2019-02-15
Il consumo di olio crolla di un quarto. Eppure l’Italia continua a importarlo
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In cinque anni l'uso è passato da 12 a 9 chili a testa. Ne va della dieta Mediterranea. Intanto il prezzo sale del 31% e le scorte calano a 185.000 tonnellate.La Xylella è un regalo dell'Europa, ormai pare certo. I mancanti o quanto meno allegri controlli sulle merci d'importazioni nei porti del Nord Europa hanno provocato il contagio.La crisi del comparto è una crisi di identità, di mercato, di domanda, di disorganizzazione del settore che pure vien ampiamente finanziato e che ha alcuni protagonisti inamovibili come l'Unaprol, come Federolio.Lo speciale contiene tre articoliBisogna scimmiottare Ennio Flaiano: la situazione dell'olio (extravergine?) in Italia è grave, ma non è seria. La Coldiretti ha portato in piazza Montecitorio a Roma i pastori sardi e gli olivicoltori della Puglia messi in ginocchio da una gestione a dir poco schizofrenica dell'emergenza Xylella fastidiosa. La Coldiretti denuncia - e si lamenta - che la produzione di extravergine di oliva è arrivata quest'anno al di sotto delle 185.000 tonnellate, che il prezzo è schizzato del 31% e che le importazioni di olive e di olio sono diventate di fatto incontrollabili, basta pensare alla Tunisia che ce ne manda il 150% in più. Ricorderemo a volo d'uccello che la Ue per fare la sua politica di accoglienza - incoraggiata dall'Alto Commissario Federica Mogherini, in quota Pd - ha consentito a Tunisi di esportare 91.000 tonnellate di olio in Europa senza pagare dazio. Ma lo hanno fatto anche con i pomodori marocchini, con le arance tunisine, con le nocciole turche. Sempre in danno dell'Italia che ha taciuto a Bruxelles, ma va in piazza a Roma. La Coldiretti - i berretti gialli dell'agricoltura - ci ha fatto sapere dalla protesta capitolina che si sono persi 100.000 posti di lavoro nella filiera, che in Puglia causa Xylella (soprattutto nel Salento leccese) è svanito oltre il 65% della produzione con danni stimabili attorno al miliardo di euro e che abbiamo toccato la quota più bassa di produzione dell'ultimo quarto di secolo. Un paradosso per chi produce il miglior olio del mondo, da oltre 350 cultivar con 45 Dop e 5 Igp, nel momento in cui negli Usa la F&DA (la massima autorità che controlla il cibo) scrive sulle bottiglie: mezzo cucchiaio al giorno è un farmaco. Facendo un bilancio si vede quanto stiamo messi male. Il consumo pro capite degli italiani è passato nel giro di cinque anni da 12 a 9 chili a testa all'anno. Un quarto in meno. E questo nonostante noi siamo i detentori della dieta mediterranea e ci siano state massicce campagne d'invito al consumo di extravergine che è davvero un alimento toccasana. Mangiamo peggio, i cibi etnici sfrattano l'extravergine, l'industria non ne vuole sapere di usare l'olio da olive, siamo sempre più poveri e comprare l'extravergine al prezzo che sarebbe giusto (non meno di 15 euro al chilo) non è da tutti e gli oli di oliva (d'importazione) sono diventati per la Gdo un prodotto civetta. I supermercati da una parte investono negli oli Dop aumentandone l'offerta, dall'altra vendono oli a 1 euro e 75 al litro. Risultato: il consumatore esce frastornato, non capisce perché e dove stanno queste differenze! Nonostante questo ne consumiamo ancora oltre 550.000 tonnellate, ne esportiamo più di 200.000 tonnellate (come faremo quest'anno resta un mistero) e perciò siamo il primo Paese importatore al mondo: un po' meno di un milione di tonnellate. La stessa Coldiretti che giustamente difende gli olivicoltori e che gestisce con Unaprol il principale attore nelle politiche di promozione e di commercializzazione ha lanciato - tra mille polemiche - l'olio «Italico» fatto miscelando il 50% di olio italiano con metà di olio importato. Ha poi spiegato che è un contratto di filiera del valore di 50 milioni di euro e che nelle annate di scarsa produzione questo salvaguarda le aziende. Il presidente di Federolio Francesco Tabano, ha raccontato come riporta www.teatronaturale.it ,un sito specializzato, che «l'olio venduto con il 100% di olive italiane rappresenta solo l'8% del mercato». Ma c'è altro. A incrementare il disastro della Xylella ci hanno pensato la Regione Puglia con il