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2019-02-19
Il caso Finkielkraut ci mostra cos’è l’islam
Ansa
Il filosofo francese Alain Finkielkraut è stato aggredito a Parigi da alcuni gilet gialli, al grido di «sionista merda» e «Palestina». Alain Finkielkraut è ebreo e l'antisemitismo in Europa, accuratamente camuffato da antisionismo, sta raggiungendo livelli mostruosi. Finkielkraut afferma in tv che uno degli aggressori era verosimilmente un islamico. La frase «Dio ti punirà» è una frase da islamico, mentre gli altri slogan sono propri dell'antisemitismo europeo camuffato da antisionismo.
Se vogliamo capire cosa sta succedendo è utile leggere il libro di Alain Finkielkraut L'identità infelice, che descrive una Francia invasa, sempre più antisemita e anticristiana, sempre più violenta e invivibile. L'integrazione non ha funzionato. Le terze generazioni sono sempre più insofferenti a un sistema che non amano, che fondamentalmente disprezzano e al quale, quindi non desiderano uniformarsi. Certo, non tutte le persone di origine islamica sono assolutamente contrarie a qualsiasi tipo di integrazione con la popolazione autoctona. È sufficiente che il 20% sia assolutamente contrario a qualsiasi integrazione e a qualsiasi equilibrio, perché la vita dei cosiddetti autoctoni diventi un inferno.
È sufficiente avere un unico ragazzo su una classe che afferma che lui non prende ordini dai bianchi e dagli infedeli, e ovviamente dalle donne, perché la vita di un professore e di una professoressa diventino un incubo. È sufficiente che tre coinquilini su venti siano aggressivi e violenti perché la vita dell'unico anziano rimasto in un caseggiato ormai interamente arabo diventi un incubo. Il libro L'identità infelice è quindi un libro di cui raccomando la lettura, per avere un'idea di cosa succede in Francia, di come l'integrazione non sia una questione di generazioni e di buona volontà. L'Islam non può integrarsi. Inoltre, nessuno desidera fare lo sforzo enorme che è l'integrazione se deve integrarsi con una società che disprezza, che ammira da un punto di vista tecnologico, di cui invidia la ricchezza, ma che fondamentalmente disprezza. Quello su cui il libro è terribilmente deficitario, invece, è la causa: spiegare perché, come siamo arrivati a tutto questo.
Da questo punto di vista il libro del filosofo francese somiglia molto ai libri di Pim Fortuyn, il politico olandese assassinato 16 anni fa. I suoi titoli La società orfana e Contro l'islamizzazione della nostra cultura sono distribuiti dall'associazione Carlo Cattaneo di Pordenone, e sono libri imperdibili per chi vuole cercare di capire come è avvenuto il nostro suicidio, sono molto lucidi sul cosa sta succedendo, e questo è meritevole perché non sono molti i testi altrettanto lucidi. Entrambi i libri però non spiegano perché è successo, esattamente come non lo spiega L'identità infelice. Sia il filosofo francese che l'uomo politico olandese sono due ex sessantottini: entrambi ricordano con dolce nostalgia quel meraviglioso periodo in cui sembrava che le libertà sbocciassero l'una dopo l'altra e fiorire sul patriarcalismo cristiano, un sistema rigido e granitico che finalmente si riempiva di margherite. Entrambi gli autori si chiedono come sia stato possibile partire da una spumeggiante meraviglia e approdare alle periferie in fiamme. La risposta è che è stato proprio il '68 la causa di tutto. Il disastro è stato proprio quello stesso '68 per cui sia il filosofo francese sia il bravo politico olandese hanno gioito. La società patriarcale cristiana aveva suoi indubbi difetti e aveva enormi possibilità di essere migliorata, ma era una società viva e vitale e, soprattutto, affascinante. Era in grado di interagire con l'islam, era in grado di affascinarne i figli al punto tale che loro desideravano integrarsi esattamente come è successo negli anni Cinquanta e Sessanta.
