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2019-04-15
Il business dei bimbi. Case famiglia: un «tesoro» da 1 miliardo e troppi giudici con il conflitto d’interessi
Immagine dalla nuova fiction di Mediaset «L'amore strappato» [MariaMarin]
C'è un business che si consuma sulla pelle dei più piccoli. Un business che, secondo alcune associazioni, ammonta addirittura a 1 miliardo di euro. È il giro d'affari che ruota intorno all'affido dei bambini alle case famiglia. Per carità, non tutte pensano al fatturato anziché al benessere dei minori. Ma in una galassia di cooperative autenticamente caritatevoli, ci sono nebulose di affarismo e conflitti d'interessi. A cominciare da quelli dei giudici onorari, cioè gli esperti che lavorano a contatto con i magistrati togati nei tribunali minorili. E che, come ha denunciato l'associazione Finalmente liberi, spesso operano a vario titolo proprio nelle case famiglia in cui devono decidere se spedire i bambini. Tutte situazioni che fonti dell'esecutivo assicurano essere state appena prese in carico dal ministero della Giustizia.
Che il tema sia attualissimo, d'altronde, lo ha ribadito Matteo Salvini al Congresso delle famiglie di Verona, quando ha annunciato di voler «mettere occhio sul business delle comunità di bambini». I capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, hanno assicurato che sarà avviata una nuova commissione d'inchiesta (dopo quella della bicamerale per l'infanzia, che si è chiusa a gennaio 2018). E proprio ieri sera è andata in onda l'ultima puntata della fiction di Canale 5, L'amore strappato, una miniserie sul clamoroso errore giudiziario che ha coinvolto, nel 1995, la piccola Angela Lucanto, allontanata dalla famiglia perché suo padre era stato ingiustamente accusato di averla molestata. La Lucanto, sul suo dramma, ha pubblicato un libro, Rapita dalla giustizia, scritto assieme ai giornalisti Caterina Guarnieri e Maurizio Tortorella.
Ma quanti bambini sono stati sottratti alle loro famiglie in Italia? E perché? Rispondere, nonostante le indagini condotte più volte dal Parlamento e dall'Authority per l'infanzia, non è facilissimo. Gli ultimi dati ufficiali del ministero del Lavoro risalgono al 2012. Nel gennaio 2018, la Commissione per l'infanzia e l'adolescenza aveva calcolato che nel 2014 erano 26.420 i piccoli sottratti alle famiglie. Altre fonti, nel 2015, parlavano di 28.449. Non tutti, ovviamente, finiscono nelle comunità: circa il 50% viene affidato ad altri nuclei familiari. Numeri più recenti è complicato trovarne. Le stime più verosimili, hanno spiegato alla Verità dal ministero della Famiglia, si ottengono incrociando i report del Garante e dell'Istituto degli Innocenti di Firenze, che comunque si basano su rilevazioni del 2015. Da qui si evince che i minori ospitati in strutture come case famiglia o comunità terapeutiche sono circa 12.000. A questi, però, vanno aggiunti i cosiddetti «dati di flusso», ovvero i bambini che entrano ed escono da una comunità nel corso di uno stesso anno. In tal caso, la cifra sale fino a circa 20.000 minori. Le associazioni che si battono per porre un argine agli allontanamenti, tuttavia, ritengono che il dato di flusso sia più alto. E parlano addirittura di 50.000 casi complessivi, tra i bambini nelle comunità e quelli assegnati a nuclei affidatari.
Ma le case famiglia? Secondo le ultime stime, sarebbero almeno 3.352. Ed è presto spiegato come si arriva al business da 1 miliardo di euro. «Le rette erogate da Comuni e Regioni, in media, viaggiano dai 70 ai 120 euro al giorno a minore», ha riferito alla Verità l'avvocato Cristina Franceschini, di Finalmente liberi. «Ma se i minori hanno disagi più seri e se le strutture d'accoglienza offrono, ad esempio, delle sedute di psicoterapia, le rette possono arrivare anche fino a 400 euro». Basta fare qualche moltiplicazione per ottenere il risultato finale. Luisella Mattiaca, del Coordinamento italiano servizi maltrattamento all'infanzia, insiste da diversi anni: non esiste alcun miliardo di euro. A suo avviso - così aveva riferito ad Avvenire nel 2015 - «il costo annuo dei minori in comunità è di 520 milioni. Con una retta adeguata costerebbero 785 milioni». Ad alimentare il balletto dei numeri contribuisce una certa opacità: quasi mai ci sono rendiconti precisi delle spese sostenute dai singoli centri d'accoglienza. Le rette, inoltre, variano molto di Regione in Regione e di Comune in Comune: a Roma la media è di 70 euro, in Veneto di 120, in Calabria di 90, in Campania di 115, in Lombardia di 107, ma a Milano di 78. Anche per questi motivi il governo gialloblù è orientato a introdurre un tariffario unico nazionale.