governatore Michele Emiliano che prima ha contestato gli abbattimenti di olivi malati, poi ha dato retta ai suoi colleghi magistrati che hanno inquisito il commissario straordinario all'emergenza ulivi Giuseppe Silletti - mandando all'aria il piano di salvaguardia degli olivi e di contenimento del contagio - e hanno sequestrato 10.000 piante salvo poi dire che si erano sbagliati, poi ha chiesto 100 milioni per i reimpianti. Si è invece dimostrato che gli unici ulivi salentini che si sono salvati sono quelli che insistevano sul tracciato del famigerata Tap (il gasdotto che non piace ai pentastellati). Espiantati sono stati tenuti in silos protetti e curati, poi rimessi a dimora finiti i lavori della Tap ora sono rigogliosissimi. In Puglia gli ulivi sono una cosa seria: ce ne sono almeno 80 milioni di piante e coprono (coprirebbero?) circa il 65% della produzione nazionale. Ma non basta perché in una filiera di 820 mila aziende agricole, ma solo il 40% può dirsi competitivo, 5.000 frantoi con un fatturato che oltrepassa i 3 miliardi di euro si produce un mare di olio di carta. La superficie investita a olivi è circa un milione di ettari, ma ce ne sono altri 800.000 abbandonati e 400.000 in semi abbandono. Eppure sulla carta si fa tanto olio. Perché? È il sistema dei contributi agricoli che vengono dati a pianta sui presupposti di una produzione di olio storica presunta. Cioè se si dimostra che negli anni passati quell'ulivo produceva e si fa vedere che viene coltivato purché stia su un fondo di più di mezzo ettaro si prendono i contributi senza in realtà produrre nulla. Spetterebbe alle Regioni controllare se quell'uliveto è coltivato o no, ma chi se la sente di rinunciare ai voti? Così da una parte l'Europa - che ha fatto una gran fatica a fare chiarezza sull'origine degli oli e sulle etichettature poi ha chiesto cento milioni per i reimpianti, - fa entrare olio extracomunitario senza dazio, dall'altra le Regioni di fatto pagano chi non coltiva. Gli olivicoltori vanno in piazza e hanno ragione, la situazione ancorché gravissima fa scappare dal ridere.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/il-consumo-di-olio-crolla-di-un-quarto-eppure-litalia-continua-a-importarlo-2628953308.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-balletto-della-xylella" data-post-id="2628953308" data-published-at="1758065189" data-use-pagination="False"> Il balletto della Xylella Filari di olivi abbattuti a causa della Xylella iStock La Puglia, e il Salento in particolare, è famosa per un ballo da indemoniate: la taranta: Ebbene ora c'è un'altra danza popolare: è il balletto della Xylella Fastidiosa. È un regalo dell'Europa, ormai pare certo. I mancanti o quanto meno allegri controlli sulle merci d'importazioni nei porti del Nord Europa hanno provocato il contagio. A portare la Xylella in Italia sarebbe stato del legname proveniente dal Sud America e il Cnr di Bari ha stimato che in Europa ci sono ben 42 porte d'ingresso di questo batterio che «mangia» le piante. I focolai non ci sono solo in Italia, la Xylella c'è in Corsica, in Provenza, alle Baleari, nella zona di Alicante, in Andalusia perfino in alcuni vivai in Germania. Ma è da noi, segnatamente nel Salento leccese che l'epidemia ha fatto una strage di piante. Perché? Per colpa (anche) del balletto. La Coldiretti ci ha spiegato nei giorni scorsi che la Xylella ha fatto fuori già venti milioni di piante, ha messo sul lastrico 100.000 occupati della filiera olearia ha ridotto di due terzi la produzione della Puglia che da sola rappresenta il 655 dell'olio prodotto in Italia, che i danni ammontano a 1,2 miliardi e che serve un piano d'intervento urgente. Sappiamo però che il piano europeo di offensiva alla Xylella ha incontrato proprio i Puglia le più forti resistenze. È vero che l'Europa ha la coscienza sporca perché la Xylella – appare ormai certo – è arrivata con il legname importato dal Costa Rica e approdato a Rotterdam dove i controlli fitosanitari sono quelli che sono, ma è anche vero che in Puglia si è fatto di tutto per disattendere i piani d'emergenza suggeriti da Bruxelles e in larga misura condivisi dalla comunità scientifica italiana. Bisognerà pure ricordarsi degli olivicoltori pugliesi – alcuni di questi sono quelli che per anni hanno veduto gli