Il 1968 è stato la distruzione del padre. Il 1968 è stata distruzione del rito condiviso, civile e religioso, quindi del senso di affiliazione al gruppo. Ogni ruolo maschile, inclusa la difesa del territorio da parte del soldato e la difesa del quartiere da parte del poliziotto, è visto con disprezzo e stigmatizzato con l'eterno appellativo «fascista». La società diventa carina, multiculturale, postcristiana, vegetariana e gay friendly. Palate di diritti umani dall'aborto alla contraccezione passando dal divorzio frantumano il senso della famiglia e abbattono la natalità. Postcristiani, liberi e osceni siamo diventati una società non vitale e soprattutto non affascinante. I giovani islamici ci disprezzano: ogni integrazione è impossibile. Il 1968 è stato distruzione di ogni gerarchia, anche delle più ovvie e irrinunciabili. Una volta attaccata la famiglia, il divorzio e la contraccezione hanno ridotto la nostra sessualità a puro e sterile erotismo, sempre più spinto e sguaiato, ci hanno reso un'umanità di gente sola, disperata, inacidita, senza radici. L'unico valore non negoziabile della nuova Chiesa 2.0 è l'ingresso di una popolazione estranea che non ci ama, e il mito che con la buona volontà tutto si risolverà.
Perché? La risposta l'ha intuita Oriana Fallaci. L'islam si ferma solo per via religiosa, non per via laica. L'occidente cristiano ha fermato l'islam per secoli, l'occidente postcristiano e quindi laico non ha nessuna possibilità. La via laica è stupida. Pensare di fermare un sistema forte con un sistema debole è stupido. Pensare di convertire gli islamici alla laicità è stupido, mentre convertirli al cristianesimo è estremamente facile oltre che logico. La via laica ci porta al disastro: se ancora avete dei dubbi leggete i libri del filosofo francese e dell'uomo politico olandese.
Dallo scontro con l'islam possiamo uscirne vittoriosi solo per via religiosa. Prima convertiamo noi stessi e poi convertiamo loro. E non sarà certo la nuova Chiesa 2.0 a poterlo fare, quindi dobbiamo essere noi laici ad andare avanti, in attesa di una chiesa migliore.
«Il fascismo non c’entra». Così lo scrittore spiazza i commentatori
«Non siamo di fronte al grande ritorno degli anni Trenta». A smontare l'allarme per il fascismo montante, dopo l'aggressione verbale al filosofo Alain Finkielkraut, ci ha pensato… Alain Finkielkraut, che a una perplessa giornalista di Bfm Tv ha spiegato come gli insulti piovuti su di lui a margine della manifestazione dei gilet gialli derivino direttamente dal «discorso dell'islamismo più estremista». E infatti, da quel che si è appreso, il più esagitato del gruppetto era conosciuto dalle forze dell'ordine proprio per la sua adesione all'islam radicale. Ferma restando la necessità, per i gilet gialli, di un servizio d'ordine che li tuteli da tali infiltrazioni, resta comunque un bel cortocircuito, almeno per il commentatore unico dalle spiegazioni facili. Ma non è tutto, perché Finkielkraut ha continuato: «Il barbuto mi ha detto: “La Francia è nostra". Questa frase terribile significa: noi siamo la grande sostituzione e tu sarai il primo a pagare». Per poi aggiungere: «Chi mi ha difeso dagli attacchi? Marine Le Pen».
Insomma, mentre gli editorialisti di mezza Europa corrono per accollare l'aggressione al clima sovranista, la vittima ne dà invece un'interpretazione eminentemente sovranista. Finkielkraut è del resto un pensatore complesso, difficilmente riciclabile in termini di anti populismo militante. Lo scorso novembre, per esempio, in una trasmissione tv definiva i gilet gialli come «i lasciati indietro dalla nuova economia, i dimenticati dalla sociologia e anche gli indesiderati di ogni progressismo, il progressismo di sinistra, ma anche il progressismo macroniano». E ai primi di dicembre, pur prendendo le distanze dalle violenze del movimento, spiegava a Le Figaro che si trattava di una rivolta delle classi medie vittime «di un doppio stato di insicurezza economica e di insicurezza culturale». Ovvero di «persone ordinarie cacciate dalle metropoli dagli affitti proibiti e dalle banlieue perché hanno perduto quella che Christophe Guilluy chiama “la guerra degli sguardi"», ovvero coloro che abbassano lo sguardo per strada nei quartieri a forte presenza immigrata.
Maoista in gioventù, poi allontanatosi dall'estrema sinistra per il suo sostegno a Israele, Finkielkraut non è nuovo a posizioni controverse. Si tratta, per esempio, di un iscritto alla Licra, potente organizzazione antirazzista francese almeno dal 1985, che tuttavia ha definito l'antirazzismo «il comunismo del XXI secolo», e non certo in senso elogiativo.