Il capitolo più dolente, tuttavia, è quello dei conflitti d'interessi dei giudici onorari. Nei tribunali dei minori, ai magistrati togati si affiancano esperti del settore, che dovrebbero partecipare sia alla fase istruttoria sia alla decisione finale sugli allontanamenti e gli affidi. L'associazione Finalmente liberi, negli anni, ha censito ben 200 casi di conflitti d'interessi: in pratica, gli onorari collaboravano spesso con le case famiglia presso le quali dovevano stabilire se collocare i minori. A volte, ha raccontato alla Verità la Franceschini, capitava che il giudice onorario fosse il fondatore o il presidente di quella comunità d'accoglienza. In seguito alle prime denunce, nel 2015 il Csm dispose che ciascun aspirante onorario allegasse alla sua candidatura una dichiarazione con cui escludeva eventuali incompatibilità. Ora, fonti del governo ci hanno ribadito la volontà di stringere ulteriormente le maglie, sancendo per legge «l'incompatibilità dei giudici onorari minorili qualora essi stessi o i rispettivi parenti o coniugi (entro il secondo grado) - e rispettivi conviventi - abbiano interessi in strutture d'affido». Secondo l'avvocato (ed ex giudice minorile) Francesco Morcavallo, pure lui già esponente di Finalmente liberi, la situazione negli ultimi anni non sarebbe granché migliorata. A suo avviso, anzi, «non è cambiato nulla. Anche nel 2010 esistevano disposizioni del Csm che vietavano ai giudici onorari di essere titolari delle case famiglia. Eppure, le circolari venivano ignorate. Io credo che i controlli mancassero allora come oggi». Non bisogna sforzarsi per capire che se chi dovrebbe decidere con distacco e serenità è coinvolto, se non come dirigente, magari come consulente o come collaboratore, nelle strutture d'affido, si determina un perverso incentivo a collocare i minori nelle case famiglia. Insomma, si consolida l'abitudine di allontanare i piccoli dai loro nuclei familiari d'origine, anche se hanno altri parenti che potrebbero prendersi cura di loro, per assegnarli alle comunità.
Morcavallo con La Verità ha sollevato un'altra questione delicatissima: a quanto pare, infatti, in molti tribunali minorili oberati di pratiche, i giudici onorari gestiscono interamente i procedimenti in luogo dei togati, non di rado in barba alle procedure. «Le deleghe agli onorari sono previste solo per singoli adempimenti. E invece spesso viene demandata a loro l'intera fase istruttoria, incluse questioni processuali che loro non sono in grado di gestire, per il semplice fatto che non conoscono la procedura». E così, ad esempio, capita che «le parti interessate non vengano nemmeno convocate in udienza». Si tratterebbe, secondo Morcavallo, di una prassi tutt'altro che infrequente: «A Roma capita tutti i giorni. Ma succede anche a Bologna, a Cagliari, a Venezia, ad Ancona. Nelle Marche, poi», ha aggiunto l'avvocato, «c'è una situazione disastrosa: alcuni procedimenti pendono per anni, finché il bambino non diventa maggiorenne…». A ciò si somma un ulteriore paradosso: «Talvolta, gli stessi giudici onorari cui è stato delegato il compito di seguire la fase istruttoria di un procedimento, poi non sono presenti in Camera di consiglio quando si decide. Si limitano ad affidare a un relatore le loro valutazioni». Dunque, non solo secondo Morcavallo i conflitti d'interessi non sono risolti, ma i giudici onorari si mettono persino a gestire, senza averne le competenze, le fasi processuali, collezionando anomalie procedurali. E, a volte, non sono neppure presenti in Camera di consiglio quando si arriva alla decisione finale. Misurare l'incidenza di questo fenomeno è impossibile: «Si dovrebbe avere accesso a tutti i fascicoli dei singoli tribunali e poi fare il calcolo di quanti sono gestiti dai giudici onorari. Ma, trattandosi di minorenni, l'accesso a quei fascicoli è giustamente limitato». Quel che è certo, comunque, è che tra giri d'affari, conflitti d'interessi e lacune nella gestione dei processi, chi ci rimette sono i bambini. Strappati alle famiglie e inseriti in un circuito di comunità dal quale rischiano di non uscire tanto facilmente.