ulivi millenari come piante da giardino agli architetti che arredano le ville dei ricchi – che si sono incatenati agli ulivi per evitare gli abbattimenti. Bisognerà rammentarsi di quanta ostilità ci sia stata nei confronti del Commissario straordinario generale Giuseppe Silletti uno dei massimi esperti di olivicoltura mondiale che si è trovato anche indagato dalla magistratura pugliese che aveva addirittura sequestrato le piante per evitare gli abbattimenti. Come si sa il piano Silletti, che peraltro ricalcava le direttive europee, prevedeva abbattimenti selettive di piante malate e la bonifica nei cento metri di raggio attorno ai focolai con abbattimenti di altre piante. Si era previsto anche l'espianto di quelle sane più prossime ai focolai per metterle a dimora altrove. La riprova che era tutto giusto l'ha data per paradosso il cantiere del Tap (il contestatissimo gasdotto trans asiatico che passa per la Puglia). Si ricorderanno i picchetti per evitare che per scavare la traccia dove passa il gasdotto (larga meno di un metro e profonda al massimo una ventina) venissero estirpati gli ulivi. Addirittura la magistratura intervenne denunciando per disastri ambientale i responsabili dei cantieri. E servì un parere del ministero dell'ambiente per potere procedere all'espianto. Ebbene alcune migliaia di ulivi tolti dai campi a Melendugno nel 2017 e ricoverati in appositi silos dove sono stati curati e coltivati, sono stati rimessi a dimora e sono gli unici che si sono salvati dal disastro Xylella in quella parte del Salento. Segno evidente che il piano Silletti avrebbe funzionato. Evitando che il contagio si propagasse. Perché adesso la situazione è molto peggiorata. Dal Salento leccese ci sono focolai nel brindisino, nel barese e si teme che la Xylella possa attaccare il vero giacimento dell'olio italiano: la zona di Andria dove peraltro il gelo quest'anno ha fatto la sua parte. Ebbene converrà rileggere la parabola del governatore della Puglia Michele Emiliano, uno dei plenipotenziari del Pd. Il 12 ottobre del 2015 prende le distanze dall'Europa ma dichiara: «Le linee guida dell'Ue prevedono la quarantena e gli abbattimenti degli alberi. E su questo la Regione non può che obbedire alle leggi. Non ci sono alternative». Due mesi dopo spiega agli olivicoltori: «Finalmente possiamo contrastare la strategia dell'Europa fondata solo sulla eradicazione degli alberi. Questa strategia viene messa totalmente in dubbio dalle indagini effettuate da magistrati scrupolosi, prestigiosi e notoriamente stimati per la prudenza che li ha sempre contraddistinti nell'esercizio delle funzioni». Era il tempo dei sequestri della piante e dell'inchiesta contro Silletti che poi si dimetterà. Il 27 settembre del 2017 sempre Emiliano dichiara da Bruxelles: «Tagliare adesso sarebbe come quando nei campi di concentramento della Shoah si uccidevano gli ultimi prigionieri mentre stavano arrivando gli Alleati». Salvo poi un ano dopo affermare: «Chiediamo al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che è ministro dell'Agricoltura ad interim, un decreto legge immediato che ci consenta di rispettare le direttive europee e il decreto Martina, per accelerare le procedure di abbattimento degli alberi infetti. Perché con le norme attualmente in vigore abbiamo ancora molte decine di alberi che non riusciamo ad abbattere per vari impicci di natura giuridica». Se non bastasse Emiliano con la legge di bilancio regionale ha poi destinato 10 milioni per l'emergenza Xylella, ma sono una goccia nel mare. Si sta invece facendo dei passi avanti a Roma. Il decreto per il contrasto alla Xylella messo a punto dal ministro per l'agricoltura e turismo Gian Marco Centinaio è stato già approvato dalla conferenza Stato-Regione con l'assessore pugliese all'agricoltura Leonardo di Gioia che sulla faccenda ulivi ha di fatto commissariato Emiliano, e sono pronti 100 milioni di euro di investimenti per eradicare le piante anche nelle cosiddette zone cuscinetto e indennizzare gli olivicoltori. E' il primo vero passo concreto contro l'epidemia. Basta considerare però che sono passati quasi quattro anni dal manifestarsi dell'emergenza. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/il-consumo-di-olio-crolla-di-un-quarto-eppure-litalia-continua-a-importarlo-2628953308.