2018-07-08
Il declino delle élite affossate dal progresso
La lotta tra popoli e classe dominatrice è un fenomeno storico descritto da Pareto. È la battaglia tra i leoni difensori della sicurezza di tutti, e le volpi, gli speculatori incapaci di rigenerarsi, inerti per paura e che rifiutano di cooptare gente nuova tra le proprie fila.Matteo Salvini e Luigi Di Maio in Italia, sono tutte tappe di questo processo che sta cambiando la fisionomia politica del mondo occidentale. Non è certo la prima volta che accade: «La storia è il cimitero delle élite« scriveva cent'anni fa il maggiore specialista della questione, il sociologo Vilfredo Pareto. E la sociologia della politica è l'anatomo patologo che studia le cause della loro morte. Quali sono le cause della (almeno apparente) fine delle élite recentemente affossate? E che lezioni ne possono trarre i nuovi vincitori?A leggere gli appunti di Pareto, tra i quali mi aggirai in gioventù a Losanna, la ragione principale di queste disfatte è sempre il rifiuto di cooptare tra le proprie file gente nuova, che voglia davvero rigenerare la classe dirigente. La battuta di Matteo Renzi sui padri che «hanno mangiato, ma poi si sono alzati senza pagare il conto« non era male, c'era del vero. Peccato che poi al tavolo si siano seduti i figli di quei poco onorevoli padri, ed abbiano fatto lo stesso, mentre il popolo si era ormai stufato di assistere alla sequenza dei banchettanti strettamente imparentati. In generale, comunque, un'élite va al cimitero quando «gli interessi materiali hanno preso il sopravvento» sugli slanci umani e ideali. Come spiegava appunto Pareto. Giuseppe Prezzolini fondatore della Voce, altro enfant terrible della scena politica italiana, gli dava manforte nell' articolo «L'aristocrazia dei briganti»: «Siamo con Pareto nel disprezzo “per tutta quella parte di classe dominatrice paurosa, imbelle, atrofizzata per l'inerzia... suicida di paura"». Ecco: l'inerzia per paura, rimane da allora (alla vigilia del fascismo) una delle principali caratteristiche delle élite malate, destinate ad essere sostituite da quelle più fresche e dinamiche. Anche perché più motivate dal punto di vista ideale, che le vecchie élite non considerano affatto. La prevalenza di interessi materiali produce infatti in esse un appesantimento, un'intossicazione nelle motivazioni (che Pareto chiama: «residui«), provocando una sorta di sclerosi, un rallentamento nel ricambio e nel movimento. Mentre la presenza di ideali e di attenzione agli interessi collettivi fornisce ai nuovi dirigenti il coraggio di sviluppare e usare la forza, con una determinazione di cui le vecchie élite impaurite non sono più capaci. Iniziative come quella di Matteo Salvini di chiudere i porti alle navi e ai trafficanti di esseri umani, o di Giuseppe Conte che rifiuta di votare il documento Ue nella sua interezza, costringendo gli altri Stati a discuterlo punto per punto, entrando nel merito, sono iniziative forti, impossibili da assumere se dietro non ci sono obiettivi sentiti, che vanno al di là degli interessi individuali. Sono cose possibili solo a chi ha qualità del tipo umano dei «leoni«, che Pareto contrappone a quello delle «volpi«; utilizzando queste categorie già illustrate da Nicolò Machiavelli, capostipite della teoria realista della scienza politica in età moderna (cui anche il sociologo italo-francese aderisce). Il principe dovrebbe comunque avere entrambe le qualità: «Bisogna essere volpe per conoscere ed evitare i lacci, e leone per spaventare i lupi «. Per Pareto, però, i leoni sono i politici che danno una forte importanza agli equilibri che garantiscono l'indispensabile continuazione della società (umana e animale), mentre le volpi astutamente giocano tra le diverse combinazioni possibili, spesso per il proprio interesse personale. I leoni sono i difensori della sicurezza di tutti i cittadini, mentre le abili e veloci volpi corrispondono secondo Pareto agli speculatori, che si diffondono nelle civiltà giunte all'apice della ricchezza, ma dirette verso sicura decadenza appunto per la scarsa attenzione al benessere e sicurezza collettiva. Le volpi-speculatori erano