Lo ha confermato alla Verità l'avvocato milanese Carmela Macchiarola, specializzata in diritto di famiglia. La Macchiarola si è soffermata sul problema degli stranieri. «Molti immigrati “importano" in Lombardia costumi piuttosto tribali e, magari, maltrattano le figlie. A quel punto è ovvio che il tribunale dei minori le affidi alle case famiglia». Però, c'è un però. «Il vero nodo sono le relazioni degli assistenti sociali. Costoro sono di fatto incentivati a suggerire ai magistrati di prolungare la permanenza dei minori nelle strutture d'affido, perché più sono i bimbi collocati lì, più fondi arrivano, più lavoro c'è per loro». Insomma, ha concluso la Macchiarola, per com'è congegnato, il sistema favorisce «la stagnazione dei minori nelle case famiglia».
D'altro canto, a scorgere i motivi più frequenti alla base degli allontanamenti familiari, si fa un balzo sulla sedia. Come si evince da un rapporto del 2011 del ministero del Lavoro, infatti, tra le cause spicca il 37% dei casi di «inadeguatezza genitoriale», a loro volta fondati per il 44% su «situazioni di povertà materiale». In buona sostanza, a tante famiglie povere, anziché offrire un aiuto, si tolgono i figli. Allora sì che questi sono amori strappati.
«In Veneto c’era una Onlus con la Jaguar d’ordinanza»
Cristina Franceschini, avvocato veronese, si batte con l'associazione Finalmente liberi contro le storture del sistema delle case famiglia.
Avvocato, si può dire che questo sia un business?
«Be', lo si può dedurre».
Da cosa?
«Dal fatto che ci siano comunità che arrivano a percepire rette di 400 euro al giorno a bambino, senza che ci siano rendiconti di come questi soldi vengono utilizzati».
Può fare qualche esempio?
«Tempo fa, in Veneto, avevo sollecitato un'interrogazione regionale su una casa famiglia che chiedeva, appunto, una retta da 400 euro. Due mesi dopo la retta è stata dimezzata».
Retta dimezzata?
«Se potevano sopravvivere anche con 200 euro, significa che quei 400 euro erano ingiustificati… Peraltro, a dirigere quella struttura c'era un giudice onorario!».
Ai giudici onorari ci arriviamo tra poco. Altri episodi significativi?
«Una comunità cui risultava intestata una Jaguar».
Ah però. Ma come giustificano certe rette le Onlus?
«Ad esempio, con visite psicologiche ai minori. Ma mancano i controlli».
In che senso?
«Le Regioni stanziano quei soldi, però non sanno come vengono spesi».
Perché è difficile trovare dati precisi e aggiornati ?
«Manca una banca dati nazionale sui minori allontanati. Il Garante dell'infanzia, nel 2018, aveva stilato un report sul numero dei minori accolti nelle strutture: circa 20.000. Ma si basava su dati del 2015».
Ci sono altri report?
«Quello dell'Istituto degli Innocenti, del 2010. Lì si parlava di circa 15.000 minori nelle case famiglia».
Cinquemila in meno. L'aumento negli anni a cosa potrebbe essere dovuto?
«Forse all'arrivo dei minori stranieri non accompagnati».
Altre zone d'ombra?
«Non si sa quante siano le famiglie affidatarie, che accoglierebbero altri 15.000 minori circa. È un capitolo di spesa, anche se irrisorio rispetto a quello delle strutture d'accoglienza. Una famiglia riceve tra 500 e 700 euro al mese».
Dunque, sarebbero circa 30.000 i bambini allontanati dalle famiglie di provenienza. Perché le associazioni come Finalmente liberi parlano di 50.000 casi?
«Sempre secondo quei vecchi report, c' era un flusso annuale di 10.000 minori».
Un flusso? Cioè?
«Minori accolti nelle case famiglia e poi usciti nel corso dello stesso anno. I 40/50.000 casi arrivano da qui. Ma sono solo stime».
Perché i bambini vengono allontanati dalle loro famiglie?
«In un report del 2011 spicca il dato del 37% di allontanamenti dovuti a “inadeguatezza genitoriale"».
Che vuol dire?
«Be', è un concetto amplissimo. E infatti, nello stesso report si spiegava che tra i motivi di “inadeguatezza" c'era la “povertà materiale" di una famiglia. Che però, ai sensi di legge, non può giustificare l'allontanamento di un minore».
Una famiglia povera bisogna aiutarla, non toglierle i figli.
«Esattamente».
Veniamo ai giudici onorari. Le vostre denunce hanno cambiato qualcosa?
