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2019-04-15
Il business dei bimbi. Case famiglia: un «tesoro» da 1 miliardo e troppi giudici con il conflitto d’interessi
Immagine dalla nuova fiction di Mediaset «L'amore strappato» [MariaMarin]
C'è un business che si consuma sulla pelle dei più piccoli. Un business che, secondo alcune associazioni, ammonta addirittura a 1 miliardo di euro. È il giro d'affari che ruota intorno all'affido dei bambini alle case famiglia. Per carità, non tutte pensano al fatturato anziché al benessere dei minori. Ma in una galassia di cooperative autenticamente caritatevoli, ci sono nebulose di affarismo e conflitti d'interessi. A cominciare da quelli dei giudici onorari, cioè gli esperti che lavorano a contatto con i magistrati togati nei tribunali minorili. E che, come ha denunciato l'associazione Finalmente liberi, spesso operano a vario titolo proprio nelle case famiglia in cui devono decidere se spedire i bambini. Tutte situazioni che fonti dell'esecutivo assicurano essere state appena prese in carico dal ministero della Giustizia.
Che il tema sia attualissimo, d'altronde, lo ha ribadito Matteo Salvini al Congresso delle famiglie di Verona, quando ha annunciato di voler «mettere occhio sul business delle comunità di bambini». I capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, hanno assicurato che sarà avviata una nuova commissione d'inchiesta (dopo quella della bicamerale per l'infanzia, che si è chiusa a gennaio 2018). E proprio ieri sera è andata in onda l'ultima puntata della fiction di Canale 5, L'amore strappato, una miniserie sul clamoroso errore giudiziario che ha coinvolto, nel 1995, la piccola Angela Lucanto, allontanata dalla famiglia perché suo padre era stato ingiustamente accusato di averla molestata. La Lucanto, sul suo dramma, ha pubblicato un libro, Rapita dalla giustizia, scritto assieme ai giornalisti Caterina Guarnieri e Maurizio Tortorella.
Ma quanti bambini sono stati sottratti alle loro famiglie in Italia? E perché? Rispondere, nonostante le indagini condotte più volte dal Parlamento e dall'Authority per l'infanzia, non è facilissimo. Gli ultimi dati ufficiali del ministero del Lavoro risalgono al 2012. Nel gennaio 2018, la Commissione per l'infanzia e l'adolescenza aveva calcolato che nel 2014 erano 26.420 i piccoli sottratti alle famiglie. Altre fonti, nel 2015, parlavano di 28.449. Non tutti, ovviamente, finiscono nelle comunità: circa il 50% viene affidato ad altri nuclei familiari. Numeri più recenti è complicato trovarne. Le stime più verosimili, hanno spiegato alla Verità dal ministero della Famiglia, si ottengono incrociando i report del Garante e dell'Istituto degli Innocenti di Firenze, che comunque si basano su rilevazioni del 2015. Da qui si evince che i minori ospitati in strutture come case famiglia o comunità terapeutiche sono circa 12.000. A questi, però, vanno aggiunti i cosiddetti «dati di flusso», ovvero i bambini che entrano ed escono da una comunità nel corso di uno stesso anno. In tal caso, la cifra sale fino a circa 20.000 minori. Le associazioni che si battono per porre un argine agli allontanamenti, tuttavia, ritengono che il dato di flusso sia più alto. E parlano addirittura di 50.000 casi complessivi, tra i bambini nelle comunità e quelli assegnati a nuclei affidatari.
Ma le case famiglia? Secondo le ultime stime, sarebbero almeno 3.352. Ed è presto spiegato come si arriva al business da 1 miliardo di euro. «Le rette erogate da Comuni e Regioni, in media, viaggiano dai 70 ai 120 euro al giorno a minore», ha riferito alla Verità l'avvocato Cristina Franceschini, di Finalmente liberi. «Ma se i minori hanno disagi più seri e se le strutture d'accoglienza offrono, ad esempio, delle sedute di psicoterapia, le rette possono arrivare anche fino a 400 euro». Basta fare qualche moltiplicazione per ottenere il risultato finale. Luisella Mattiaca, del Coordinamento italiano servizi maltrattamento all'infanzia, insiste da diversi anni: non esiste alcun miliardo di euro. A suo avviso - così aveva riferito ad Avvenire nel 2015 - «il costo annuo dei minori in comunità è di 520 milioni. Con una retta adeguata costerebbero 785 milioni». Ad alimentare il balletto dei numeri contribuisce una certa opacità: quasi mai ci sono rendiconti precisi delle spese sostenute dai singoli centri d'accoglienza. Le rette, inoltre, variano molto di Regione in Regione e di Comune in Comune: a Roma la media è di 70 euro, in Veneto di 120, in Calabria di 90, in Campania di 115, in Lombardia di 107, ma a Milano di 78. Anche per questi motivi il governo gialloblù è orientato a introdurre un tariffario unico nazionale.
