2019-04-15
L’assassino
del carabiniere doveva essere in galera
Il criminale che ha freddato il maresciallo, due anni fa aveva accoltellato un uomo ma era libero. Come il marocchino che ha tagliato la gola un giovane a Torino senza neanche conoscerlo. I tribunali non funzionano, ma per la sinistra è colpa di Lega e sovranisti. Se un delinquente, in attesa di essere arrestato per aver aver regolato i conti con il coltello, ammazza a sangue freddo un maresciallo dei carabinieri che tutti descrivono come un tipo buono quanto il pane, di chi è la colpa? Di Matteo Salvini, ovvio. Non è per caso lui l'attuale ministro dell'Interno? Non è forse il Capitano della Lega a essersi intestato una campagna elettorale sul tema della sicurezza? Dunque deve essere per forza lui a portare sulle spalle la responsabilità politica dell'omicidio di Vincenzo Carlo Di Gregorio. Non la giustizia che si è dimenticata di sbattere dietro le sbarre un assassino, persa com'è a inseguire mille reati tranne quelli realmente pericolosi. Né deve essere imputato chi fa il garantista con il corpo degli altri, nonostante quando si abbia a che fare con certi malviventi non ci sia da garantire altro che la galera.Sì, sebbene alle persone in buona fede sia di tutta evidenza la causa della sparatoria nel Foggiano, ieri sulle pagine dei giornali c'è stato qualcuno che ha provato a ricamare sul fatto di cronaca in cui ha perso la vita un sottufficiale dei carabinieri, gettando la croce addosso a Salvini. Secondo Repubblica ad esempio l'Italia sarebbe stordita dalla propaganda del ministro dell'Interno. Risultato: la «catastrofe di un Paese compulsivamente prigioniero di una remunerativa parola d'ordine della Politica - sicurezza - eppure smarrito nel sentirsene regolarmente orfano». Per sostenere l'ardita tesi, bisognava però mettere sullo stesso piano l'agguato di cui è rimasto vittima uno spacciatore e quello in cui ha perso la vita un uomo delle forze dell'ordine, mentre un altro è stato ferito. I colpi esplosi nel cuore di Milano e quelli al cuore del maresciallo di Cagnano Varano racconterebbero, per il quotidiano della sinistra chic, la stessa storia.Sì, il regolamento di conti eseguito da sicari senza volto in una via alberata del capoluogo lombardo sarebbe una faccia della stessa medaglia della sparatoria contro una pattuglia dei carabinieri. Non serve che la Procura spieghi come nel delitto compiuto a pochi chilometri da San Giovanni Rotondo non c'entri nulla la criminalità organizzata, ma ci sia di mezzo il rancore profondo contro chiunque rappresenti l'ordine dello Stato e indossi una divisa dell'Arma. Né è sufficiente guardare il curriculum del malavitoso preso a pistolettate da killer incappucciati per capire come gli affari siano diversi e non abbiano alcun legame. Per Repubblica, al contrario, Milano e Foggia sono unite da un filo che le collega ai clan della malavita e della droga. E nel farlo si evoca l'idea che l'ordinata convivenza civile invece che a dieci, cento, mille poliziotti, carabinieri o magistrati in più, sia affidata da questo governo a padri di famiglia con dieci, cento, mille fucili in più. Invece che dell'omicidio a sangue freddo di un servitore dello Stato, dunque, si finisce per parlare di legittima difesa, etichettata come «la bancarotta dell'intelligenza».Così, dal frullatore del buon senso e della realtà esce un altro elemento contro i partiti sovranisti, un atto d'accusa contro un «Paese che mentre si pippa 6 miliardi di euro in cocaina, inveisce contro “i negri che spacciano" e immagina grottesche “zone rosse" nei centri storici, confondendo, con tutta evidenza, la causa con l'effetto». Eh già, perché se a Cagnano Varano sparano a un maresciallo, la colpa è di Milano, capitale del consumo di droga, ma al tempo stesso pure capitale della Lega. Eh già, così tutto si tiene. Il Nord corrotto e drogato fa la guerra allo straniero e al Sud c'è chi combatte le mafie e paga con la vita.Un racconto sgangherato, dove nella storia del carabiniere morto gli immigrati non c'entrano nulla e dove pure il traffico di stupefacenti non ha nulla a che fare con l'omicidio. Nell'assassinio a sangue freddo di un carabiniere non c'è alcun collegamento con la marijuana albanese, i rifiuti tossici, il caporalato in mano ai clan. La Politica con la p maiuscola, quella che Repubblica reclama per opporla alla politica di Salvini, nel caso di Cagnano Varano non sarebbe servita a salvare la vita di Vincenzo Carlo Di Gennaro. No, per evitare la sua morte serviva la Giustizia, una Giustizia veloce, che non lasciasse a piede libero chi aveva già cercato di uccidere. E invece no, i processi, anche quelli contro malviventi pericolosi, vanno sempre a rilento, perché i tribunali hanno sempre qualche cos'altro da fare e i criminali rimangono a piede libero. È successo a Torino, con un immigrato che invece di essere dietro le sbarre era a spasso e ha tagliato la gola a un ragazzo che neppure conosceva. È accaduto a Foggia, con un bandito che invece di stare in galera ha scaricato per vendetta il caricatore contro il primo carabiniere che ha incontrato. Non so se di fronte all'evidenza di questi fatti ci sia da parlare di bancarotta dell'intelligenza, come fa Repubblica. Di certo, siamo di fronte alla bancarotta dei garantisti, di quelli che spacciatori e assassini li vogliono in libertà fino all'ultimo grado di giudizio.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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