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ok-il-prezzo-e-ingiusto" data-post-id="2628953308" data-published-at="1758065189" data-use-pagination="False"> Ok il prezzo è ingiusto iStock Ma la crisi dell'olio extravergine di oliva è solo di produzione? Sicuramente no. È la crisi di un comparto che ha i piedi nel Medioevo e la testa nel futuro. E' una crisi di identità, di mercato, di domanda, di disorganizzazione del settore che pure vien ampiamente finanziato e che ha alcuni protagonisti inamovibili come l'Unaprol, come Federolio. Ha ragione da vendere Luigi Scordamaglia presidente di Filiera Italia che di fronte alla crisi dell'extravergine e a quella del latte ovino afferma: «Sia la crisi dell'olio che quella del latte sono emblematiche di come sia sbagliato affidarsi alle periodiche incontrollabili condizioni di mercato che oscillano periodicamente tra carenze di prodotto e sovrapproduzione che portano ad oscillazioni di prezzo inaccettabili. Bisogna avere il coraggio di superare tali impostazioni e costruire contratti di Filiera pluriennali che assicurino da un lato certezza di collocazione e dall'altro meccanismi di prezzo che aiutino a coprire costi a volte non competitivi e a compensare i margini tra produzione e trasformazione nelle diverse annate. Servono logiche di accordo pluriennali non speculative a breve con strumenti anche fiscali di vantaggio per chi si impegna in tali contratti con logiche realmente di filiera e di valorizzazione della vera italianità». Perché il primo problema dell'olio in Italia è il prezzo. E poi la trasparenza del mercato. A cominciare dalle etichette. È vero che i supermercati stanno cominciando a promuovere gli oli di qualità aprendo sempre più spazi agli Oli Dop italiani, ma è anche vero che l'olio extravergine è usato come prodotto civetta, per attirare i consumatori. Certo non aiutano le etichette dove si trova l'olio 100 per cento italiano, quello miscelato con oli comunitari (soprattutto spagnoli e greci) quello miscelato con olio extracomunitari (soprattutto tunisino), quello infine di incerta provenienza. Per non dire del fiume di olio d'importazione che diventa magicamente italiano con un po' di scambio di bolle di consegne o di quello che arriva in porto come olio lampante e poi viene rettificato e messo in commercio come olio d'oliva. E anche qui il consumatore tra extravergine, vergine, olio d'oliva, olio di sansa diventa matto per capirci qualcosa. Il bello è che Maurizio Martina (Pd) quando era ministro agricolo spalleggiato da tutti coloro i quali hanno improvvisamente scoperto che c'è la crisi dell'olio in Italia ha varato un piano oleicolo nazionale che è basato su di un solo concetto: distribuire contributi. A un settore che proprio muore di contributi perché abbiamo 800 mila ettari di uliveti abbandonati che però vengono finanziati dalla comunità europea. La verità è che andrebbero recuperati alla produzione, ma questo può avvenire solo se l'extravergine è correttamente remunerato. E il prezzo di un olio al consumo non può essere inferiore ai 15 euro al litro se si tratta di un olio del centro Italia, ai dieci euro se è un olio del Sud, ai 20 euro se è un olio del Nord. Oggi le aziende che coltivano ulivi vivono soprattutto di contributi. Ci sono 5 mila frantoi in Italia e alcuni grandi imbottigliatori (ma i marchi più rappresentativi ce li hanno gli spagnoli che così fanno italian sounding) che detengono oltre il 70% del mercato. Loro determinano il prezzo, loro decidono quanto olio si fa in Italia. Chi sta emergendo dalla crisi sono le aziende molto orientate al marketing e all'export. Anche perché al contrario di quanto sta avvenendo in Italia nel mondo il consumo di extravergine, o comunque da olio da olive, è in continuo fortissimo incremento. In dieci anni è cresciuto del 64%, la Cina ha varato un piano straordinario di piantumazione ad olive e cresce di 17 mila ettari all'anno, oggi già produce oltre 84.000 tonnellate di olio (circa il 40% della produzione di quest'anno dell'Italia) e sta emergendo la produzione si australiana che cilena. Il perché è presto detto. Tra gli oli vegetali nel mondo l'olio da olive rappresenta qualcosa meno del 3% del mercato e della produzione, ma è ormai noto a tutti che è il migliore