Il capitolo più dolente, tuttavia, è quello dei conflitti d'interessi dei giudici onorari. Nei tribunali dei minori, ai magistrati togati si affiancano esperti del settore, che dovrebbero partecipare sia alla fase istruttoria sia alla decisione finale sugli allontanamenti e gli affidi. L'associazione Finalmente liberi, negli anni, ha censito ben 200 casi di conflitti d'interessi: in pratica, gli onorari collaboravano spesso con le case famiglia presso le quali dovevano stabilire se collocare i minori. A volte, ha raccontato alla Verità la Franceschini, capitava che il giudice onorario fosse il fondatore o il presidente di quella comunità d'accoglienza. In seguito alle prime denunce, nel 2015 il Csm dispose che ciascun aspirante onorario allegasse alla sua candidatura una dichiarazione con cui escludeva eventuali incompatibilità. Ora, fonti del governo ci hanno ribadito la volontà di stringere ulteriormente le maglie, sancendo per legge «l'incompatibilità dei giudici onorari minorili qualora essi stessi o i rispettivi parenti o coniugi (entro il secondo grado) - e rispettivi conviventi - abbiano interessi in strutture d'affido». Secondo l'avvocato (ed ex giudice minorile) Francesco Morcavallo, pure lui già esponente di Finalmente liberi, la situazione negli ultimi anni non sarebbe granché migliorata. A suo avviso, anzi, «non è cambiato nulla. Anche nel 2010 esistevano disposizioni del Csm che vietavano ai giudici onorari di essere titolari delle case famiglia. Eppure, le circolari venivano ignorate. Io credo che i controlli mancassero allora come oggi». Non bisogna sforzarsi per capire che se chi dovrebbe decidere con distacco e serenità è coinvolto, se non come dirigente, magari come consulente o come collaboratore, nelle strutture d'affido, si determina un perverso incentivo a collocare i minori nelle case famiglia. Insomma, si consolida l'abitudine di allontanare i piccoli dai loro nuclei familiari d'origine, anche se hanno altri parenti che potrebbero prendersi cura di loro, per assegnarli alle comunità.
Morcavallo con La Verità ha sollevato un'altra questione delicatissima: a quanto pare, infatti, in molti tribunali minorili oberati di pratiche, i giudici onorari gestiscono interamente i procedimenti in luogo dei togati, non di rado in barba alle procedure. «Le deleghe agli onorari sono previste solo per singoli adempimenti. E invece spesso viene demandata a loro l'intera fase istruttoria, incluse questioni processuali che loro non sono in grado di gestire, per il semplice fatto che non conoscono la procedura». E così, ad esempio, capita che «le parti interessate non vengano nemmeno convocate in udienza». Si tratterebbe, secondo Morcavallo, di una prassi tutt'altro che infrequente: «A Roma capita tutti i giorni. Ma succede anche a Bologna, a Cagliari, a Venezia, ad Ancona. Nelle Marche, poi», ha aggiunto l'avvocato, «c'è una situazione disastrosa: alcuni procedimenti pendono per anni, finché il bambino non diventa maggiorenne…». A ciò si somma un ulteriore paradosso: «Talvolta, gli stessi giudici onorari cui è stato delegato il compito di seguire la fase istruttoria di un procedimento, poi non sono presenti in Camera di consiglio quando si decide. Si limitano ad affidare a un relatore le loro valutazioni». Dunque, non solo secondo Morcavallo i conflitti d'interessi non sono risolti, ma i giudici onorari si mettono persino a gestire, senza averne le competenze, le fasi processuali, collezionando anomalie procedurali. E, a volte, non sono neppure presenti in Camera di consiglio quando si arriva alla decisione finale. Misurare l'incidenza di questo fenomeno è impossibile: «Si dovrebbe avere accesso a tutti i fascicoli dei singoli tribunali e poi fare il calcolo di quanti sono gestiti dai giudici onorari. Ma, trattandosi di minorenni, l'accesso a quei fascicoli è giustamente limitato». Quel che è certo, comunque, è che tra giri d'affari, conflitti d'interessi e lacune nella gestione dei processi, chi ci rimette sono i bambini. Strappati alle famiglie e inseriti in un circuito di comunità dal quale rischiano di non uscire tanto facilmente.
Lo ha confermato alla Verità l'avvocato milanese Carmela Macchiarola, specializzata in diritto di famiglia. La Macchiarola si è soffermata sul problema degli stranieri. «Molti immigrati “importano" in Lombardia costumi piuttosto tribali e, magari, maltrattano le figlie. A quel punto è ovvio che il tribunale dei minori le affidi alle case famiglia». Però, c'è un però. «Il vero nodo sono le relazioni degli assistenti sociali. Costoro sono di fatto incentivati a suggerire ai magistrati di prolungare la permanenza dei minori nelle strutture d'affido, perché più sono i bimbi collocati lì, più fondi arrivano, più lavoro c'è per loro». Insomma, ha concluso la Macchiarola, per com'è congegnato, il sistema favorisce «la stagnazione dei minori nelle case famiglia».
