2021-10-23
Il decreto sulla card a lavoro è fuffa scritta male: i controlli sono impraticabili
Luciana Lamorgese (Getty images)
Le sanzioni vengono inflitte solo sulla base di un verbale redatto da incaricati pubblici I quali, senza mandato del giudice, non possono entrare in uffici e abitazioni privatiPresidente di sez. a riposo della Corte di cassazione) Ma non è una cosa seria. Questo titolo di una delle più note commedie di Luigi Pirandello potrebbe forse attagliarsi anche al Dl n. 127/2021, specialmente con riguardo alle disposizioni, contenute nell’art. 3, con le quali è stato introdotto e disciplinato l’obbligo, a carico di chiunque svolga un’attività lavorativa nel settore privato, di possedere ed esibire il green pass «ai fini dell’accesso ai luoghi in cui la predetta attività è svolta». Cominciamo col dire che la verifica dell’osservanza di tale obbligo è affidata ai datori di lavoro, tra i quali, non essendo prevista alcuna deroga o eccezione, dovrà quindi ritenersi compreso, ad esempio, anche il pensionato ultraottantenne che abbia alle sue dipendenze la badante o la domestica. Anch’egli sarà pertanto tenuto, al pari di tutti gli altri, come stabilito dal comma 5 del citato art. 3, a definire (anzi, dovrebbe averlo già fatto entro la data del 15 ottobre), le «modalità operative per l’organizzazione delle verifiche» nonché ad individuare , «con atto formale, i soggetti incaricati dell’accertamento delle violazioni», rimanendo esposto, in caso di inosservanza, all’applicazione, da parte del prefetto, di una sanzione amministrativa da 400 a 1.000 euro. Ciò in base al richiamo, operato dal comma 9, all’art. 4, commi 1, 3, 5 e 9 del D.L. n. 19 del 2020. Siamo, come si vede, al limite tra l’assurdo e il grottesco. Il nostro pensionato, però, e come lui tutti gli altri datori di lavoro, possono in parte rallegrarsi considerando che dell’avvenuto adempimento dei suddetti obblighi non è previsto che si debba dare assicurazione alcuna al prefetto, alla Asl o ad altri organi di controllo. Ne deriva che è rimesso soltanto all’iniziativa di questi ultimi l’eventuale effettuazione delle opportune verifiche, da affidarsi a personale che sia munito delle necessarie qualifiche soggettive, prima delle quali è quella costituita dal possesso della qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. Solo coloro che siano investiti di tale qualità, infatti, possono ritenersi abilitati a redigere, previa diretta constatazione dei fatti, i verbali sulla base dei quali il prefetto potrà poi provvedere all’inflizione delle sanzioni. Nessun pubblico ufficiale, però (fatta eccezione per gli ispettori del lavoro, limitatamente alle materie di loro competenza), può accedere d’autorità in luoghi di lavoro e meno che mai in luoghi di privata dimora nei quali pure si effettuino prestazioni di lavoro, essendo a tal fine necessaria una specifica e motivata autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, come espressamente previsto (ma solo a condizione che si tratti di soggetti i quali abbiano anche la qualifica di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria), dall’art. 13 della legge n. 689/1981, che detta le norme generali in materia di accertamento degli illeciti puniti con sanzione amministrativa. In mancanza di tale autorizzazione, quindi, è da ritenere che ogni datore di lavoro possa legittimamente opporsi all’ingresso nei luoghi in sua esclusiva disponibilità di soggetti incaricati di verificare l’avvenuto adempimento o meno degli obblighi in questione. E, d’altra parte, trattandosi di illeciti amministrativi, gli stessi non possono essere accertati se non dai pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio a ciò abilitati in base a norme di legge, per cui è da escludere che le relative sanzioni possano essere inflitte sulla sola base di segnalazioni di privati, quale che sia il grado della loro attendibilità. Stando così le cose, appare evidente che l’effettiva osservanza di quegli obblighi è da ritenersi affidata pressoché esclusivamente alla buona volontà di ciascun datore di lavoro, in funzione della maggiore o minore propensione di quest’ultimo a volersi, comunque, sentire «in regola» indipendentemente dal grado di probabilità che l’inosservanza sia accertata e dia quindi luogo alla effettiva applicazione delle previste sanzioni. Ma le cose non cambiano molto se dal versante dei datori di lavoro si passa a quello dei dipendenti, a carico dei quali è prevista, per il caso in cui accedano al luogo di lavoro senza essere muniti del green pass, l’applicazione, sempre da parte del prefetto, di una sanzione amministrativa da 600 a 1.500 euro. È vero, infatti, che i soggetti che il datore di lavoro abbia «incaricato dell’accertamento delle violazioni» all’obbligo del green pass debbono trasmettere al prefetto «gli atti relativi alla violazione», come previsto dall’art. 3, comma 10, del Dl n. 127/2021. È altrettanto vero, però, che, non potendo certo valere la designazione da parte del datore di lavoro a conferire ad essi la qualità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, il prefetto, per la ragione già in precedenza indicata, mai e poi mai potrebbe disporre l’applicazione della predetta sanzione sulla sola base della segnalazione fattagli pervenire dai soggetti in questione. Questa potrebbe quindi servire soltanto da stimolo per la predisposizione, da parte dello stesso prefetto o di altra autorità competente, di servizi di osservazione esterna da affidarsi a persone munite della necessaria qualifica pubblicistica, le quali, constatata direttamente la violazione (per esempio controllando i lavoratori all’uscita dai luoghi di lavoro), possano quindi provvedere alla formale contestazione, mediante redazione di apposito verbale, come obbligatoriamente previsto, in via generale, per qualsiasi illecito amministrativo. E analoghi servizi, naturalmente, potrebbero essere predisposti anche d’iniziativa delle autorità. In definitiva, quindi, anche per quanto riguarda i dipendenti, il tasso di osservanza, da parte loro, dell’obbligo del green pass sarà essenzialmente in funzione solo della maggiore o minore propensione che essi abbiano a voler correre il rischio di imbattersi in qualcuno dei suddetti servizi; rischio che, comunque, data la immensa platea dei soggetti teoricamente sottoponibili a controllo, è difficile possa oggettivamente riguardarsi come elevato. Il tutto sembrerebbe dar ragione a un detto attribuito a Giuseppe Zanardelli, uno dei pochi fra i miei ex colleghi ad essere dotato di senso dell’umorismo, secondo il quale l’Italia è un Paese dalle leggi severe temperate dall’inosservanza. Chissà se proprio a questo si debba il fatto che dall’entrata in vigore dell’obbligo del green pass non siano finora, a quanto pare, derivati gli sconquassi e i disagi che pur ragionevolmente ci si sarebbe potuti aspettare.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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