Qualche tempo fa, allo sbigottito intervistatore del Corriere della Sera, confessava: «Quando l'ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti anticomunista. La pagavi cara, certo, come l'ha pagata cara Albert Camus, ma era possibile. [...] Ma di fronte all'antirazzismo, io sono disarmato». Nel 2005, in un'intervista al quotidiano israeliano Haaretz, stigmatizzò le violenze nelle banlieue, spiegando che «in Francia ci sono altri immigrati la cui situazione è difficile - cinesi, vietnamiti, portoghesi - ma loro non prendono parte ai tafferugli. E questo perché è chiaro che tali rivolte hanno un carattere etnico e religioso». Il Mrap, un'altra Ong antirazzista, fu a un passo dal denunciarlo, mentre il giornale comunista L'Humanité scrisse: «Finkielkraut s'inabissa in una diatriba razzista». Non a caso, nel 2002 Daniel Lindenberg lo aveva inserito in un suo libro sui «nuovi reazionari».
Jacques Bolo, nel suo saggio critico intitolato La pensée Finkielkraut, così giudicava le tesi dello scrittore: «È l'etnocentrismo ipocrita dei razzisti istruiti che accusano neri e arabi di razzismo anti bianco per giustificare il proprio razzismo invece di condannare il razzismo in generale».
In uno dei suoi ultimi libri, L'identità infelice, Finkielkraut scrive che se esistono i demoni dell'identità, oggi «esistono anche i demoni dell'universale», cioè l'oicofobia, secondo il neologismo di Roger Scruton ripreso da Finkielkraut, ovvero l'odio del Paese natio. E, riassumendo le tesi degli immigrazionisti, scrive: «La Francia, l'Europa, l'Occidente hanno molto peccato nel voler piegare l'Altro alla ragione: ci viene offerta l'occasione di essere purificati da noi stessi (e dalle nostre colpe passate) a opera dell'Altro». Se è il «clima sovranista» ad aver generato l'attacco contro di lui, allora tanto vale dire che Finkielkraut si è attaccato da solo.
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Il filosofo insultato a margine del corteo dei gilet gialli da un islamista aveva parlato nei suoi libri dei pericoli dell'accoglienza. Per capire come siamo arrivati a questo punto, bisogna leggere lui e Pim Fortuyn. Per sapere perché, invece, resta sempre Oriana Fallaci.Alain Finkielkraut rifiuta le illazioni sul «clima d'odio sovranista»: «Chi mi ha attaccato rivendicava la sostituzione di popolo».Lo speciale contiene due articoli.Il filosofo francese Alain Finkielkraut è stato aggredito a Parigi da alcuni gilet gialli, al grido di «sionista merda» e «Palestina». Alain Finkielkraut è ebreo e l'antisemitismo in Europa, accuratamente camuffato da antisionismo, sta raggiungendo livelli mostruosi. Finkielkraut afferma in tv che uno degli aggressori era verosimilmente un islamico. La frase «Dio ti punirà» è una frase da islamico, mentre gli altri slogan sono propri dell'antisemitismo europeo camuffato da antisionismo. Se vogliamo capire cosa sta succedendo è utile leggere il libro di Alain Finkielkraut L'identità infelice, che descrive una Francia invasa, sempre più antisemita e anticristiana, sempre più violenta e invivibile. L'integrazione non ha funzionato. Le terze generazioni sono sempre più insofferenti a un sistema che non amano, che fondamentalmente disprezzano e al quale, quindi non desiderano uniformarsi. Certo, non tutte le persone di origine islamica sono assolutamente contrarie a qualsiasi tipo di integrazione con la popolazione autoctona. È sufficiente che il 20% sia assolutamente contrario a qualsiasi integrazione e a qualsiasi equilibrio, perché la vita dei cosiddetti autoctoni diventi un inferno. È sufficiente avere un unico ragazzo su una classe che afferma che lui non prende ordini dai bianchi e dagli infedeli, e ovviamente dalle donne, perché la vita di un professore e di una professoressa diventino un incubo. È sufficiente che tre coinquilini su venti siano aggressivi e violenti perché la vita dell'unico anziano rimasto in un caseggiato ormai interamente arabo diventi un incubo. Il libro L'identità infelice è quindi un libro di cui raccomando la lettura, per avere un'idea di cosa succede in Francia, di come l'integrazione non sia una questione di generazioni e di buona volontà. L'Islam non può integrarsi. Inoltre, nessuno desidera fare lo sforzo enorme che è l'integrazione se deve integrarsi con una società che disprezza, che ammira da un punto di vista