D'altro canto, a scorgere i motivi più frequenti alla base degli allontanamenti familiari, si fa un balzo sulla sedia. Come si evince da un rapporto del 2011 del ministero del Lavoro, infatti, tra le cause spicca il 37% dei casi di «inadeguatezza genitoriale», a loro volta fondati per il 44% su «situazioni di povertà materiale». In buona sostanza, a tante famiglie povere, anziché offrire un aiuto, si tolgono i figli. Allora sì che questi sono amori strappati.
«In Veneto c’era una Onlus con la Jaguar d’ordinanza»
Cristina Franceschini, avvocato veronese, si batte con l'associazione Finalmente liberi contro le storture del sistema delle case famiglia.
Avvocato, si può dire che questo sia un business?
«Be', lo si può dedurre».
Da cosa?
«Dal fatto che ci siano comunità che arrivano a percepire rette di 400 euro al giorno a bambino, senza che ci siano rendiconti di come questi soldi vengono utilizzati».
Può fare qualche esempio?
«Tempo fa, in Veneto, avevo sollecitato un'interrogazione regionale su una casa famiglia che chiedeva, appunto, una retta da 400 euro. Due mesi dopo la retta è stata dimezzata».
Retta dimezzata?
«Se potevano sopravvivere anche con 200 euro, significa che quei 400 euro erano ingiustificati… Peraltro, a dirigere quella struttura c'era un giudice onorario!».
Ai giudici onorari ci arriviamo tra poco. Altri episodi significativi?
«Una comunità cui risultava intestata una Jaguar».
Ah però. Ma come giustificano certe rette le Onlus?
«Ad esempio, con visite psicologiche ai minori. Ma mancano i controlli».
In che senso?
«Le Regioni stanziano quei soldi, però non sanno come vengono spesi».
Perché è difficile trovare dati precisi e aggiornati ?
«Manca una banca dati nazionale sui minori allontanati. Il Garante dell'infanzia, nel 2018, aveva stilato un report sul numero dei minori accolti nelle strutture: circa 20.000. Ma si basava su dati del 2015».
Ci sono altri report?
«Quello dell'Istituto degli Innocenti, del 2010. Lì si parlava di circa 15.000 minori nelle case famiglia».
Cinquemila in meno. L'aumento negli anni a cosa potrebbe essere dovuto?
«Forse all'arrivo dei minori stranieri non accompagnati».
Altre zone d'ombra?
«Non si sa quante siano le famiglie affidatarie, che accoglierebbero altri 15.000 minori circa. È un capitolo di spesa, anche se irrisorio rispetto a quello delle strutture d'accoglienza. Una famiglia riceve tra 500 e 700 euro al mese».
Dunque, sarebbero circa 30.000 i bambini allontanati dalle famiglie di provenienza. Perché le associazioni come Finalmente liberi parlano di 50.000 casi?
«Sempre secondo quei vecchi report, c' era un flusso annuale di 10.000 minori».
Un flusso? Cioè?
«Minori accolti nelle case famiglia e poi usciti nel corso dello stesso anno. I 40/50.000 casi arrivano da qui. Ma sono solo stime».
Perché i bambini vengono allontanati dalle loro famiglie?
«In un report del 2011 spicca il dato del 37% di allontanamenti dovuti a “inadeguatezza genitoriale"».
Che vuol dire?
«Be', è un concetto amplissimo. E infatti, nello stesso report si spiegava che tra i motivi di “inadeguatezza" c'era la “povertà materiale" di una famiglia. Che però, ai sensi di legge, non può giustificare l'allontanamento di un minore».
Una famiglia povera bisogna aiutarla, non toglierle i figli.
«Esattamente».
Veniamo ai giudici onorari. Le vostre denunce hanno cambiato qualcosa?
«Nel 2015 il Csm ha emesso una nuova circolare. E nei bandi per l'ultimo triennio c'era un divieto per i giudici onorari di collaborare a qualsiasi titolo con le comunità».
Però…
«Come nel 2010 una circolare vietava ai giudici onorari di essere anche dirigenti delle case famiglia, ma veniva ignorata, credo che anche oggi manchino i controlli».
E perché?
«I presidenti dei Tribunali minorili non hanno una banca dati elettronica, che andrebbe redatta da un'autorità terza».
In che modo?
«Si verifica tutto il personale che opera nelle comunità, lo si inserisce in un archivio elettronico, così a un presidente di Tribunale basta digitare il nome di un aspirante onorario per verificare eventuali incompatibilità».
Una riforma del sistema di che altro ha bisogno?
«Nomenclature uniformi».
Che vuol dire?
«Ora ogni Regione stabilisce i criteri per assegnare a una comunità la dicitura di casa famiglia, comunità educativa, o comunità terapeutica, in base al numero di minori ospitati e al tipo di assistenza che viene fornita. Questi criteri vanno uniformati».
E poi?
«Le spese delle comunità vanno rendicontate: per ogni minore bisogna conoscere, ad esempio, quante sedute psicologiche sono state svolte, da chi, con quali costi… E ci vuole un tariffario nazionale».
