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2019-02-19
Il caso Finkielkraut ci mostra cos’è l’islam
Ansa
Il filosofo francese Alain Finkielkraut è stato aggredito a Parigi da alcuni gilet gialli, al grido di «sionista merda» e «Palestina». Alain Finkielkraut è ebreo e l'antisemitismo in Europa, accuratamente camuffato da antisionismo, sta raggiungendo livelli mostruosi. Finkielkraut afferma in tv che uno degli aggressori era verosimilmente un islamico. La frase «Dio ti punirà» è una frase da islamico, mentre gli altri slogan sono propri dell'antisemitismo europeo camuffato da antisionismo.
Se vogliamo capire cosa sta succedendo è utile leggere il libro di Alain Finkielkraut L'identità infelice, che descrive una Francia invasa, sempre più antisemita e anticristiana, sempre più violenta e invivibile. L'integrazione non ha funzionato. Le terze generazioni sono sempre più insofferenti a un sistema che non amano, che fondamentalmente disprezzano e al quale, quindi non desiderano uniformarsi. Certo, non tutte le persone di origine islamica sono assolutamente contrarie a qualsiasi tipo di integrazione con la popolazione autoctona. È sufficiente che il 20% sia assolutamente contrario a qualsiasi integrazione e a qualsiasi equilibrio, perché la vita dei cosiddetti autoctoni diventi un inferno.
È sufficiente avere un unico ragazzo su una classe che afferma che lui non prende ordini dai bianchi e dagli infedeli, e ovviamente dalle donne, perché la vita di un professore e di una professoressa diventino un incubo. È sufficiente che tre coinquilini su venti siano aggressivi e violenti perché la vita dell'unico anziano rimasto in un caseggiato ormai interamente arabo diventi un incubo. Il libro L'identità infelice è quindi un libro di cui raccomando la lettura, per avere un'idea di cosa succede in Francia, di come l'integrazione non sia una questione di generazioni e di buona volontà. L'Islam non può integrarsi. Inoltre, nessuno desidera fare lo sforzo enorme che è l'integrazione se deve integrarsi con una società che disprezza, che ammira da un punto di vista tecnologico, di cui invidia la ricchezza, ma che fondamentalmente disprezza. Quello su cui il libro è terribilmente deficitario, invece, è la causa: spiegare perché, come siamo arrivati a tutto questo.
Da questo punto di vista il libro del filosofo francese somiglia molto ai libri di Pim Fortuyn, il politico olandese assassinato 16 anni fa. I suoi titoli La società orfana e Contro l'islamizzazione della nostra cultura sono distribuiti dall'associazione Carlo Cattaneo di Pordenone, e sono libri imperdibili per chi vuole cercare di capire come è avvenuto il nostro suicidio, sono molto lucidi sul cosa sta succedendo, e questo è meritevole perché non sono molti i testi altrettanto lucidi. Entrambi i libri però non spiegano perché è successo, esattamente come non lo spiega L'identità infelice. Sia il filosofo francese che l'uomo politico olandese sono due ex sessantottini: entrambi ricordano con dolce nostalgia quel meraviglioso periodo in cui sembrava che le libertà sbocciassero l'una dopo l'altra e fiorire sul patriarcalismo cristiano, un sistema rigido e granitico che finalmente si riempiva di margherite. Entrambi gli autori si chiedono come sia stato possibile partire da una spumeggiante meraviglia e approdare alle periferie in fiamme. La risposta è che è stato proprio il '68 la causa di tutto. Il disastro è stato proprio quello stesso '68 per cui sia il filosofo francese sia il bravo politico olandese hanno gioito. La società patriarcale cristiana aveva suoi indubbi difetti e aveva enormi possibilità di essere migliorata, ma era una società viva e vitale e, soprattutto, affascinante. Era in grado di interagire con l'islam, era in grado di affascinarne i figli al punto tale che loro desideravano integrarsi esattamente come è successo negli anni Cinquanta e Sessanta.
Il 1968 è stato la distruzione del padre. Il 1968 è stata distruzione del rito condiviso, civile e religioso, quindi del senso di affiliazione al gruppo. Ogni ruolo maschile, inclusa la difesa del territorio da parte del soldato e la difesa del quartiere da parte del poliziotto, è visto con disprezzo e stigmatizzato con l'eterno appellativo «fascista». La società diventa carina, multiculturale, postcristiana, vegetariana e gay friendly. Palate di diritti umani dall'aborto alla contraccezione passando dal divorzio frantumano il senso della famiglia e abbattono la natalità. Postcristiani, liberi e osceni siamo diventati una società non vitale e soprattutto non affascinante. I giovani islamici ci disprezzano: ogni integrazione è impossibile. Il 1968 è stato distruzione di ogni gerarchia, anche delle più ovvie e irrinunciabili. Una volta attaccata la famiglia, il divorzio e la contraccezione hanno ridotto la nostra sessualità a puro e sterile erotismo, sempre più spinto e sguaiato, ci hanno reso un'umanità di gente sola, disperata, inacidita, senza radici. L'unico valore non negoziabile della nuova Chiesa 2.0 è l'ingresso di una popolazione estranea che non ci ama, e il mito che con la buona volontà tutto si risolverà.
