2025-03-06
«Il calcio italiano ora sta meglio però la politica non lo aiuta»
L’esperto: «Per i tifosi nostalgici i fondi sono speculatori, ma non è così: vincere è nel loro interesse. In alcuni mercati la Serie A potrebbe sorpassare la Premier. Putin capì per primo il potere geopolitico del pallone».Il calcio è diventato il crocevia di investimenti di importanti gruppi finanziari, singoli imprenditori ma anche fondi. È la fine del calcio come lo abbiamo conosciuto finora, in cui grandi famiglie come gli Agnelli e i Moratti facevano da mecenati? Abbiamo chiesto a Marco Bellinazzo, giornalista esperto del business del calcio e autore tra gli altri libri, de Le nuove guerre del calcio: gli affari delle corporation e la rivolta dei tifosi, di farci uno scenario su opportunità e rischi di questo cambiamento.Che fine sta facendo il calcio italiano?«Il calcio italiano, un must fino al Duemila, ha subìto, per una serie di scelte sbagliate, un declino che lo ha portato ad essere la quarta Lega in Europa dietro l’Inghilterra ma anche dietro Spagna e Germania. Eppure, dopo la pandemia, invece di subire un tracollo, ha invertito la rotta. Un po’ perché le società hanno dovuto applicare la strategia della sostenibilità, abbassando i costi, un po’ perché nel frattempo sono arrivate molte proprietà straniere che oggi sono la maggioranza in serie A ma sono presenti anche in B e C. Pensiamo al Como, che era la classica squadra di provincia sprofondata in serie B, e oggi è in mano ai fratelli Hartono, indonesiani, ultra ottantenni, con un patrimonio personale stimato da Forbes in oltre 25 miliardi di dollari. Hanno investito in pochi anni oltre 250 milioni, portando la squadra in serie A e creando un modello da imitare. Oggi il calcio vive una situazione favorevole, nel senso che ha superato i rischi del periodo pandemico, ma avrebbe bisogno di interventi e investimenti per consolidare la convalescenza post Covid».Quindi la presenza di investitori stranieri è una questione di sopravvivenza per il calcio italiano?«La presenza di investitori stranieri si spiega con il fatto che le squadre hanno un grande blasone ma sono anche fragili e quindi facilmente conquistabili. Paradossalmente un’attrattiva sono stati i nostri ritardi, cioè il fatto che pochissimi club hanno stadi di qualità. E questo è un investimento base nell’ottica dello sport business internazionale. L’80-90% di questi investitori sono americani e arrivati in Italia si stanno scontrando con le difficoltà burocratiche di realizzare le infrastrutture. Le squadre del football americano hanno valore medio di 6 miliardi di dollari, i club a livello europeo sono egualmente costosi, quindi è più facile acquistare club italiani che costano meno e sui quali investire a partire dagli stadi. Il problema è che siamo campioni del mondo sui rendering ma stentiamo ad aprire i cantieri. L’esempio classico è quello di Firenze dove 5 anni arrivò un proprietario italo americano, Rocco Commisso. Investì 120 milioni in un Comune vicino a Firenze per creare un centro sportivo tra i migliori in Europa. Voleva fare uno stadio investendo di tasca propria ma la politica cittadina gli mise i bastoni tra le ruote e oggi c’è la situazione paradossale per cui lo stadio lo stanno rifacendo con i soldi pubblici e la Fiorentina gioca in un cantiere. Esempio paradigmatico di una situazione in cui la politica non consente agli investitori privati di operare».Gli investitori stranieri quanto sono più interessati a creare valore finanziario che a valorizzare la squadra?«Negli ultimi anni gruppi imprenditoriali stanno acquistando una miriade di piccole squadre in diverse parti del mondo, che diventano il vivaio dei giocatori. Questo stravolge la mission dei club. In Europa quasi 300 squadre sono dentro queste strutture, soprattutto nei campionati minori. Invece l’approccio dei grandi fondi è diverso. Non ha nulla di mecenatistico, è vero, ma ha a cuore comunque la vittoria perché aumenta il valore del brand. Da tanti tifosi nostalgici dei vecchi tempi questo atteggiamento viene visto come pura speculazione, in realtà è un approccio che dovrebbe avere chiunque si occupa di calcio. Il fondo dell’Arabia Saudita ha comprato il Newcastle, ma non ha sperperato milioni per acquisire i giocatori perché ha regole contabili da rispettare».È cambiato il modo di fare business nel calcio?«È cambiato il modo di fare business nello sport in generale. Il calcio italiano è dentro un mercato che è quello dell’entertainment. La competizione non è più solo tra singole squadre e nemmeno tra singoli campionati, ma tra il calcio, la Formula Uno e gli sport americani che a loro volta competono con i social, con tutto ciò che è intrattenimento, che vuol dire il tempo delle persone. E in questa competizione più si crea prodotto appetibile che possa conquistar quote di mercato globale, più girano soldi. In Italia questi cambiamenti stanno arrivando tardi, anche se il nostro calcio possiede il patrimonio della riconoscibilità del brand. La serie A che è arrivata per prima in mercati come la Cina, il Medio Oriente, l’Asia e gli Stati Uniti, ora deve rincorrere la Premier League. Però ha la possibilità di scavalcarla se fossero fatti i necessari investimenti».Ma gli investitori, in particolare i fondi, non sacrificano la squadra all’interesse primario di fare business?