visti già da Pareto (che li chiamava i «virtuisti") come protagonisti di tempi di decadenza, specializzati nell'agitare ideali umanitari o egualitari pur di fare quattrini.Cent'anni dopo quei «virtuisti», furbi sfruttatori di sbandierate «virtù» di cui parla Pareto, abbiamo George Soros, il più grande speculatore della nostra epoca, vecchia e astutissima volpe della finanza internazionale, capace di costringere (ad esempio) in un colpo solo Italia e Inghilterra a svalutare lira e sterlina. Da anni Soros, oltre a speculare contro i diversi interessi nazionali, si batte per la libertà di immigrazione e assieme dei diversi «diritti», scegliendoli accuratamente tra quelli più destabilizzanti per le culture tradizionali dei diversi Paesi. Tanto che Orban ha fatto una legge apposta per impedire alle sue Fondazioni di operare in Ungheria: un caso di studio nella contrapposizione tra élite finanziarie internazionali e interessi di comunità e popoli locali. La lotta serrata tra élite e popoli non è insomma un'astratta elucubrazione, ma un fenomeno storico ricorrente, che spiega precisi fatti della realtà (come fa Pareto, studioso realista). antichi antagonismiDalla rivoluzione francese in poi, comunque, le élite furono sempre più spesso non realiste ma «progressiste», illuministe: convinte dell'inarrestabile progresso della storia insieme a quello della tecnica. Vi appartiene, ad esempio Francis Fukuyama, il professore di Harvard (molto discusso nella sua stessa università) che dopo il crollo del comunismo scrive: La fine della storia. Ormai- sostiene - non ci sono più ragioni di conflitto: finalmente finite le religioni, le ideologie, le credenze irrazionali. Eravamo (quasi) in un paradiso; naturalmente capitalista. Gli rispose il suo vecchio professore, Samuel Huntington, con lo Scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale facendo con realismo notare che dopo la fine dell'Urss in realtà riappaiono le vecchie divisioni e antagonismi tra le antiche culture precedenti a Carlo Marx: occidentale, cristiana orientale (ortodossa), latino-americana, islamica, indù, cinese, giapponese, buddista, africana. Del resto, già in quegli anni diventava visibile la fine della secolarizzazione (morte di Dio e delle credenze religiose), e il riemergere delle preesistenti religioni, in realtà mai morte. Progressiste per interesse, più che per l'umanitarismo più o meno sbandierato, le élite illuministe vengono poi periodicamente affondate (oltre che dalle proprie debolezze) per la loro lontananza dalla gente comune e dai suoi sentimenti, speranze, fedi. L'élite infatti sostituisce la fede religiosa con quella nel progresso, secondo la quale ciò che è accaduto non si ripresenterà e la storia continuerà la sua ascesa. È l'elegante e pagatissimo Tony Blair che lancia l'appello contro il ritorno di «populismi e dazi identici a quelli degli anni Trenta».populismo È democrazia Ma perché si sorprende? Se un commercio internazionale dove sostanzialmente vige la legge del più forte crea disoccupazione e povertà, qualcuno metterà i dazi! La fame vince seccamente la fede nel progresso. Tornano così antiche soluzioni, come appunto il populismo che del resto Cristopher Lasch (il grande sociologo del narcisismo) considera una «tradizione del pensiero democratico». Non una parola da pronunciare con disprezzo, o uno stigma con cui bollare un avversario che non si riesce a confutare, ma una tradizione della democrazia. Quando poi il «progresso» rivela la sua inconsistenza, l'élite ricopre tutto con una zuccherosa glassa che nasconda la verità. Ancora Lasch (La ribellione delle élite): «Le parole-chiave correnti: accoglienza, promozione, abilitazione, esprimono la malinconica speranza che le divisioni profonde che minano la società possano essere colmate da un linguaggio purgato e emendato». Ma il politically correct non ha mai salvato nessuno. Ha invece perso molti: anche queste élite.
Il deputato M5s Leonardo Donno, a destra, aggredisce Paolo Barelli di Forza Italia alla Camera dei Deputati (Ansa)
Alberto Nagel (Getty Images)
Antonio Tajani, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (Ansa)