Perché? La risposta l'ha intuita Oriana Fallaci. L'islam si ferma solo per via religiosa, non per via laica. L'occidente cristiano ha fermato l'islam per secoli, l'occidente postcristiano e quindi laico non ha nessuna possibilità. La via laica è stupida. Pensare di fermare un sistema forte con un sistema debole è stupido. Pensare di convertire gli islamici alla laicità è stupido, mentre convertirli al cristianesimo è estremamente facile oltre che logico. La via laica ci porta al disastro: se ancora avete dei dubbi leggete i libri del filosofo francese e dell'uomo politico olandese.
Dallo scontro con l'islam possiamo uscirne vittoriosi solo per via religiosa. Prima convertiamo noi stessi e poi convertiamo loro. E non sarà certo la nuova Chiesa 2.0 a poterlo fare, quindi dobbiamo essere noi laici ad andare avanti, in attesa di una chiesa migliore.
«Il fascismo non c’entra». Così lo scrittore spiazza i commentatori
«Non siamo di fronte al grande ritorno degli anni Trenta». A smontare l'allarme per il fascismo montante, dopo l'aggressione verbale al filosofo Alain Finkielkraut, ci ha pensato… Alain Finkielkraut, che a una perplessa giornalista di Bfm Tv ha spiegato come gli insulti piovuti su di lui a margine della manifestazione dei gilet gialli derivino direttamente dal «discorso dell'islamismo più estremista». E infatti, da quel che si è appreso, il più esagitato del gruppetto era conosciuto dalle forze dell'ordine proprio per la sua adesione all'islam radicale. Ferma restando la necessità, per i gilet gialli, di un servizio d'ordine che li tuteli da tali infiltrazioni, resta comunque un bel cortocircuito, almeno per il commentatore unico dalle spiegazioni facili. Ma non è tutto, perché Finkielkraut ha continuato: «Il barbuto mi ha detto: “La Francia è nostra". Questa frase terribile significa: noi siamo la grande sostituzione e tu sarai il primo a pagare». Per poi aggiungere: «Chi mi ha difeso dagli attacchi? Marine Le Pen».
Insomma, mentre gli editorialisti di mezza Europa corrono per accollare l'aggressione al clima sovranista, la vittima ne dà invece un'interpretazione eminentemente sovranista. Finkielkraut è del resto un pensatore complesso, difficilmente riciclabile in termini di anti populismo militante. Lo scorso novembre, per esempio, in una trasmissione tv definiva i gilet gialli come «i lasciati indietro dalla nuova economia, i dimenticati dalla sociologia e anche gli indesiderati di ogni progressismo, il progressismo di sinistra, ma anche il progressismo macroniano». E ai primi di dicembre, pur prendendo le distanze dalle violenze del movimento, spiegava a Le Figaro che si trattava di una rivolta delle classi medie vittime «di un doppio stato di insicurezza economica e di insicurezza culturale». Ovvero di «persone ordinarie cacciate dalle metropoli dagli affitti proibiti e dalle banlieue perché hanno perduto quella che Christophe Guilluy chiama “la guerra degli sguardi"», ovvero coloro che abbassano lo sguardo per strada nei quartieri a forte presenza immigrata.
Maoista in gioventù, poi allontanatosi dall'estrema sinistra per il suo sostegno a Israele, Finkielkraut non è nuovo a posizioni controverse. Si tratta, per esempio, di un iscritto alla Licra, potente organizzazione antirazzista francese almeno dal 1985, che tuttavia ha definito l'antirazzismo «il comunismo del XXI secolo», e non certo in senso elogiativo.
Qualche tempo fa, allo sbigottito intervistatore del Corriere della Sera, confessava: «Quando l'ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti anticomunista. La pagavi cara, certo, come l'ha pagata cara Albert Camus, ma era possibile. [...] Ma di fronte all'antirazzismo, io sono disarmato». Nel 2005, in un'intervista al quotidiano israeliano Haaretz, stigmatizzò le violenze nelle banlieue, spiegando che «in Francia ci sono altri immigrati la cui situazione è difficile - cinesi, vietnamiti, portoghesi - ma loro non prendono parte ai tafferugli. E questo perché è chiaro che tali rivolte hanno un carattere etnico e religioso». Il Mrap, un'altra Ong antirazzista, fu a un passo dal denunciarlo, mentre il giornale comunista L'Humanité scrisse: «Finkielkraut s'inabissa in una diatriba razzista». Non a caso, nel 2002 Daniel Lindenberg lo aveva inserito in un suo libro sui «nuovi reazionari».
Jacques Bolo, nel suo saggio critico intitolato La pensée Finkielkraut, così giudicava le tesi dello scrittore: «È l'etnocentrismo ipocrita dei razzisti istruiti che accusano neri e arabi di razzismo anti bianco per giustificare il proprio razzismo invece di condannare il razzismo in generale».