Ma della commissione d'inchiesta voluta dalla Lega che ne pensa?
«Penso che serva. Ma non deve concentrarsi soltanto sull'aspetto economico».
Che altro va verificato?
«Perché, nelle case famiglia, di minori ne vengono spiediti tanti. Bisogna indagare sui criteri in base ai quali sono stabiliti gli allontanamenti. C'è un documento da cui partire».
Quella della bicamerale?
«Sì. Un'indagine conoscitiva della commissione parlamentare per l'Infanzia e l'adolescenza. I politici la studino».
«Ora ridateci la nostra nipotina»
Tra le famiglie che combattono ogni giorno per riavere un bambino strappato dalla giustizia c'è quella di Samantha Scrof la cui figlia, Angelica, è stata data in adozione dopo la sua prematura scomparsa.
A lottare per Samantha, nel tentativo di riunire quel che rimane della sua famiglia c'è Barbara, sua sorella, che non si è mai arresa all'idea che la nipotina sia stata affidata dai giudici a una coppia di estranei. «Nel ctu ( un atto formale richiesto durante un procedimento giuridico che aiuta il giudice ad acquisire informazioni prima di emettere una sentenza, ndr.) si legge chiaramente che la mia famiglia è idonea ad accogliere Angelica. Continuiamo a non comprendere questa decisione. Perché allontanare una bambina dalla sua vera famiglia per farle costruire una nuova vita con due genitori che sono dei completi estranei per lei?». Contattata dalla Verità Barbara ha spiegato come «l'esito di tutte le perizie di idoneità sulla nostra famiglia è sempre stato positivo. Per tutti, assistenti sociali e giudici, potevamo adottare Angelica. Perché allora cambiare idea e strapparla a noi in questo modo?»
La storia di Angelica, che oggi non porta più il cognome Scrof e vive la sua vita a 60 chilometri dalla casa della sua vera famiglia, è tormentatissima. La bimba, oltre a non aver mai conosciuto suo padre ha perso la mamma da piccola. «Samantha aveva problemi di tossicodipendenza» ci spiega Barbara Scrof «alla nascita di Angelica lei e la piccola vennero collocate in una struttura per mamme con figli. Ma lì non stava bene». Iniziano così una serie di trasferimenti, prima a casa della madre di Samantha e poi in una nuova casa famiglia in provincia di Pavia. È proprio in quest'ultima struttura che Angelica e Samantha vivono felici per un periodo. Fino a che la bambina non viene strappata per la prima volta alla madre. La donna, a quel punto, cade in una spirale senza fondo. «Aveva gli occhi vuoti, ci diceva che se non poteva stare con sua figlia allora era meglio morire» ricorda Barbara. E così fu. «Dopo un incontro con Angelica in cui la bimba, in lacrime, chiedeva di poter rimanere tra le braccia della madre, Samantha venne investita da due auto. Quando giunsi sul luogo dell'incidente rimasi sconvolta: quello che rimaneva di mia sorella era una scia di sangue lunga 30 metri e la sua borsetta sull'asfalto. Lei giaceva senza vita sotto un telo termico».
«Il mio primo pensiero fu la bimba. Per questo, non appena seppellita mia sorella, io, mia madre e mio fratello ci siamo immediatamente rivolti ai giudici manifestando l'intenzione di adottare la nostra nipotina» continua a raccontare Barbara Scrof «io e mio marito fummo individuati come coppia idonea a prendersi cura della bambina». Ma qualcosa è andato storto. Dopo un lungo iter con giudici, udienze, assistenti sociali e sedute con psicologi e psichiatri, il tribunale decide di affidare la piccola a una nuova famiglia. «Non ne capiamo il motivo. Noi eravamo stati ritenuti idonei, la bimba si ricorda di noi, della nonna. Perché non lasciarla con la sua vera famiglia? Perché non darle la possibilità di rimanere attaccata alle suo origini? Perché cancellare il suo passato?». Queste e altre mille domande tormentano ogni giorno Barbara e la sua famiglia che, nonostante siano passati anni non si arrendono e continuano a chiedere di riavere la piccola. «A oggi» conclude amareggiata Barbara «so che la bimba sta bene. Ha cambiato cognome. Della madre, Samantha Scrof, è stata cancellata ogni traccia. L'ho vista da lontano qualche volta, ho portato i suoi cuginetti e la nonna a osservarla di nascosto e per questo siamo stati redarguiti dai nuovi genitori che hanno addirittura chiamato i carabinieri. Perché vietarci ogni contatto con lei?».