«Nel 2015 il Csm ha emesso una nuova circolare. E nei bandi per l'ultimo triennio c'era un divieto per i giudici onorari di collaborare a qualsiasi titolo con le comunità».
Però…
«Come nel 2010 una circolare vietava ai giudici onorari di essere anche dirigenti delle case famiglia, ma veniva ignorata, credo che anche oggi manchino i controlli».
E perché?
«I presidenti dei Tribunali minorili non hanno una banca dati elettronica, che andrebbe redatta da un'autorità terza».
In che modo?
«Si verifica tutto il personale che opera nelle comunità, lo si inserisce in un archivio elettronico, così a un presidente di Tribunale basta digitare il nome di un aspirante onorario per verificare eventuali incompatibilità».
Una riforma del sistema di che altro ha bisogno?
«Nomenclature uniformi».
Che vuol dire?
«Ora ogni Regione stabilisce i criteri per assegnare a una comunità la dicitura di casa famiglia, comunità educativa, o comunità terapeutica, in base al numero di minori ospitati e al tipo di assistenza che viene fornita. Questi criteri vanno uniformati».
E poi?
«Le spese delle comunità vanno rendicontate: per ogni minore bisogna conoscere, ad esempio, quante sedute psicologiche sono state svolte, da chi, con quali costi… E ci vuole un tariffario nazionale».
Ma della commissione d'inchiesta voluta dalla Lega che ne pensa?
«Penso che serva. Ma non deve concentrarsi soltanto sull'aspetto economico».
Che altro va verificato?
«Perché, nelle case famiglia, di minori ne vengono spiediti tanti. Bisogna indagare sui criteri in base ai quali sono stabiliti gli allontanamenti. C'è un documento da cui partire».
Quella della bicamerale?
«Sì. Un'indagine conoscitiva della commissione parlamentare per l'Infanzia e l'adolescenza. I politici la studino».
«Ora ridateci la nostra nipotina»
Tra le famiglie che combattono ogni giorno per riavere un bambino strappato dalla giustizia c'è quella di Samantha Scrof la cui figlia, Angelica, è stata data in adozione dopo la sua prematura scomparsa.
A lottare per Samantha, nel tentativo di riunire quel che rimane della sua famiglia c'è Barbara, sua sorella, che non si è mai arresa all'idea che la nipotina sia stata affidata dai giudici a una coppia di estranei. «Nel ctu ( un atto formale richiesto durante un procedimento giuridico che aiuta il giudice ad acquisire informazioni prima di emettere una sentenza, ndr.) si legge chiaramente che la mia famiglia è idonea ad accogliere Angelica. Continuiamo a non comprendere questa decisione. Perché allontanare una bambina dalla sua vera famiglia per farle costruire una nuova vita con due genitori che sono dei completi estranei per lei?». Contattata dalla Verità Barbara ha spiegato come «l'esito di tutte le perizie di idoneità sulla nostra famiglia è sempre stato positivo. Per tutti, assistenti sociali e giudici, potevamo adottare Angelica. Perché allora cambiare idea e strapparla a noi in questo modo?»
La storia di Angelica, che oggi non porta più il cognome Scrof e vive la sua vita a 60 chilometri dalla casa della sua vera famiglia, è tormentatissima. La bimba, oltre a non aver mai conosciuto suo padre ha perso la mamma da piccola. «Samantha aveva problemi di tossicodipendenza» ci spiega Barbara Scrof «alla nascita di Angelica lei e la piccola vennero collocate in una struttura per mamme con figli. Ma lì non stava bene». Iniziano così una serie di trasferimenti, prima a casa della madre di Samantha e poi in una nuova casa famiglia in provincia di Pavia. È proprio in quest'ultima struttura che Angelica e Samantha vivono felici per un periodo. Fino a che la bambina non viene strappata per la prima volta alla madre. La donna, a quel punto, cade in una spirale senza fondo. «Aveva gli occhi vuoti, ci diceva che se non poteva stare con sua figlia allora era meglio morire» ricorda Barbara. E così fu. «Dopo un incontro con Angelica in cui la bimba, in lacrime, chiedeva di poter rimanere tra le braccia della madre, Samantha venne investita da due auto. Quando giunsi sul luogo dell'incidente rimasi sconvolta: quello che rimaneva di mia sorella era una scia di sangue lunga 30 metri e la sua borsetta sull'asfalto. Lei giaceva senza vita sotto un telo termico».