In uno dei suoi ultimi libri, L'identità infelice, Finkielkraut scrive che se esistono i demoni dell'identità, oggi «esistono anche i demoni dell'universale», cioè l'oicofobia, secondo il neologismo di Roger Scruton ripreso da Finkielkraut, ovvero l'odio del Paese natio. E, riassumendo le tesi degli immigrazionisti, scrive: «La Francia, l'Europa, l'Occidente hanno molto peccato nel voler piegare l'Altro alla ragione: ci viene offerta l'occasione di essere purificati da noi stessi (e dalle nostre colpe passate) a opera dell'Altro». Se è il «clima sovranista» ad aver generato l'attacco contro di lui, allora tanto vale dire che Finkielkraut si è attaccato da solo.
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Il filosofo insultato a margine del corteo dei gilet gialli da un islamista aveva parlato nei suoi libri dei pericoli dell'accoglienza. Per capire come siamo arrivati a questo punto, bisogna leggere lui e Pim Fortuyn. Per sapere perché, invece, resta sempre Oriana Fallaci.Alain Finkielkraut rifiuta le illazioni sul «clima d'odio sovranista»: «Chi mi ha attaccato rivendicava la sostituzione di popolo».Lo speciale contiene due articoli.Il filosofo francese Alain Finkielkraut è stato aggredito a Parigi da alcuni gilet gialli, al grido di «sionista merda» e «Palestina». Alain Finkielkraut è ebreo e l'antisemitismo in Europa, accuratamente camuffato da antisionismo, sta raggiungendo livelli mostruosi. Finkielkraut afferma in tv che uno degli aggressori era verosimilmente un islamico. La frase «Dio ti punirà» è una frase da islamico, mentre gli altri slogan sono propri dell'antisemitismo europeo camuffato da antisionismo. Se vogliamo capire cosa sta succedendo è utile leggere il libro di Alain Finkielkraut L'identità infelice, che descrive una Francia invasa, sempre più antisemita e anticristiana, sempre più violenta e invivibile. L'integrazione non ha funzionato. Le terze generazioni sono sempre più insofferenti a un sistema che non amano, che fondamentalmente disprezzano e al quale, quindi non desiderano uniformarsi. Certo, non tutte le persone di origine islamica sono assolutamente contrarie a qualsiasi tipo di integrazione con la popolazione autoctona. È sufficiente che il 20% sia assolutamente contrario a qualsiasi integrazione e a qualsiasi equilibrio, perché la vita dei cosiddetti autoctoni diventi un inferno. È sufficiente avere un unico ragazzo su una classe che afferma che lui non prende ordini dai bianchi e dagli infedeli, e ovviamente dalle donne, perché la vita di un professore e di una professoressa diventino un incubo. È sufficiente che tre coinquilini su venti siano aggressivi e violenti perché la vita dell'unico anziano rimasto in un caseggiato ormai interamente arabo diventi un incubo. Il libro L'identità infelice è quindi un libro di cui raccomando la lettura, per avere un'idea di cosa succede in Francia, di come l'integrazione non sia una questione di generazioni e di buona volontà. L'Islam non può integrarsi. Inoltre, nessuno desidera fare lo sforzo enorme che è l'integrazione se deve integrarsi con una società che disprezza, che ammira da un punto di vista tecnologico, di cui invidia la ricchezza, ma che fondamentalmente disprezza. Quello su cui il libro è terribilmente deficitario, invece, è la causa: spiegare perché, come siamo arrivati a tutto questo. Da questo punto di vista il libro del filosofo francese somiglia molto ai libri di Pim Fortuyn, il politico olandese assassinato 16 anni fa. I suoi titoli La società orfana e Contro l'islamizzazione della nostra cultura sono distribuiti dall'associazione Carlo Cattaneo di Pordenone, e sono libri imperdibili per chi vuole cercare di capire come è avvenuto il nostro suicidio, sono molto lucidi sul cosa sta succedendo, e questo è meritevole perché non sono molti i testi altrettanto lucidi. Entrambi i libri però non spiegano perché è successo, esattamente come non lo spiega L'identità infelice. Sia il filosofo francese che l'uomo politico olandese sono due ex sessantottini: entrambi ricordano con dolce nostalgia quel meraviglioso periodo in cui sembrava che le libertà sbocciassero l'una dopo l'altra e fiorire sul patriarcalismo cristiano, un sistema rigido e granitico che finalmente si riempiva di margherite. Entrambi gli autori si chiedono come sia stato possibile partire da una spumeggiante meraviglia e approdare alle periferie in fiamme. La risposta è che è stato proprio il '68 la causa di tutto. Il disastro è stato proprio quello stesso '68 per cui sia il filosofo francese sia il bravo politico olandese hanno gioito. La società patriarcale cristiana aveva suoi indubbi difetti e aveva enormi possibilità di essere migliorata, ma era una società viva e vitale e, soprattutto, affascinante. Era in grado di interagire con l'islam, era in grado di affascinarne i figli al punto tale che loro desideravano integrarsi esattamente come è successo negli anni Cinquanta e Sessanta. Il 1968 è stato la distruzione del padre. Il 1968 è stata distruzione del rito condiviso, civile e religioso, quindi del senso di affiliazione al gruppo. Ogni ruolo maschile, inclusa la difesa del territorio da parte del soldato e la difesa del quartiere da parte del poliziotto, è visto con disprezzo e stigmatizzato con l'eterno appellativo «fascista». La società diventa carina, multiculturale, postcristiana, vegetariana e gay friendly. Palate di diritti umani dall'aborto alla contraccezione passando dal divorzio frantumano il senso della famiglia e abbattono la natalità. Postcristiani, liberi e osceni siamo diventati una società non vitale e soprattutto non affascinante. I giovani islamici ci disprezzano: ogni integrazione è impossibile. Il 1968 è stato distruzione di ogni gerarchia, anche delle più ovvie e irrinunciabili. Una volta attaccata la famiglia, il divorzio e la contraccezione hanno ridotto la nostra sessualità