Marianna Baroli
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I numeri dell'amore strappato: circa 30.000 minori sottratti ogni anno ai genitori, oltre 12.000 inseriti nelle comunità, esperti che decidono sugli affidi e intanto operano nelle strutture d'accoglienza. E le rette giornaliere arrivano a 400 euro a bambino.L'avvocato: «Gli enti locali stanziano i fondi ma non sanno come vengono usati. Le associazioni vanno obbligate a rendicontare tutto. E servono tariffe standard».La piccola Angelica è stata affidata in adozione nonostante l'idoneità riconosciuta ai suoi zii dai servizi sociali. Barbara Scrof: «Siamo stati cancellati dalla sua vita».Lo speciale contiene tre articoliC'è un business che si consuma sulla pelle dei più piccoli. Un business che, secondo alcune associazioni, ammonta addirittura a 1 miliardo di euro. È il giro d'affari che ruota intorno all'affido dei bambini alle case famiglia. Per carità, non tutte pensano al fatturato anziché al benessere dei minori. Ma in una galassia di cooperative autenticamente caritatevoli, ci sono nebulose di affarismo e conflitti d'interessi. A cominciare da quelli dei giudici onorari, cioè gli esperti che lavorano a contatto con i magistrati togati nei tribunali minorili. E che, come ha denunciato l'associazione Finalmente liberi, spesso operano a vario titolo proprio nelle case famiglia in cui devono decidere se spedire i bambini. Tutte situazioni che fonti dell'esecutivo assicurano essere state appena prese in carico dal ministero della Giustizia.Che il tema sia attualissimo, d'altronde, lo ha ribadito Matteo Salvini al Congresso delle famiglie di Verona, quando ha annunciato di voler «mettere occhio sul business delle comunità di bambini». I capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, hanno assicurato che sarà avviata una nuova commissione d'inchiesta (dopo quella della bicamerale per l'infanzia, che si è chiusa a gennaio 2018). E proprio ieri sera è andata in onda l'ultima puntata della fiction di Canale 5, L'amore strappato, una miniserie sul clamoroso errore giudiziario che ha coinvolto, nel 1995, la piccola Angela Lucanto, allontanata dalla famiglia perché suo padre era stato ingiustamente accusato di averla molestata. La Lucanto, sul suo dramma, ha pubblicato un libro, Rapita dalla giustizia, scritto assieme ai giornalisti Caterina Guarnieri e Maurizio Tortorella.Ma quanti bambini sono stati sottratti alle loro famiglie in Italia? E perché? Rispondere, nonostante le indagini condotte più volte dal Parlamento e dall'Authority per l'infanzia, non è facilissimo. Gli ultimi dati ufficiali del ministero del Lavoro risalgono al 2012. Nel gennaio 2018, la Commissione per l'infanzia e l'adolescenza aveva calcolato che nel 2014 erano 26.420 i piccoli sottratti alle famiglie. Altre fonti, nel 2015, parlavano di 28.449. Non tutti, ovviamente, finiscono nelle comunità: circa il 50% viene affidato ad altri nuclei familiari. Numeri più recenti è complicato trovarne. Le stime più verosimili, hanno spiegato alla Verità dal ministero della Famiglia, si ottengono incrociando i report del Garante e dell'Istituto degli Innocenti di Firenze, che comunque si basano su rilevazioni del 2015. Da qui si evince che i minori ospitati in strutture come case famiglia o comunità terapeutiche sono circa 12.000. A questi, però, vanno aggiunti i cosiddetti «dati di flusso», ovvero i bambini che entrano ed escono da una comunità nel corso di uno stesso anno. In tal caso, la cifra sale fino a circa 20.000 minori. Le associazioni che si battono per porre un argine agli allontanamenti, tuttavia, ritengono che il dato di flusso sia più alto. E parlano addirittura di 50.000 casi complessivi, tra i bambini nelle comunità e quelli assegnati a nuclei affidatari. Ma le case famiglia? Secondo le ultime stime, sarebbero almeno 3.352. Ed è presto spiegato come si arriva al business da 1 miliardo di euro. «Le rette erogate da Comuni e Regioni, in media, viaggiano dai 70 ai 120 euro al giorno a minore», ha riferito alla Verità l'avvocato Cristina Franceschini, di Finalmente liberi. «Ma se i minori hanno disagi più seri e se le strutture d'accoglienza offrono, ad esempio, delle sedute di psicoterapia, le rette possono arrivare anche fino a 400 euro». Basta fare qualche moltiplicazione per ottenere il risultato finale. Luisella Mattiaca, del Coordinamento italiano servizi maltrattamento all'infanzia, insiste da diversi anni: non esiste alcun miliardo di euro. A suo avviso - così aveva riferito ad Avvenire nel 2015 - «il costo annuo dei minori in comunità è di 520 milioni. Con una retta adeguata costerebbero 785 milioni». Ad alimentare il balletto dei numeri contribuisce una certa opacità: quasi mai ci sono rendiconti precisi delle spese sostenute dai singoli centri d'accoglienza. Le rette, inoltre, variano molto di Regione in Regione e di Comune in Comune: a Roma la media è di 70 euro, in Veneto di 