dal punto di vista nutrizionale. L'Italia avrebbe una straordinaria opportunità, produce i migliori oli del mondo per qualità, ha la maggiore biodiversità (sono 350 le cultivar in produzione), ha la più forte attrattività in fatto di brand. Ma non è in grado di sfidare il mercato dove comandano gli spagnoli che sono i primi produttori al mondo con oltre 1,5 milioni di tonnellate prodotte. Il fato è che gli spagnoli hanno costruito l'industria dell'olio: lavorano solo quattro cultivar, hanno impianti iperintensivi (gli olivi piantati a spalliera) e hanno puntato tutto sulla produzione massiva. Ma stanno andando incontro a enormi problemi. I prezzi alla produzione sono comunque saliti (in Spagna il prezzo medio è sui 2 euro a litro), è esplosa una bolla finanziaria legata al commercio dell'olio, ma soprattutto hanno confinato il loro olio nel mercato delle commodity, dunque a basso valore e aggiunto. In Italia c'è chi propone di imitarli. E basta percorrere la A-14 nel tratto San Severo-Foggia per vedere come stanno attecchendo anche da noi idee legate alla coltivazione iperintensiva (peraltro anche in Toscana si sta andando verso quella direzione in alcune zone). Ma questo significa comprimere ancora di più i margini agricoli. C'è invece la possibilità di percorrere un'altra strada. E' quella di organizzare il settore in filiere collegando la produzione agricola a quella della trasformazione e dando accesso diretto ai mercati ai produttori. Quando questa strada è stata percorsa si sono avuti ottimi risultati. E' il caso ad esempio del comparto dell'olio dei laghi del nord, del Brisighello l'olio del ravenate, di alcuni oli di Sicilia che ormai sui mercati mondiali spuntano prezzi ampiamenti remunerativi. È il caso di quello che sta succedendo in Umbria che pur avendo appena il 2% della produzione nazionale ha la presenza di alcuni di maggiori imbottigliatori europee. Ebbene in Umbria la produzione di qualità locale si organizza in filiere corte e di nicchia e si hanno prezzi che passano anche i 20 euro al litro (è il caso di frantoi come Viola, Guadenzi, di produttori di eccellenza come Casa Gola). E dall'Umbria parte anche una nuova offensiva: la valorizzazione dell'olio in rapporto al territorio e come motore di nuovo turismo. La fascia olivata che va da Assisi a Spoleto (70 chilometri di colline interamente ricoperti di oliveti) è oggi un esempio di livello mondiale. Lì si sono mantenute coltivazioni secolare con i muretti a secco, lì ci sono i cammini e gli eremi francescani, li la produzione di nicchia diviene testimonianza dell'ambiente. La fascia olivata è stata la prima al ondo ad essere riconosciuta dalla Fao come paesaggio agrario produttivo. E questa è la nuova via per tornare a far essere grande (anche nei numeri) l'olio italiano. Come dice il presidente nazionale delle Città dell'Olio (associazione che compie quest'anno il quarto di vita e che riunisce 330 comuni che vivono di produzione olearia) Enrico Lupi: «E' il valore territorio che serve a vendere meglio l'extravergine. Certo il mercato si sta dividendo in oli che costano poco e in eccellenza, ma l'Italia deve riconquistare quel posto. E' quello il nostro olio: costa caro, ma vale di più quello che costa perché rappresenta territori unici, dà corpo alla nostra biodiversità, costituisce il primo alimento della dieta mediterranea». A chi oggi si dispera per la crisi della Xylella va contrapposto questo modello che avrà peraltro un'ampia rappresentazione a Trieste dal 15 a l 18 con la 13° edizione di Oliocapitale (www.oliocapitale.it) la rassegna dedicata solo agli oli extravergine di qualità dove si porrà l'accento sul recupero di produzione non attraverso un'olivicoltura massiva, ma attraverso la rimessa in produzione degli oliveti abbandonati incrementando la remunerazione del prodotto anche con l'ausilio del turismo dell'olio e soprattutto con l'aggancio ai valori dei singoli territori. Del resto questa è stata la strada del successo di tutto il made in Italy agroalimentare. E verso questa direzione si sta orientando anche il ministro Gian Marco Centinaio che punta molto sul turismo rurale per la valorizzazione dell'agricoltura. E' già tempo per l'Italia di riscrivere il piano nazionale per premiare la qualità piuttosto che le rendite.