a puro e sterile erotismo, sempre più spinto e sguaiato, ci hanno reso un'umanità di gente sola, disperata, inacidita, senza radici. L'unico valore non negoziabile della nuova Chiesa 2.0 è l'ingresso di una popolazione estranea che non ci ama, e il mito che con la buona volontà tutto si risolverà.Perché? La risposta l'ha intuita Oriana Fallaci. L'islam si ferma solo per via religiosa, non per via laica. L'occidente cristiano ha fermato l'islam per secoli, l'occidente postcristiano e quindi laico non ha nessuna possibilità. La via laica è stupida. Pensare di fermare un sistema forte con un sistema debole è stupido. Pensare di convertire gli islamici alla laicità è stupido, mentre convertirli al cristianesimo è estremamente facile oltre che logico. La via laica ci porta al disastro: se ancora avete dei dubbi leggete i libri del filosofo francese e dell'uomo politico olandese.Dallo scontro con l'islam possiamo uscirne vittoriosi solo per via religiosa. Prima convertiamo noi stessi e poi convertiamo loro. E non sarà certo la nuova Chiesa 2.0 a poterlo fare, quindi dobbiamo essere noi laici ad andare avanti, in attesa di una chiesa migliore.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-caso-finkielkraut-ci-mostra-cose-lislam-2629318908.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-fascismo-non-centra-cosi-lo-scrittore-spiazza-i-commentatori" data-post-id="2629318908" data-published-at="1766347661" data-use-pagination="False"> «Il fascismo non c’entra». Così lo scrittore spiazza i commentatori «Non siamo di fronte al grande ritorno degli anni Trenta». A smontare l'allarme per il fascismo montante, dopo l'aggressione verbale al filosofo Alain Finkielkraut, ci ha pensato… Alain Finkielkraut, che a una perplessa giornalista di Bfm Tv ha spiegato come gli insulti piovuti su di lui a margine della manifestazione dei gilet gialli derivino direttamente dal «discorso dell'islamismo più estremista». E infatti, da quel che si è appreso, il più esagitato del gruppetto era conosciuto dalle forze dell'ordine proprio per la sua adesione all'islam radicale. Ferma restando la necessità, per i gilet gialli, di un servizio d'ordine che li tuteli da tali infiltrazioni, resta comunque un bel cortocircuito, almeno per il commentatore unico dalle spiegazioni facili. Ma non è tutto, perché Finkielkraut ha continuato: «Il barbuto mi ha detto: “La Francia è nostra". Questa frase terribile significa: noi siamo la grande sostituzione e tu sarai il primo a pagare». Per poi aggiungere: «Chi mi ha difeso dagli attacchi? Marine Le Pen». Insomma, mentre gli editorialisti di mezza Europa corrono per accollare l'aggressione al clima sovranista, la vittima ne dà invece un'interpretazione eminentemente sovranista. Finkielkraut è del resto un pensatore complesso, difficilmente riciclabile in termini di anti populismo militante. Lo scorso novembre, per esempio, in una trasmissione tv definiva i gilet gialli come «i lasciati indietro dalla nuova economia, i dimenticati dalla sociologia e anche gli indesiderati di ogni progressismo, il progressismo di sinistra, ma anche il progressismo macroniano». E ai primi di dicembre, pur prendendo le distanze dalle violenze del movimento, spiegava a Le Figaro che si trattava di una rivolta delle classi medie vittime «di un doppio stato di insicurezza economica e di insicurezza culturale». Ovvero di «persone ordinarie cacciate dalle metropoli dagli affitti proibiti e dalle banlieue perché hanno perduto quella che Christophe Guilluy chiama “la guerra degli sguardi"», ovvero coloro che abbassano lo sguardo per strada nei quartieri a forte presenza immigrata. Maoista in gioventù, poi allontanatosi dall'estrema sinistra per il suo sostegno a Israele, Finkielkraut non è nuovo a posizioni controverse. Si tratta, per esempio, di un iscritto alla Licra, potente organizzazione antirazzista francese almeno dal 1985, che tuttavia ha definito l'antirazzismo «il comunismo del XXI secolo», e non certo in senso elogiativo. Qualche tempo fa, allo sbigottito intervistatore del Corriere della Sera, confessava: «Quando l'ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti anticomunista. La pagavi cara, certo, come l'ha pagata cara Albert Camus, ma era possibile. [...] Ma di fronte all'antirazzismo, io sono disarmato». Nel 2005, in un'intervista al quotidiano israeliano Haaretz, stigmatizzò le violenze nelle banlieue, spiegando che «in Francia ci sono altri immigrati la cui situazione è difficile - cinesi, vietnamiti, portoghesi - ma loro non prendono parte ai tafferugli. E questo perché è chiaro che tali rivolte hanno un carattere etnico e religioso». Il Mrap, un'altra Ong antirazzista, fu a un passo dal denunciarlo, mentre il giornale comunista L'Humanité scrisse: «Finkielkraut s'inabissa in una diatriba razzista». Non a caso, nel 2002 Daniel Lindenberg lo aveva inserito in un suo libro sui «nuovi reazionari». Jacques Bolo, nel suo saggio critico intitolato La pensée Finkielkraut, così giudicava le tesi dello scrittore: «È l'etnocentrismo ipocrita dei razzisti istruiti che accusano neri e arabi di razzismo anti bianco per giustificare il proprio razzismo invece di condannare il razzismo in generale». In uno dei suoi ultimi libri, L'identità infelice, Finkielkraut scrive che se esistono i demoni dell'identità, oggi «esistono anche i demoni dell'universale», cioè l'oicofobia, secondo il neologismo di Roger Scruton ripreso da Finkielkraut, ovvero l'odio del Paese natio. E, riassumendo le tesi degli immigrazionisti, scrive: «La Francia, l'Europa, l'Occidente hanno molto peccato nel voler piegare l'Altro alla ragione: ci viene offerta l'occasione di essere purificati da noi stessi (e dalle nostre colpe passate) a opera dell'Altro». Se è il «clima sovranista» ad aver generato l'attacco contro di lui, allora tanto vale dire che Finkielkraut si è attaccato da solo.