«Il mio primo pensiero fu la bimba. Per questo, non appena seppellita mia sorella, io, mia madre e mio fratello ci siamo immediatamente rivolti ai giudici manifestando l'intenzione di adottare la nostra nipotina» continua a raccontare Barbara Scrof «io e mio marito fummo individuati come coppia idonea a prendersi cura della bambina». Ma qualcosa è andato storto. Dopo un lungo iter con giudici, udienze, assistenti sociali e sedute con psicologi e psichiatri, il tribunale decide di affidare la piccola a una nuova famiglia. «Non ne capiamo il motivo. Noi eravamo stati ritenuti idonei, la bimba si ricorda di noi, della nonna. Perché non lasciarla con la sua vera famiglia? Perché non darle la possibilità di rimanere attaccata alle suo origini? Perché cancellare il suo passato?». Queste e altre mille domande tormentano ogni giorno Barbara e la sua famiglia che, nonostante siano passati anni non si arrendono e continuano a chiedere di riavere la piccola. «A oggi» conclude amareggiata Barbara «so che la bimba sta bene. Ha cambiato cognome. Della madre, Samantha Scrof, è stata cancellata ogni traccia. L'ho vista da lontano qualche volta, ho portato i suoi cuginetti e la nonna a osservarla di nascosto e per questo siamo stati redarguiti dai nuovi genitori che hanno addirittura chiamato i carabinieri. Perché vietarci ogni contatto con lei?».
Marianna Baroli
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I numeri dell'amore strappato: circa 30.000 minori sottratti ogni anno ai genitori, oltre 12.000 inseriti nelle comunità, esperti che decidono sugli affidi e intanto operano nelle strutture d'accoglienza. E le rette giornaliere arrivano a 400 euro a bambino.L'avvocato: «Gli enti locali stanziano i fondi ma non sanno come vengono usati. Le associazioni vanno obbligate a rendicontare tutto. E servono tariffe standard».La piccola Angelica è stata affidata in adozione nonostante l'idoneità riconosciuta ai suoi zii dai servizi sociali. Barbara Scrof: «Siamo stati cancellati dalla sua vita».Lo speciale contiene tre articoliC'è un business che si consuma sulla pelle dei più piccoli. Un business che, secondo alcune associazioni, ammonta addirittura a 1 miliardo di euro. È il giro d'affari che ruota intorno all'affido dei bambini alle case famiglia. Per carità, non tutte pensano al fatturato anziché al benessere dei minori. Ma in una galassia di cooperative autenticamente caritatevoli, ci sono nebulose di affarismo e conflitti d'interessi. A cominciare da quelli dei giudici onorari, cioè gli esperti che lavorano a contatto con i magistrati togati nei tribunali minorili. E che, come ha denunciato l'associazione Finalmente liberi, spesso operano a vario titolo proprio nelle case famiglia in cui devono decidere se spedire i bambini. Tutte situazioni che fonti dell'esecutivo assicurano essere state appena prese in carico dal ministero della Giustizia.Che il tema sia attualissimo, d'altronde, lo ha ribadito Matteo Salvini al Congresso delle famiglie di Verona, quando ha annunciato di voler «mettere occhio sul business delle comunità di bambini». I capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, hanno assicurato che sarà avviata una nuova commissione d'inchiesta (dopo quella della bicamerale per l'infanzia, che si è chiusa a gennaio 2018). E proprio ieri sera è andata in onda l'ultima puntata della fiction di Canale 5, L'amore strappato, una miniserie sul clamoroso errore giudiziario che ha coinvolto, nel 1995, la piccola Angela Lucanto, allontanata dalla famiglia perché suo padre era stato ingiustamente accusato di averla molestata. La Lucanto, sul suo dramma, ha pubblicato un libro, Rapita dalla giustizia, scritto assieme ai giornalisti Caterina Guarnieri e Maurizio Tortorella.Ma quanti bambini sono stati sottratti alle loro famiglie in Italia? E perché? Rispondere, nonostante le indagini condotte più volte dal Parlamento e dall'Authority per l'infanzia, non è facilissimo. Gli ultimi dati ufficiali del ministero del Lavoro risalgono al 2012. Nel gennaio 2018, la Commissione per l'infanzia e l'adolescenza aveva calcolato che nel 2014 erano 26.420 i piccoli sottratti alle famiglie. Altre fonti, nel 2015, parlavano di 28.449. Non tutti, ovviamente, finiscono nelle comunità: circa il 50% viene affidato ad altri nuclei familiari. Numeri più recenti è complicato trovarne. Le stime più verosimili, hanno spiegato alla Verità