120, in Calabria di 90, in Campania di 115, in Lombardia di 107, ma a Milano di 78. Anche per questi motivi il governo gialloblù è orientato a introdurre un tariffario unico nazionale.Il capitolo più dolente, tuttavia, è quello dei conflitti d'interessi dei giudici onorari. Nei tribunali dei minori, ai magistrati togati si affiancano esperti del settore, che dovrebbero partecipare sia alla fase istruttoria sia alla decisione finale sugli allontanamenti e gli affidi. L'associazione Finalmente liberi, negli anni, ha censito ben 200 casi di conflitti d'interessi: in pratica, gli onorari collaboravano spesso con le case famiglia presso le quali dovevano stabilire se collocare i minori. A volte, ha raccontato alla Verità la Franceschini, capitava che il giudice onorario fosse il fondatore o il presidente di quella comunità d'accoglienza. In seguito alle prime denunce, nel 2015 il Csm dispose che ciascun aspirante onorario allegasse alla sua candidatura una dichiarazione con cui escludeva eventuali incompatibilità. Ora, fonti del governo ci hanno ribadito la volontà di stringere ulteriormente le maglie, sancendo per legge «l'incompatibilità dei giudici onorari minorili qualora essi stessi o i rispettivi parenti o coniugi (entro il secondo grado) - e rispettivi conviventi - abbiano interessi in strutture d'affido». Secondo l'avvocato (ed ex giudice minorile) Francesco Morcavallo, pure lui già esponente di Finalmente liberi, la situazione negli ultimi anni non sarebbe granché migliorata. A suo avviso, anzi, «non è cambiato nulla. Anche nel 2010 esistevano disposizioni del Csm che vietavano ai giudici onorari di essere titolari delle case famiglia. Eppure, le circolari venivano ignorate. Io credo che i controlli mancassero allora come oggi». Non bisogna sforzarsi per capire che se chi dovrebbe decidere con distacco e serenità è coinvolto, se non come dirigente, magari come consulente o come collaboratore, nelle strutture d'affido, si determina un perverso incentivo a collocare i minori nelle case famiglia. Insomma, si consolida l'abitudine di allontanare i piccoli dai loro nuclei familiari d'origine, anche se hanno altri parenti che potrebbero prendersi cura di loro, per assegnarli alle comunità.Morcavallo con La Verità ha sollevato un'altra questione delicatissima: a quanto pare, infatti, in molti tribunali minorili oberati di pratiche, i giudici onorari gestiscono interamente i procedimenti in luogo dei togati, non di rado in barba alle procedure. «Le deleghe agli onorari sono previste solo per singoli adempimenti. E invece spesso viene demandata a loro l'intera fase istruttoria, incluse questioni processuali che loro non sono in grado di gestire, per il semplice fatto che non conoscono la procedura». E così, ad esempio, capita che «le parti interessate non vengano nemmeno convocate in udienza». Si tratterebbe, secondo Morcavallo, di una prassi tutt'altro che infrequente: «A Roma capita tutti i giorni. Ma succede anche a Bologna, a Cagliari, a Venezia, ad Ancona. Nelle Marche, poi», ha aggiunto l'avvocato, «c'è una situazione disastrosa: alcuni procedimenti pendono per anni, finché il bambino non diventa maggiorenne…». A ciò si somma un ulteriore paradosso: «Talvolta, gli stessi giudici onorari cui è stato delegato il compito di seguire la fase istruttoria di un procedimento, poi non sono presenti in Camera di consiglio quando si decide. Si limitano ad affidare a un relatore le loro valutazioni». Dunque, non solo secondo Morcavallo i conflitti d'interessi non sono risolti, ma i giudici onorari si mettono persino a gestire, senza averne le competenze, le fasi processuali, collezionando anomalie procedurali. E, a volte, non sono neppure presenti in Camera di consiglio quando si arriva alla decisione finale. Misurare l'incidenza di questo fenomeno è impossibile: «Si dovrebbe avere accesso a tutti i fascicoli dei singoli tribunali e poi fare il calcolo di quanti sono gestiti dai giudici onorari. Ma, trattandosi di minorenni, l'accesso a quei fascicoli è giustamente limitato». Quel che è certo, comunque, è che tra giri d'affari, conflitti d'interessi e lacune nella gestione dei processi, chi ci rimette sono i bambini. Strappati alle famiglie e inseriti in un circuito di comunità dal quale rischiano di non uscire tanto facilmente.Lo ha confermato alla Verità l'avvocato milanese Carmela Macchiarola, specializzata in diritto di famiglia. La Macchiarola si è soffermata sul problema degli stranieri. «Molti immigrati “importano" in Lombardia costumi piuttosto tribali e, magari, maltrattano le figlie. A quel punto è ovvio che il tribunale dei minori le affidi alle case famiglia». Però, c'è un però. «Il vero nodo sono le relazioni degli assistenti sociali. Costoro sono di fatto incentivati a suggerire ai magistrati di prolungare la permanenza dei minori nelle strutture d'affido, perché più sono i bimbi collocati lì, più fondi arrivano, più lavoro c'è per loro». Insomma, ha concluso la Macchiarola, per com'è congegnato, il sistema favorisce «la stagnazione dei minori nelle case famiglia».D'altro canto, a scorgere i motivi più frequenti alla base degli allontanamenti familiari, si fa un balzo sulla sedia. Come si evince da un rapporto del 2011 del ministero del Lavoro, infatti, tra le cause spicca il 37% dei casi di «inadeguatezza genitoriale», a loro volta fondati per il 44% su «situazioni di povertà materiale». In buona sostanza, a tante famiglie povere, anziché offrire un aiuto, si tolgono i figli. Allora sì che questi sono amori strappati.