Bill Clinton e Jeffrey Epstein (Ansa)
Neanche a dirlo, è scoppiato uno scontro tra il Dipartimento di Giustizia e alcuni parlamentari. «La legge approvata dal Congresso e firmata dal presidente Trump era chiarissima: l’amministrazione Trump aveva 30 giorni di tempo per pubblicare tutti i file di Epstein, non solo alcuni. Non farlo equivale a violare la legge. Questo dimostra che il Dipartimento di Giustizia, Donald Trump e Pam Bondi sono determinati a nascondere la verità», ha tuonato il capogruppo dell’Asinello al Senato, Chuck Schumer, mentre il deputato dem Ro Khanna ha ventilato l’ipotesi di un impeachment contro la Bondi. Strali all’amministrazione Trump sono arrivati anche dai deputati Thomas Massie e Marjorie Taylor Greene: due dei principali critici repubblicani dell’attuale presidente americano.
«Il Dipartimento di Giustizia sta pubblicando una massiccia tranche di nuovi documenti che le amministrazioni Biden e Obama si sono rifiutate di divulgare. Il punto è questo: l’amministrazione Trump sta garantendo livelli di trasparenza che le amministrazioni precedenti non avevano mai nemmeno preso in considerazione», ha replicato il dicastero guidato dalla Bondi, per poi aggiungere: «La scadenza iniziale è stata rispettata mentre lavoriamo con diligenza per proteggere le vittime». Insomma, se per i critici di Trump la deadline di venerdì era assoluta e perentoria, il Dipartimento di Giustizia l’ha interpretata come una «scadenza iniziale». Ma non è finita qui. Ulteriori polemiche sono infatti sorte a causa del fatto che numerosi documenti pubblicati venerdì fossero pesantemente segretati: un’accusa a cui il Dipartimento di Giustizia ha replicato, sostenendo di aver voluto tutelare le vittime di Epstein.
Ma che cosa c’è di interessante nei file divulgati venerdì? Innanzitutto, tra i documenti pubblicati l’altro ieri, compare la denuncia presentata all’Fbi nel 1996 contro Epstein da una sua vittima, Maria Farmer. In secondo luogo, sono rispuntate le figure di Trump e Bill Clinton, anche se in misura differente. «Trump è appena visibile nei documenti, con le poche foto che lo ritraggono che sembrano essere di pubblico dominio da decenni. Tra queste, due in cui Trump ed Epstein posano con l’attuale first lady Melania Trump nel febbraio 2000 durante un evento nel suo resort di Mar-a-Lago», ha riferito The Hill. Svariate foto riguardano invece Bill Clinton. In particolare, una ritrae l’ex presidente dem in una piscina insieme alla socia di Epstein, Ghislaine Maxwell, e a un’altra donna dal volto oscurato. In un’altra, Clinton è in una vasca idromassaggio sempre in compagnia di una donna dall’identità celata: una donna che, secondo quanto affermato su X dal portavoce del Dipartimento di Giustizia Gates McGavick, risulterebbe una «vittima». In un’altra foto ancora, l’ex presidente dem è sul sedile di un aereo, con una ragazza che gli cinge il collo con un braccio. Clinton compare infine in foto anche con i cantanti Mick Jagger e Michael Jackson.