dal ministero della Famiglia, si ottengono incrociando i report del Garante e dell'Istituto degli Innocenti di Firenze, che comunque si basano su rilevazioni del 2015. Da qui si evince che i minori ospitati in strutture come case famiglia o comunità terapeutiche sono circa 12.000. A questi, però, vanno aggiunti i cosiddetti «dati di flusso», ovvero i bambini che entrano ed escono da una comunità nel corso di uno stesso anno. In tal caso, la cifra sale fino a circa 20.000 minori. Le associazioni che si battono per porre un argine agli allontanamenti, tuttavia, ritengono che il dato di flusso sia più alto. E parlano addirittura di 50.000 casi complessivi, tra i bambini nelle comunità e quelli assegnati a nuclei affidatari. Ma le case famiglia? Secondo le ultime stime, sarebbero almeno 3.352. Ed è presto spiegato come si arriva al business da 1 miliardo di euro. «Le rette erogate da Comuni e Regioni, in media, viaggiano dai 70 ai 120 euro al giorno a minore», ha riferito alla Verità l'avvocato Cristina Franceschini, di Finalmente liberi. «Ma se i minori hanno disagi più seri e se le strutture d'accoglienza offrono, ad esempio, delle sedute di psicoterapia, le rette possono arrivare anche fino a 400 euro». Basta fare qualche moltiplicazione per ottenere il risultato finale. Luisella Mattiaca, del Coordinamento italiano servizi maltrattamento all'infanzia, insiste da diversi anni: non esiste alcun miliardo di euro. A suo avviso - così aveva riferito ad Avvenire nel 2015 - «il costo annuo dei minori in comunità è di 520 milioni. Con una retta adeguata costerebbero 785 milioni». Ad alimentare il balletto dei numeri contribuisce una certa opacità: quasi mai ci sono rendiconti precisi delle spese sostenute dai singoli centri d'accoglienza. Le rette, inoltre, variano molto di Regione in Regione e di Comune in Comune: a Roma la media è di 70 euro, in Veneto di 120, in Calabria di 90, in Campania di 115, in Lombardia di 107, ma a Milano di 78. Anche per questi motivi il governo gialloblù è orientato a introdurre un tariffario unico nazionale.Il capitolo più dolente, tuttavia, è quello dei conflitti d'interessi dei giudici onorari. Nei tribunali dei minori, ai magistrati togati si affiancano esperti del settore, che dovrebbero partecipare sia alla fase istruttoria sia alla decisione finale sugli allontanamenti e gli affidi. L'associazione Finalmente liberi, negli anni, ha censito ben 200 casi di conflitti d'interessi: in pratica, gli onorari collaboravano spesso con le case famiglia presso le quali dovevano stabilire se collocare i minori. A volte, ha raccontato alla Verità la Franceschini, capitava che il giudice onorario fosse il fondatore o il presidente di quella comunità d'accoglienza. In seguito alle prime denunce, nel 2015 il Csm dispose che ciascun aspirante onorario allegasse alla sua candidatura una dichiarazione con cui escludeva eventuali incompatibilità. Ora, fonti del governo ci hanno ribadito la volontà di stringere ulteriormente le maglie, sancendo per legge «l'incompatibilità dei giudici onorari minorili qualora essi stessi o i rispettivi parenti o coniugi (entro il secondo grado) - e rispettivi conviventi - abbiano interessi in strutture d'affido». Secondo l'avvocato (ed ex giudice minorile) Francesco Morcavallo, pure lui già esponente di Finalmente liberi, la situazione negli ultimi anni non sarebbe granché migliorata. A suo avviso, anzi, «non è cambiato nulla. Anche nel 2010 esistevano disposizioni del Csm che vietavano ai giudici onorari di essere titolari delle case famiglia. Eppure, le circolari venivano ignorate. Io credo che i controlli mancassero allora come oggi». Non bisogna sforzarsi per capire che se chi dovrebbe decidere con distacco e serenità è coinvolto, se non come dirigente, magari come consulente o come collaboratore, nelle strutture d'affido, si determina un perverso incentivo a collocare i minori nelle case famiglia. Insomma, si consolida l'abitudine di allontanare i piccoli dai loro nuclei familiari d'origine, anche se hanno altri parenti che potrebbero prendersi cura di loro, per assegnarli alle comunità.Morcavallo con La Verità ha sollevato un'altra questione delicatissima: a quanto pare, infatti, in molti tribunali minorili oberati di pratiche, i giudici onorari gestiscono interamente i procedimenti in luogo dei togati, non di rado in barba alle procedure. «Le deleghe agli