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-business-dei-bimbi-case-famiglia-un-tesoro-da-1-miliardo-e-troppi-giudici-con-il-conflitto-dinteressi-2634615340.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-veneto-cera-una-onlus-con-la-jaguar-dordinanza" data-post-id="2634615340" data-published-at="1765391672" data-use-pagination="False"> «In Veneto c’era una Onlus con la Jaguar d’ordinanza» Cristina Franceschini, avvocato veronese, si batte con l'associazione Finalmente liberi contro le storture del sistema delle case famiglia. Avvocato, si può dire che questo sia un business? «Be', lo si può dedurre». Da cosa? «Dal fatto che ci siano comunità che arrivano a percepire rette di 400 euro al giorno a bambino, senza che ci siano rendiconti di come questi soldi vengono utilizzati». Può fare qualche esempio? «Tempo fa, in Veneto, avevo sollecitato un'interrogazione regionale su una casa famiglia che chiedeva, appunto, una retta da 400 euro. Due mesi dopo la retta è stata dimezzata». Retta dimezzata? «Se potevano sopravvivere anche con 200 euro, significa che quei 400 euro erano ingiustificati… Peraltro, a dirigere quella struttura c'era un giudice onorario!». Ai giudici onorari ci arriviamo tra poco. Altri episodi significativi? «Una comunità cui risultava intestata una Jaguar». Ah però. Ma come giustificano certe rette le Onlus? «Ad esempio, con visite psicologiche ai minori. Ma mancano i controlli». In che senso? «Le Regioni stanziano quei soldi, però non sanno come vengono spesi». Perché è difficile trovare dati precisi e aggiornati ? «Manca una banca dati nazionale sui minori allontanati. Il Garante dell'infanzia, nel 2018, aveva stilato un report sul numero dei minori accolti nelle strutture: circa 20.000. Ma si basava su dati del 2015». Ci sono altri report? «Quello dell'Istituto degli Innocenti, del 2010. Lì si parlava di circa 15.000 minori nelle case famiglia». Cinquemila in meno. L'aumento negli anni a cosa potrebbe essere dovuto? «Forse all'arrivo dei minori stranieri non accompagnati». Altre zone d'ombra? «Non si sa quante siano le famiglie affidatarie, che accoglierebbero altri 15.000 minori circa. È un capitolo di spesa, anche se irrisorio rispetto a quello delle strutture d'accoglienza. Una famiglia riceve tra 500 e 700 euro al mese». Dunque, sarebbero circa 30.000 i bambini allontanati dalle famiglie di provenienza. Perché le associazioni come Finalmente liberi parlano di 50.000 casi? «Sempre secondo quei vecchi report, c' era un flusso annuale di 10.000 minori». Un flusso? Cioè? «Minori accolti nelle case famiglia e poi usciti nel corso dello stesso anno. I 40/50.000 casi arrivano da qui. Ma sono solo stime». Perché i bambini vengono allontanati dalle loro famiglie? «In un report del 2011 spicca il dato del 37% di allontanamenti dovuti a “inadeguatezza genitoriale"». Che vuol dire? «Be', è un concetto amplissimo. E infatti, nello stesso report si spiegava che tra i motivi di “inadeguatezza" c'era la “povertà materiale" di una famiglia. Che però, ai sensi di legge, non può giustificare l'allontanamento di un minore». Una famiglia povera bisogna aiutarla, non toglierle i figli. «Esattamente». Veniamo ai giudici onorari. Le vostre denunce hanno cambiato qualcosa? «Nel 2015 il Csm ha emesso una nuova circolare. E nei bandi per l'ultimo triennio c'era un divieto per i giudici onorari di collaborare a qualsiasi titolo con le comunità». Però… «Come nel 2010 una circolare vietava ai giudici onorari di essere anche dirigenti delle case famiglia, ma veniva ignorata, credo che anche oggi manchino i controlli». E perché? «I presidenti dei Tribunali minorili non hanno una banca dati elettronica, che andrebbe redatta da un'autorità terza». In che modo? «Si verifica tutto il personale che opera nelle comunità, lo si inserisce in un archivio elettronico, così a un presidente di Tribunale basta digitare il nome di un aspirante onorario per verificare eventuali incompatibilità». Una riforma del sistema di che altro ha bisogno? «Nomenclature uniformi». Che vuol dire? «Ora ogni Regione stabilisce i criteri per assegnare a una comunità la dicitura di casa famiglia, comunità educativa, o comunità terapeutica, in base al numero di minori ospitati e al tipo di assistenza che viene fornita. Questi criteri vanno uniformati». E poi? «Le spese delle comunità vanno rendicontate: per ogni minore bisogna conoscere, ad esempio, quante sedute psicologiche sono state svolte, da chi, con quali costi… E ci vuole un tariffario nazionale». Ma della commissione d'inchiesta voluta dalla Lega che ne pensa? «Penso che serva. Ma non deve concentrarsi soltanto sull'aspetto economico». Che altro va verificato? «Perché, nelle case famiglia, di minori ne vengono spiediti tanti. Bisogna indagare sui criteri in base ai quali sono stabiliti gli allontanamenti. C'è un documento da cui partire». Quella della bicamerale? «Sì. Un'indagine conoscitiva della commissione parlamentare per l'Infanzia e l'adolescenza. I politici la studino». