 l'ex presidente del Consiglio annunciava mirabolanti accordi con Teheran. Si parlava di commesse miliardarie per infrastrutture e petrolio. Nella spedizione istituzionale c'era anche l'amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel. Non se n'è fatto nulla. Sace, partecipata di Cdp, aveva però compreso le difficoltà nel trovare garanzie ai pagamenti. Italia e Iran, un rapporto di lunga data. Nei giorni in cui il governo teocratico di Teheran è sotto assedio nelle piazze per le gravi responsabilità sull'abbattimento di un volo di linea della Ukrainian Airlines, vale la pena ricordare quando il nostro Paese era arrivato a pensare di poter sviluppare affari con gli Ayatollah. Nulla di più sbagliato, anche perché per come sono andate le cose si è solo perso tempo, quattrini pubblici per le spedizioni istituzionali, ma soprattutto chi C'era infatti un governo Renzi che voleva stringere accordi commerciali per 17 miliardi di euro con il presidente Hassan Rouhani, quello che in questi giorni ha dovuto ammettere di aver colpito per sbaglio un volo di linea durante l'assalto alle basi militari in Iraq. Non sono passati nemmeno quattro anni da quando l'ex premier Matteo Renzi e la repubblica islamica avevano iniziato un dialogo commerciale esaltato sui nostri quotidiani nazionali. Titoli roboanti su commesse estere da miliardi di euro per le nostre aziende partecipate accoglievano Rouhani in Italia e poi il nostro esecutivo a Teheran. Il 26 gennaio del 2016 l'ex ministro dei Trasporti Graziano Delrio firmava un memorandum con l'omologo iraniano Abbas Akhoundi per «creare le condizioni» affinché «Ferrovie dello Stato, con una forte leadership potessero diventare il «principale partner dello sviluppo della rete ferroviaria iraniana». L'ex amministratore delegato di Fs Renato Mazzoncini volava in Iran e raccontava di nuove mirabolanti linee per l'alta velocità. Renzi annunciava in pompa magna che con «l'Iran era solo l'inizio di un cammino», perché ci sarebbero stati affari anche per Eni, Saipem, (4 miliardi in investimenti con la National iranian gas company e la Persian oil & gas company iraniane) o anche Leonardo, nel settore difesa. C'era il gruppo Gavio, il gruppo Pessina annunciava la creazione di nuovi ospedali per 1 miliardo di euro. A quella spedizione partecipò anche la Cdp di Claudio Costamagna, che con le partecipate Sace e Simest «si impegnava a sostegno dell'export italiano nel Paese, con un sistema integrato di strumenti di intervento: - 4 miliardi di euro di linee di credito erogate nell'ambito del sistema "export banca" a controparti sovrane iraniane». C'era persino l'amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel. Il cammino è finito quasi subito. Certo, erano altri tempi. Erano appena terminate le sanzioni da parte degli Stati Uniti di Barack Obama. Ma fu un errore. Non a caso le schede di Sace e Simest sono ferme al 2015. L'import italiano è crollato, anche per le decisioni degli Stati Uniti di Donald Trump. Ma soprattutto perché il paese non ha alcuna assicurazione finanziaria. La stessa Sace, che assicura l'import export delle nostre aziende all'estero, aveva subito capito i rischi dei mancati pagamenti di Teheran. E il quotidiano online Business Insider, nel maggio del 2018, citava il bilancio di Saipem del 2017, dove si leggeva come «alcuni di questi progetti, in particolare in Iran, nonostante siano stati assegnati a un contrattista, rimangono soggetti al reperimento dei finanziamenti necessari". L'amministratore delegato, Stefano Cao, lo mise nero su bianco: «In Iran c'è stata una fase di entusiasmo per Saipem che adesso si sta raffreddando. Abbiamo avuto un momento di entusiasmo, abbiamo anche siglato una serie di memorandum of understanding e poi c'è stato un raffreddamento. Al momento siamo impegnati con Total nella gara per il giacimento di gas South Pars e stiamo facendo piccoli studi di ingegneristica sulla raffinazione». Insomma fu una scommessa persa, che forse sarebbe stato meglio evitare.