«La Casa Bianca non ha nascosto questi file per mesi, per poi pubblicarli a tarda notte di venerdì per proteggere Bill Clinton», ha dichiarato il portavoce di Clinton, Angel Ureña, che ha aggiunto: «Si tratta di proteggersi da ciò che verrà dopo, o da ciò che cercheranno di nascondere per sempre. Così possono pubblicare tutte le foto sgranate di oltre 20 anni che vogliono, ma non si tratta di Bill Clinton». «Persino Susie Wiles ha detto che Donald Trump si sbagliava su Bill Clinton», ha concluso. «Questa è la sua resa dei conti», ha invece dichiarato al New York Post un ex assistente di Clinton, riferendosi proprio all’ex presidente dem. «Voglio dire, se accendete la Cnn, è di questo che stanno parlando. Ho ricevuto un milione di messaggi a riguardo», ha proseguito. «La gente pensa: non posso credere che fosse in una vasca idromassaggio. Chi è quella donna lì dentro?», ha continuato, per poi aggiungere: «Voglio dire, è incredibile. È semplicemente scioccante», ha continuato. Vale la pena di sottolineare che né Trump né Clinton sono accusati di reati in riferimento al caso Epstein. Caso su cui i coniugi Clinton si sono tuttavia recentemente rifiutati di testimoniare alla Camera. Per questo, il presidente della commissione Sorveglianza della Camera stessa, il repubblicano James Comer, ha offerto loro di deporre a gennaio: in caso contrario, ha minacciato di avviare un procedimento per oltraggio al Congresso contro la coppia.
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Il Tribunale dei minori de l'Aquila. Nel riquadro, la famiglia Trevallion Birmingham (Ansa)
Un bambino è un teste fragile estremamente suggestionabile, perché è abituato al fatto che non deve contraddire un adulto, e, soprattutto se il bambino è spaventato, tende a compiacere l’adulto e a dire quello che l’adulto vuole. Ricordiamo che esiste la Carta di Noto, un protocollo di linee guida per l’ascolto del minore in caso di presunti abusi sessuali o maltrattamenti, elaborato da esperti di diverse discipline (magistrati, avvocati, psicologi, ecc.), che sono state sistematicamente disattese per esempio a Bibbiano. Un bambino deportato dalla sua famiglia è per definizione terrorizzato. Il termine corretto per i bambini tolti dalle famiglie dalle assistenti sociali è deportazione. La deportazione avviene all’improvviso, da un istante all’altro, con l’interruzione totale di tutti gli affetti, genitori, nonni, amici, eventuali animali domestici. Il deportato è privato dei suoi oggetti e del suo ambiente e con la proibizione di contatti con la sua vita precedente. Il deportato non ha nessuna padronanza della sua vita. Questo è lo schema della deportazione. Assistenti sociali possono mentire e psicologi possono avvallare queste menzogne con interrogatori suggestivi che portano i bambini a mentire. I motivi sono tre: compiacenza verso superiori o colleghi (è già successo), interesse economico (è già successo), fanatismo nell’applicare le proprie teorie: l’abuso sessuale dei padri sui bambini è diffusissimo, una famiglia non ha il diritto di vivere in un bosco, una madre povera non ha diritto ad allevare suo figlio, i bambini appartengono allo Stato, a meno che non siano rom allora appartengono al clan, un non vaccinato è un nemico del popolo oltre che della scienza e va deportato e vaccinato (è già successo).
Un’assistente sociale può mentire. E dato che la menzogna è teoricamente possibile deve essere necessario, per legge, che a qualsiasi interazione tra lo psicologo e l’assistente sociale e il bambino sia presente un avvocato di parte o un perito di parte, psicologo o altra figura scelta dalla famiglia. È necessario quindi che venga fatta immediatamente una legge che chiarisca che sia vietato una qualsiasi interazione tra il bambino e un adulto, assistente sociale, psicologo, ovviamente magistrato, dove non sia presente un perito di parte o un avvocato. Facciamo un esempio a caso. Supponiamo (siamo nell’ambito delle supposizioni, il posto fantastico dei congiuntivi e dei condizionali) che l’assistente sociale che ha dichiarato che i bambini della famiglia del Bosco sono analfabeti, oltre ad aver compiuto il crimine deontologico gravissimo della violazione di segreto professionale, abbia mentito. Certo è estremamente probabile che i figli di una famiglia con un livello culturale alto, poliglotta, la cui madre lavora in smart working siano analfabeti. È la cosa più logica che ci sia, però supponiamo per ipotesi fantastica che l’assistente sociale abbia mentito. In questo caso è evidente che i bambini non possono tornare a casa per Natale. Se i bambini tornassero a casa in tempi brevi, non sarebbe difficile fare un video dove si dimostra che scrivono benissimo, che leggono benissimo, molto meglio dei coetanei in scuole dove il 90% degli utenti sono stranieri che non sanno nemmeno l’italiano e meno che mai l’inglese, si potrebbe dimostrare che sono perfettamente in grado di farsi una doccia da soli e anche di cucinare un minestrone.