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-business-dei-bimbi-case-famiglia-un-tesoro-da-1-miliardo-e-troppi-giudici-con-il-conflitto-dinteressi-2634615340.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ora-ridateci-la-nostra-nipotina" data-post-id="2634615340" data-published-at="1765391672" data-use-pagination="False"> «Ora ridateci la nostra nipotina» Tra le famiglie che combattono ogni giorno per riavere un bambino strappato dalla giustizia c'è quella di Samantha Scrof la cui figlia, Angelica, è stata data in adozione dopo la sua prematura scomparsa. A lottare per Samantha, nel tentativo di riunire quel che rimane della sua famiglia c'è Barbara, sua sorella, che non si è mai arresa all'idea che la nipotina sia stata affidata dai giudici a una coppia di estranei. «Nel ctu ( un atto formale richiesto durante un procedimento giuridico che aiuta il giudice ad acquisire informazioni prima di emettere una sentenza, ndr.) si legge chiaramente che la mia famiglia è idonea ad accogliere Angelica. Continuiamo a non comprendere questa decisione. Perché allontanare una bambina dalla sua vera famiglia per farle costruire una nuova vita con due genitori che sono dei completi estranei per lei?». Contattata dalla Verità Barbara ha spiegato come «l'esito di tutte le perizie di idoneità sulla nostra famiglia è sempre stato positivo. Per tutti, assistenti sociali e giudici, potevamo adottare Angelica. Perché allora cambiare idea e strapparla a noi in questo modo?» La storia di Angelica, che oggi non porta più il cognome Scrof e vive la sua vita a 60 chilometri dalla casa della sua vera famiglia, è tormentatissima. La bimba, oltre a non aver mai conosciuto suo padre ha perso la mamma da piccola. «Samantha aveva problemi di tossicodipendenza» ci spiega Barbara Scrof «alla nascita di Angelica lei e la piccola vennero collocate in una struttura per mamme con figli. Ma lì non stava bene». Iniziano così una serie di trasferimenti, prima a casa della madre di Samantha e poi in una nuova casa famiglia in provincia di Pavia. È proprio in quest'ultima struttura che Angelica e Samantha vivono felici per un periodo. Fino a che la bambina non viene strappata per la prima volta alla madre. La donna, a quel punto, cade in una spirale senza fondo. «Aveva gli occhi vuoti, ci diceva che se non poteva stare con sua figlia allora era meglio morire» ricorda Barbara. E così fu. «Dopo un incontro con Angelica in cui la bimba, in lacrime, chiedeva di poter rimanere tra le braccia della madre, Samantha venne investita da due auto. Quando giunsi sul luogo dell'incidente rimasi sconvolta: quello che rimaneva di mia sorella era una scia di sangue lunga 30 metri e la sua borsetta sull'asfalto. Lei giaceva senza vita sotto un telo termico». «Il mio primo pensiero fu la bimba. Per questo, non appena seppellita mia sorella, io, mia madre e mio fratello ci siamo immediatamente rivolti ai giudici manifestando l'intenzione di adottare la nostra nipotina» continua a raccontare Barbara Scrof «io e mio marito fummo individuati come coppia idonea a prendersi cura della bambina». Ma qualcosa è andato storto. Dopo un lungo iter con giudici, udienze, assistenti sociali e sedute con psicologi e psichiatri, il tribunale decide di affidare la piccola a una nuova famiglia. «Non ne capiamo il motivo. Noi eravamo stati ritenuti idonei, la bimba si ricorda di noi, della nonna. Perché non lasciarla con la sua vera famiglia? Perché non darle la possibilità di rimanere attaccata alle suo origini? Perché cancellare il suo passato?». Queste e altre mille domande tormentano ogni giorno Barbara e la sua famiglia che, nonostante siano passati anni non si arrendono e continuano a chiedere di riavere la piccola. «A oggi» conclude amareggiata Barbara «so che la bimba sta bene. Ha cambiato cognome. Della madre, Samantha Scrof, è stata cancellata ogni traccia. L'ho vista da lontano qualche volta, ho portato i suoi cuginetti e la nonna a osservarla di nascosto e per questo siamo stati redarguiti dai nuovi genitori che hanno addirittura chiamato i carabinieri. Perché vietarci ogni contatto con lei?». Marianna Baroli
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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