tecnologico, di cui invidia la ricchezza, ma che fondamentalmente disprezza. Quello su cui il libro è terribilmente deficitario, invece, è la causa: spiegare perché, come siamo arrivati a tutto questo. Da questo punto di vista il libro del filosofo francese somiglia molto ai libri di Pim Fortuyn, il politico olandese assassinato 16 anni fa. I suoi titoli La società orfana e Contro l'islamizzazione della nostra cultura sono distribuiti dall'associazione Carlo Cattaneo di Pordenone, e sono libri imperdibili per chi vuole cercare di capire come è avvenuto il nostro suicidio, sono molto lucidi sul cosa sta succedendo, e questo è meritevole perché non sono molti i testi altrettanto lucidi. Entrambi i libri però non spiegano perché è successo, esattamente come non lo spiega L'identità infelice. Sia il filosofo francese che l'uomo politico olandese sono due ex sessantottini: entrambi ricordano con dolce nostalgia quel meraviglioso periodo in cui sembrava che le libertà sbocciassero l'una dopo l'altra e fiorire sul patriarcalismo cristiano, un sistema rigido e granitico che finalmente si riempiva di margherite. Entrambi gli autori si chiedono come sia stato possibile partire da una spumeggiante meraviglia e approdare alle periferie in fiamme. La risposta è che è stato proprio il '68 la causa di tutto. Il disastro è stato proprio quello stesso '68 per cui sia il filosofo francese sia il bravo politico olandese hanno gioito. La società patriarcale cristiana aveva suoi indubbi difetti e aveva enormi possibilità di essere migliorata, ma era una società viva e vitale e, soprattutto, affascinante. Era in grado di interagire con l'islam, era in grado di affascinarne i figli al punto tale che loro desideravano integrarsi esattamente come è successo negli anni Cinquanta e Sessanta. Il 1968 è stato la distruzione del padre. Il 1968 è stata distruzione del rito condiviso, civile e religioso, quindi del senso di affiliazione al gruppo. Ogni ruolo maschile, inclusa la difesa del territorio da parte del soldato e la difesa del quartiere da parte del poliziotto, è visto con disprezzo e stigmatizzato con l'eterno appellativo «fascista». La società diventa carina, multiculturale, postcristiana, vegetariana e gay friendly. Palate di diritti umani dall'aborto alla contraccezione passando dal divorzio frantumano il senso della famiglia e abbattono la natalità. Postcristiani, liberi e osceni siamo diventati una società non vitale e soprattutto non affascinante. I giovani islamici ci disprezzano: ogni integrazione è impossibile. Il 1968 è stato distruzione di ogni gerarchia, anche delle più ovvie e irrinunciabili. Una volta attaccata la famiglia, il divorzio e la contraccezione hanno ridotto la nostra sessualità a puro e sterile erotismo, sempre più spinto e sguaiato, ci hanno reso un'umanità di gente sola, disperata, inacidita, senza radici. L'unico valore non negoziabile della nuova Chiesa 2.0 è l'ingresso di una popolazione estranea che non ci ama, e il mito che con la buona volontà tutto si risolverà.Perché? La risposta l'ha intuita Oriana Fallaci. L'islam si ferma solo per via religiosa, non per via laica. L'occidente cristiano ha fermato l'islam per secoli, l'occidente postcristiano e quindi laico non ha nessuna possibilità. La via laica è stupida. Pensare di fermare un sistema forte con un sistema debole è stupido. Pensare di convertire gli islamici alla laicità è stupido, mentre convertirli al cristianesimo è estremamente facile oltre che logico. La via laica ci porta al disastro: se ancora avete dei dubbi leggete i libri del filosofo francese e dell'uomo politico olandese.Dallo scontro con l'islam possiamo uscirne vittoriosi solo per via religiosa. Prima convertiamo noi stessi e poi convertiamo loro. E non sarà certo la nuova Chiesa 2.0 a poterlo fare, quindi dobbiamo essere noi laici ad andare avanti, in attesa di una chiesa migliore.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-caso-finkielkraut-ci-mostra-cose-lislam-2629318908.