La deportazione di un bambino, coi rapporti troncati da un colpo di ascia, produce danni incalcolabili. I bambini sono stati sottratti ai loro affetti per darli in mano a una tizia talmente interessata al loro interesse che sputtana loro e la loro famiglia davanti a tutta l’Italia e per sempre (il Web non dimentica) con affermazioni (vere?) sul loro analfabetismo e sulla loro incapacità a fare una doccia. Questi bambini rischiano di essere aggrediti e sfottuti dai coetanei per questo, si è spianata la strada a renderli vittime di bullismo per decenni. Con impressionante sprezzo di qualsiasi straccio di deontologia gli operatori, tutti felici di squittire a cani e porci informazioni che dovrebbero essere assolutamente riservate (anche questi il segreto professionale e la deontologia non sanno che cosa siano), ci informano che i bambini annusano con perplessità i vestiti che profumano di pulito. I vestiti non profumano di pulito. Hanno l’odore dei pessimi detersivi industriali reclamizzati alla televisione che deve essere la fonte principale se non l’unica da cui nasce la cultura degli operatori. I loro componenti sono pessimi, non solo inquinanti, ma anche pericolosi per la salute umana a lungo termine: stesso discorso per lo sciampo e il bagno schiuma, soprattutto negli orfanatrofi di Stato, le cosiddette case famiglie, dove si comprano i prodotti meno cari, quindi quelli con i componenti peggiori.
Nessuno dei libricini su cui hanno studiato gli operatori ha spiegato che ci sono ben altri sistemi per garantire una pulizia impeccabile. In tutte le foto che li ritraggono con i genitori, ai tempi distrutti per sempre in cui erano felici, i bambini sono pulitissimi. Tra l’altro tutte queste incredibili esperte di comportamento infantile, non hanno mai sentito parlare di comportamento oppositivo? Un bambino normale, una volta deportato con arbitrio dalla sua vita e dalla sua famiglia, può spezzarsi ed essere malleabile o può resistere ed essere oppositivo. Fai la doccia. Non la voglio fare. Scrivi. Non sono capace. Il bambino oppositivo deve essere frantumato. Non ti mando a casa nemmeno per Natale.
Sia fatta una legge immediatamente. Subito. I bambini del bosco devono avere di fianco un avvocato. Noi popolo italiano, che con le nostre tasse paghiamo i servizi sociali e la deportazione dei bambini, abbiamo il diritto a pretendere che non siano soli. I bambini nel bosco passeranno un Natale da deportati. Qualcuno si sentirà in dovere di informarci che in vita loro non avevano mai mangiato un qualche dolce industriale a base di zucchero, grassi idrogenati e coloranti e che grazie alla deportazione questa lacuna è stata colmata.
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La famiglia Trevallion-Birmingham (Ansa)
È infatti una prepotenza senza significato confrontare una bomba affettiva e esistenziale come tre fratellini che giocano e si vogliono evidentemente bene, accompagnata da genitori altrettanto uniti, e naturalmente affettivi con norme e abitudini di un Paese dove il nucleo abitativo più frequente nelle città più prestigiose consiste in un cittadino singolo. Pretendere che i pochi figli superstiti in qualche «terra di nessuno», con i suoi boschi e le affettuosità (che ancora esistono fuori dalle famiglie-tipo), si uniformino ai secchi diritti e cupe abitudini del sociologico e disperato «gruppo dei pari» è un’operazione di una freddezza stalinista, per fortuna destinata allo scacco. È coltivata da burocrazie che scambiano relazioni profonde e vere, comunque indispensabili alla vita e alla sua felicità, con strumenti tecnici, adoperabili solo quando la famiglia purtroppo non c’è più, molto spesso per l’ottusità e la corruzione dello Stato stesso che le subentra (come racconta Hanna Arendt) quando è riuscito a distruggerla. Se non si vuole creare danni inguaribili, tutti, anche i funzionari dello Stato, dovrebbero fare attenzione a non sostituire gli aspetti già legati all’umano fin dalla creazione del mondo, con pratiche esterne magari infiocchettate dalle burocrazie ma che non c’entrano nulla con la sostanza dell’uomo e la sua capacità di sopravvivere.
Certo, la bimba Utopia Rose, citata nel bel pezzo di Francesco Borgonovo del 18 dicembre, è una testimone insostituibile di un’altra visione del mondo rispetto alle varie ideologie che prevalgono in questo momento, unendo ferocia e ricchezza, cinismo e follia. Impossibile di fronte ai fratellini che tanto scandalizzano le burocrazie perbene non ricordare (oltretutto a pochi giorni dal Natale) l’ordine di Gesù: «Lasciate che questi piccoli vengano a me». Nessuno dubita che entreranno nel Regno prima degli assistenti sociali. Utopia Rose, la più grande, è affettuosa e impegnata, lavoratrice e giocattolona, organizzatrice e sognatrice. Però non è sola (Come si fa a non amarla, e anche un po’ invidiarla?). Non soltanto perché ha i suoi due fratellini, e i tre quarti del pubblico fa il tifo per loro. Ma perché questa visione loro e dei genitori di cercare una vita buona e naturale, semplicemente felice e affettuosa verso sé e verso gli altri e tutto il mondo vivente, cresce con la stessa velocità con la quale si sviluppa l’idolatria verso tutto ciò che è artificiale, fabbricato, mentale, non affettivo. È già qualche anno che chi viene in analisi scopre soprattutto questo: l’urgenza di mettersi al riparo dagli egoismi e pretese grandiose, vuote e fredde, e invece amare. Ormai il fenomeno trasborda nelle cronache. Trasgressione conclusiva, dialettale e popolaresca (milanese): «Spérèm»!