onorari sono previste solo per singoli adempimenti. E invece spesso viene demandata a loro l'intera fase istruttoria, incluse questioni processuali che loro non sono in grado di gestire, per il semplice fatto che non conoscono la procedura». E così, ad esempio, capita che «le parti interessate non vengano nemmeno convocate in udienza». Si tratterebbe, secondo Morcavallo, di una prassi tutt'altro che infrequente: «A Roma capita tutti i giorni. Ma succede anche a Bologna, a Cagliari, a Venezia, ad Ancona. Nelle Marche, poi», ha aggiunto l'avvocato, «c'è una situazione disastrosa: alcuni procedimenti pendono per anni, finché il bambino non diventa maggiorenne…». A ciò si somma un ulteriore paradosso: «Talvolta, gli stessi giudici onorari cui è stato delegato il compito di seguire la fase istruttoria di un procedimento, poi non sono presenti in Camera di consiglio quando si decide. Si limitano ad affidare a un relatore le loro valutazioni». Dunque, non solo secondo Morcavallo i conflitti d'interessi non sono risolti, ma i giudici onorari si mettono persino a gestire, senza averne le competenze, le fasi processuali, collezionando anomalie procedurali. E, a volte, non sono neppure presenti in Camera di consiglio quando si arriva alla decisione finale. Misurare l'incidenza di questo fenomeno è impossibile: «Si dovrebbe avere accesso a tutti i fascicoli dei singoli tribunali e poi fare il calcolo di quanti sono gestiti dai giudici onorari. Ma, trattandosi di minorenni, l'accesso a quei fascicoli è giustamente limitato». Quel che è certo, comunque, è che tra giri d'affari, conflitti d'interessi e lacune nella gestione dei processi, chi ci rimette sono i bambini. Strappati alle famiglie e inseriti in un circuito di comunità dal quale rischiano di non uscire tanto facilmente.Lo ha confermato alla Verità l'avvocato milanese Carmela Macchiarola, specializzata in diritto di famiglia. La Macchiarola si è soffermata sul problema degli stranieri. «Molti immigrati “importano" in Lombardia costumi piuttosto tribali e, magari, maltrattano le figlie. A quel punto è ovvio che il tribunale dei minori le affidi alle case famiglia». Però, c'è un però. «Il vero nodo sono le relazioni degli assistenti sociali. Costoro sono di fatto incentivati a suggerire ai magistrati di prolungare la permanenza dei minori nelle strutture d'affido, perché più sono i bimbi collocati lì, più fondi arrivano, più lavoro c'è per loro». Insomma, ha concluso la Macchiarola, per com'è congegnato, il sistema favorisce «la stagnazione dei minori nelle case famiglia».D'altro canto, a scorgere i motivi più frequenti alla base degli allontanamenti familiari, si fa un balzo sulla sedia. Come si evince da un rapporto del 2011 del ministero del Lavoro, infatti, tra le cause spicca il 37% dei casi di «inadeguatezza genitoriale», a loro volta fondati per il 44% su «situazioni di povertà materiale». In buona sostanza, a tante famiglie povere, anziché offrire un aiuto, si tolgono i figli. Allora sì che questi sono amori strappati.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-business-dei-bimbi-case-famiglia-un-tesoro-da-1-miliardo-e-troppi-giudici-con-il-conflitto-dinteressi-2634615340.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-veneto-cera-una-onlus-con-la-jaguar-dordinanza" data-post-id="2634615340" data-published-at="1765255224" data-use-pagination="False"> «In Veneto c’era una Onlus con la Jaguar d’ordinanza» Cristina Franceschini, avvocato veronese, si batte con l'associazione Finalmente liberi contro le storture del sistema delle case famiglia. Avvocato, si può dire che questo sia un business? «Be', lo si può dedurre». Da cosa? «Dal fatto che ci siano comunità che arrivano a percepire rette di 400 euro al giorno a bambino, senza che ci siano rendiconti di come questi soldi vengono utilizzati». Può fare qualche esempio? «Tempo fa, in Veneto, avevo sollecitato un'interrogazione regionale su una casa famiglia che chiedeva, appunto, una retta da 400 euro. Due mesi dopo la retta è stata dimezzata». Retta dimezzata? «Se potevano sopravvivere anche con 200 euro, significa che quei 400 euro erano ingiustificati… Peraltro, a dirigere quella struttura c'era un giudice onorario!». Ai giudici onorari ci arriviamo tra poco. Altri episodi significativi? «Una comunità cui risultava intestata una Jaguar». Ah però. Ma come giustificano certe rette le Onlus? «Ad