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-fascismo-non-centra-cosi-lo-scrittore-spiazza-i-commentatori" data-post-id="2629318908" data-published-at="1765819079" data-use-pagination="False"> «Il fascismo non c’entra». Così lo scrittore spiazza i commentatori «Non siamo di fronte al grande ritorno degli anni Trenta». A smontare l'allarme per il fascismo montante, dopo l'aggressione verbale al filosofo Alain Finkielkraut, ci ha pensato… Alain Finkielkraut, che a una perplessa giornalista di Bfm Tv ha spiegato come gli insulti piovuti su di lui a margine della manifestazione dei gilet gialli derivino direttamente dal «discorso dell'islamismo più estremista». E infatti, da quel che si è appreso, il più esagitato del gruppetto era conosciuto dalle forze dell'ordine proprio per la sua adesione all'islam radicale. Ferma restando la necessità, per i gilet gialli, di un servizio d'ordine che li tuteli da tali infiltrazioni, resta comunque un bel cortocircuito, almeno per il commentatore unico dalle spiegazioni facili. Ma non è tutto, perché Finkielkraut ha continuato: «Il barbuto mi ha detto: “La Francia è nostra". Questa frase terribile significa: noi siamo la grande sostituzione e tu sarai il primo a pagare». Per poi aggiungere: «Chi mi ha difeso dagli attacchi? Marine Le Pen». Insomma, mentre gli editorialisti di mezza Europa corrono per accollare l'aggressione al clima sovranista, la vittima ne dà invece un'interpretazione eminentemente sovranista. Finkielkraut è del resto un pensatore complesso, difficilmente riciclabile in termini di anti populismo militante. Lo scorso novembre, per esempio, in una trasmissione tv definiva i gilet gialli come «i lasciati indietro dalla nuova economia, i dimenticati dalla sociologia e anche gli indesiderati di ogni progressismo, il progressismo di sinistra, ma anche il progressismo macroniano». E ai primi di dicembre, pur prendendo le distanze dalle violenze del movimento, spiegava a Le Figaro che si trattava di una rivolta delle classi medie vittime «di un doppio stato di insicurezza economica e di insicurezza culturale». Ovvero di «persone ordinarie cacciate dalle metropoli dagli affitti proibiti e dalle banlieue perché hanno perduto quella che Christophe Guilluy chiama “la guerra degli sguardi"», ovvero coloro che abbassano lo sguardo per strada nei quartieri a forte presenza immigrata. Maoista in gioventù, poi allontanatosi dall'estrema sinistra per il suo sostegno a Israele, Finkielkraut non è nuovo a posizioni controverse. Si tratta, per esempio, di un iscritto alla Licra, potente organizzazione antirazzista francese almeno dal 1985, che tuttavia ha definito l'antirazzismo «il comunismo del XXI secolo», e non certo in senso elogiativo. Qualche tempo fa, allo sbigottito intervistatore del Corriere della Sera, confessava: «Quando l'ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti anticomunista. La pagavi cara, certo, come l'ha pagata cara Albert Camus, ma era possibile. [...] Ma di fronte all'antirazzismo, io sono disarmato». Nel 2005, in un'intervista al quotidiano israeliano Haaretz, stigmatizzò le violenze nelle banlieue, spiegando che «in Francia ci sono altri immigrati la cui situazione è difficile - cinesi, vietnamiti, portoghesi - ma loro non prendono parte ai tafferugli. E questo perché è chiaro che tali rivolte hanno un carattere etnico e religioso». Il Mrap, un'altra Ong antirazzista, fu a un passo dal denunciarlo, mentre il giornale comunista L'Humanité scrisse: «Finkielkraut s'inabissa in una diatriba razzista». Non a caso, nel 2002 Daniel Lindenberg lo aveva inserito in un suo libro sui «nuovi reazionari». Jacques Bolo, nel suo saggio critico intitolato La pensée Finkielkraut, così giudicava le tesi dello scrittore: «È l'etnocentrismo ipocrita dei razzisti istruiti che accusano neri e arabi di razzismo anti bianco per giustificare il proprio razzismo invece di condannare il razzismo in generale». In uno dei suoi ultimi libri, L'identità infelice, Finkielkraut scrive che se esistono i demoni dell'identità, oggi «esistono anche i demoni dell'universale», cioè l'oicofobia, secondo il neologismo di Roger Scruton ripreso da Finkielkraut, ovvero l'odio del Paese natio. E, riassumendo le tesi degli immigrazionisti, scrive: «La Francia, l'Europa, l'Occidente hanno molto peccato nel voler piegare l'Altro alla ragione: ci viene offerta l'occasione di essere purificati da noi stessi (e dalle nostre colpe passate) a opera dell'Altro». Se è il «clima sovranista» ad aver generato l'attacco contro di lui, allora tanto vale dire che Finkielkraut si è attaccato da solo.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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