«I fondi hanno una serie di investitori i quali, naturalmente, vogliono vincere ma anche essere remunerati adeguatamente. Il processo che sta facendo il Milan, in mano al fondo RedBird, ad esempio, va in questa direzione. Nel senso che il Milan negli anni scorsi era una squadra che perdeva milioni ogni mese e che invece negli ultimi due anni è riuscita a fare bilanci in utile e ha fatto il suo record di fatturato nel 2024. L’accoppiata del fondo Elliot prima e del fondo RedBird oggi sta andando nella direzione di crescita ma con parametri sostenibili. L’obiettivo dei fondi è vincere sul campo e guadagnare soldi ma non buttando risorse. Diversa la situazione degli investimenti nelle piccole squadre, dove spesso arrivano fondi che non hanno una proprietà certa e una mission definita e all’improvviso spariscono facendo fallire il club. E su questo occorrerebbe un monitoraggio maggiore. Ha rischiato di trovarsi in una situazione simile anche il Genoa. Era dentro una scatola proprietaria americana che, nel giro pochi anni e dopo aver comprato squadre in vari Paesi, si è volatilizzata e il club ha rischiato il default. Per fortuna è arrivato un proprietario romeno e ha salvato la squadra. Forse le istituzioni calcistiche non hanno tutti gli strumenti per monitorare queste situazioni».Quindi il cambiamento del calcio richiederebbe un cambiamento delle istituzioni. Non riescono ad essere al passo con i tempi?«Le istituzioni calcistiche, le federazioni, sono state travolte dal cambiamento. Ci sono le leghe che sono espressioni delle società che si sono organizzate e stanno assecondando questo processo, poi ci sono le federazioni che fanno capo alla Uefa in Europa e alla Fifa a livello mondiale e cercano di star dietro a questi mutamenti. La Fifa ha creato un sistema centralizzato di controlli sul sistema del calcio mercato. Parliamo di una realtà in cui ogni anno ci sono trasferimenti che valgono tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari. La Fifa sta cercando di porre dei paletti facendo transitare tutto tramite una sorta di banca del calcio mercato mondiale con sede a Parigi che opera sotto il controllo dell’autorità monetaria francese. Però in parte è sospesa nella sua operatività perché ci sono decisioni pendenti presso la Corte di Giustizia europea sul ruolo dei procuratori e la libertà di trasferimento dei calciatori. La Fifa ha sposato in pieno il processo di globalizzazione in cui i due grandi centri di potere mondiale sono gli Usa e i Paesi del Medio Oriente. L’Europa rischia di essere sempre più in posizione marginale. Come in altri ambiti politici».Il calcio è diventato uno strumento di geopolitica?«Lo sport e il calcio sono sempre stati uno strumento di geopolitica ma negli ultimi anni sono diventati parte dell’arsenale, del soft power delle autocrazie per legittimarsi e acquisire consensi. Il processo di cambiamento in chiave geopolitica del calcio è stato avviato da Putin e sublimato dall’Arabia Saudita. Putin all’inizio del suo mandato, quando stavano emergendo i massacri in Cecenia ed era in difficoltà, mandò alcuni suoi oligarchi più fidati, a partire da Abramovich, in Inghilterra, per acquistare una squadra. Abramovich compra il Chelsea, che stava fallendo, e tanti giocatori, comincia a vincere. Putin viene così legittimato sullo scacchiere mondiale, come pure gli oligarchi, la nuova aristocrazia russa che avvia le grandi acquisizioni immobiliari a Londra. Quel modello lo hanno seguito la Cina, quando ha lanciato la Via della Seta, e gli sceicchi. Quello che accade nel 2010 con l’assegnazione dei Mondiali, nel 2018 in Russia e nel 2022 in Qatar, a discapito di Stati Uniti e Gran Bretagna, determina il grande cambiamento. I cinesi con la Stadium diplomacy fin dagli anni Settanta sono sbarcati in Africa, costruendo e regalando stadi ai dittatori locali, per creare le condizioni diplomatiche migliori al fine di assicurarsi il controllo economico di territori ricchi di materie prime».Quale è il ruolo della Cina?«Con il lancio del mega progetto della Via della Seta, c’è stata la fiammata degli anni 2015-‘16 in cui i cinesi hanno comprato in Europa una quindicina di club, compresa l’Inter. Il presidente Xi Jinping aveva lanciato il progetto per cui la Cina doveva diventare il padrone del calcio mondiale. Si è reso poi conto che gli investitori stavano diventando troppo importanti e quindi ingombranti. In più la Cina dopo il 2017-2018 si è trovata in difficoltà sul piano internazionale e monetario e ha cambiato le politiche di investimento all’estero in settori non strategici, quindi anche nel calcio, paventando anche il pericolo di riciclaggio di soldi all’estero. In generale il Partito comunista ha deciso di ridurre gli investimenti nel calcio internazionale indirizzandoli verso quello nazionale».
Jose Mourinho (Getty Images)