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(Imagoeconomica)
A leggere queste parole c’è davvero da impazzire. In pratica si continua a ripetere che questi bambini sono bravi, educati, felici e amati. Ma hanno difficoltà con la lettura e si cambiano i vestiti troppo raramente. E alle nostre istituzioni, oltre che a una parte della politica, sembra normale che tanto basti per strapparli ai genitori e lasciarli in una casa famiglia a tempo indeterminato. In aggiunta, si continuano a trattare papà e mamma Trevallion come discoli da raddrizzare. Si scrive e si dice che ora si comportano bene, che hanno accettato di modificare la propria casa, di vaccinare i figli, di farli incontrare con un insegnante. Lo ripetono pure i giudici della Corte d'appello che hanno confermato venerdì la validità del provvedimento di allontanamento e hanno passato la palla al Tribunale dei minori dell'Aquila per eventuali nuove decisioni. La corte conferma «tutte le criticità rilevate nell'ordinanza del Tribunale dei minorenni» tra cui i «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini, per la loro sana crescita, per lo sviluppo armonioso della loro personalità». Ma rileva «gli apprezzabili sforzi di collaborazione» da parte dei genitori e auspica «un definitivo superamento del muro di diffidenza da loro precedentemente alzato verso gli interventi e le offerte di sostegno». Chiaro, no? Quando papà e mamma saranno più docili e addomesticati, il ricatto potrà forse concludersi.
Pare infatti che il nodo di tutta questa storia, sia soltanto questo: bisogna compiacere i magistrati. Chi non lo fa è un pericoloso pasdaran della destra, è uno che fa campagna politica per il referendum sulla giustizia. Lo dice chiaramente Elisabetta Piccolotti di Alleanza verdi e sinistra, la quale se la prende con i ministri Matteo Salvini e Eugenia Roccella «che continuano a fare gli sciacalli con l’unico scopo di preparare il terreno per il referendum sulla giustizia. Noi di Avs», spiega Piccolotti, «crediamo che il percorso di dialogo con la famiglia debba dare i giusti frutti, come sostengono anche gli avvocati: i bambini devono tornare a casa dai genitori, con la garanzia che non saranno negati loro il diritto all’istruzione e alla socialità che solo la scuola assicura davvero». Ah, ma dai: i bambini devono tornare a scuola, perché quella parentale non va. Di più: bisogna che il ministro Valditara invii «gli ispettori nella scuola paritaria che ha certificato l’assolvimento dell’obbligo scolastico per la bambina di 11 anni, nonostante pare che la bimba sappia a stento scrivere il proprio nome sotto dettatura».
Interessante cortocircuito. Con la famiglia del bosco i compagni di Avs sono inflessibili, invocano perquisizioni e correzioni. Ma con altri sono molto più teneri. Nei riguardi degli antagonisti di Askatasuna, per dire, hanno parole di miele. Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera, si è aggregato al corteo di protesta contro lo sgombero del centro sociale. «Noi non abbiamo nulla da nascondere», grida. «Siamo parte, alla luce del sole, di un’associazione a resistere, quella dell’antifascismo che i trumpiani di tutto il mondo vorrebbero dichiarare fuori legge. Ma fino a quando la nostra Costituzione sarà in piedi nessuno potrà impedirmi di manifestare il mio dissenso ed io continuerò a farlo». La sua compagna di partito Ilaria Salis ribadisce che «lo spirito di Askatasuna continuerà ad ardere». Bravi, bravissimi, dei veri rivoluzionari, dei grandi ribelli antisistema. Ma per chi sceglie davvero un modello di vita alternativo, a quanto risulta, non hanno pietà. Anzi, dicono le stesse cose dei magistrati.
Fateci caso: Elisabetta Piccolotti ha pronunciato praticamente le stesse frasi scandite da Virginia Scalera, giudice del tribunale di Pescara e presidente della sezione Abruzzo dell’Anm. Costei è intervenuta ieri dicendo che c’è «stato un attacco scomposto e offensivo nei confronti dei giudici da parte dei ministri Salvini e Roccella, espresso peraltro in mancanza di conoscenza del provvedimento, perché le motivazioni non sono ancora uscite. E comunque è inaccettabile il tono. Abbiamo l’impressione chiara», insiste Scalera, «che sia un modo per riattivare l’attenzione dell’opinione pubblica, strumentalizzando una storia significativa in ottica referendaria. Ogni volta si additano i giudici, si parla di sequestro di bambini. Stigmatizziamo gli attacchi del governo».
Siamo sempre lì: guai a sfiorare i giudici, guai ad avanzare anche solo un minuscolo dubbio sul loro operato. Persino la sinistra radicale, quella che si batte contro i confini e contro la fantomatica «repressione», alla bisogna si rimette in riga al fianco delle toghe. E intanto tre bambini bravi e educati sono ancora tenuti lontano dai loro genitori.
A proposito di cortocircuiti sinistri, sia concessa un’ultima considerazione. Negli anni passati, con l’avvicinarsi del Natale, fior di sacerdoti e militanti progressisti hanno proposto presepi pieni zeppi di barconi e migranti. È un vero peccato che quest’anno qualcuno di questi impegnati a favore dei più deboli non abbia pensato a un bel presepe con la famiglia del bosco posizionata in mezzo ai pastori.
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