esempio, con visite psicologiche ai minori. Ma mancano i controlli». In che senso? «Le Regioni stanziano quei soldi, però non sanno come vengono spesi». Perché è difficile trovare dati precisi e aggiornati ? «Manca una banca dati nazionale sui minori allontanati. Il Garante dell'infanzia, nel 2018, aveva stilato un report sul numero dei minori accolti nelle strutture: circa 20.000. Ma si basava su dati del 2015». Ci sono altri report? «Quello dell'Istituto degli Innocenti, del 2010. Lì si parlava di circa 15.000 minori nelle case famiglia». Cinquemila in meno. L'aumento negli anni a cosa potrebbe essere dovuto? «Forse all'arrivo dei minori stranieri non accompagnati». Altre zone d'ombra? «Non si sa quante siano le famiglie affidatarie, che accoglierebbero altri 15.000 minori circa. È un capitolo di spesa, anche se irrisorio rispetto a quello delle strutture d'accoglienza. Una famiglia riceve tra 500 e 700 euro al mese». Dunque, sarebbero circa 30.000 i bambini allontanati dalle famiglie di provenienza. Perché le associazioni come Finalmente liberi parlano di 50.000 casi? «Sempre secondo quei vecchi report, c' era un flusso annuale di 10.000 minori». Un flusso? Cioè? «Minori accolti nelle case famiglia e poi usciti nel corso dello stesso anno. I 40/50.000 casi arrivano da qui. Ma sono solo stime». Perché i bambini vengono allontanati dalle loro famiglie? «In un report del 2011 spicca il dato del 37% di allontanamenti dovuti a “inadeguatezza genitoriale"». Che vuol dire? «Be', è un concetto amplissimo. E infatti, nello stesso report si spiegava che tra i motivi di “inadeguatezza" c'era la “povertà materiale" di una famiglia. Che però, ai sensi di legge, non può giustificare l'allontanamento di un minore». Una famiglia povera bisogna aiutarla, non toglierle i figli. «Esattamente». Veniamo ai giudici onorari. Le vostre denunce hanno cambiato qualcosa? «Nel 2015 il Csm ha emesso una nuova circolare. E nei bandi per l'ultimo triennio c'era un divieto per i giudici onorari di collaborare a qualsiasi titolo con le comunità». Però… «Come nel 2010 una circolare vietava ai giudici onorari di essere anche dirigenti delle case famiglia, ma veniva ignorata, credo che anche oggi manchino i controlli». E perché? «I presidenti dei Tribunali minorili non hanno una banca dati elettronica, che andrebbe redatta da un'autorità terza». In che modo? «Si verifica tutto il personale che opera nelle comunità, lo si inserisce in un archivio elettronico, così a un presidente di Tribunale basta digitare il nome di un aspirante onorario per verificare eventuali incompatibilità». Una riforma del sistema di che altro ha bisogno? «Nomenclature uniformi». Che vuol dire? «Ora ogni Regione stabilisce i criteri per assegnare a una comunità la dicitura di casa famiglia, comunità educativa, o comunità terapeutica, in base al numero di minori ospitati e al tipo di assistenza che viene fornita. Questi criteri vanno uniformati». E poi? «Le spese delle comunità vanno rendicontate: per ogni minore bisogna conoscere, ad esempio, quante sedute psicologiche sono state svolte, da chi, con quali costi… E ci vuole un tariffario nazionale». Ma della commissione d'inchiesta voluta dalla Lega che ne pensa? «Penso che serva. Ma non deve concentrarsi soltanto sull'aspetto economico». Che altro va verificato? «Perché, nelle case famiglia, di minori ne vengono spiediti tanti. Bisogna indagare sui criteri in base ai quali sono stabiliti gli allontanamenti. C'è un documento da cui partire». Quella della bicamerale? «Sì. Un'indagine conoscitiva della commissione parlamentare per l'Infanzia e l'adolescenza. I politici la studino». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-business-dei-bimbi-case-famiglia-un-tesoro-da-1-miliardo-e-troppi-giudici-con-il-conflitto-dinteressi-2634615340.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ora-ridateci-la-nostra-nipotina" data-post-id="2634615340" data-published-at="1765255224" data-use-pagination="False"> «Ora ridateci la nostra nipotina» Tra le famiglie che combattono ogni giorno per riavere un bambino strappato dalla giustizia c'è quella di Samantha Scrof la cui figlia, Angelica, è stata data in adozione dopo la sua prematura scomparsa. A lottare per Samantha, nel tentativo di riunire quel che rimane della sua famiglia c'è Barbara, sua sorella, che non si è mai arresa all'idea che la nipotina sia stata affidata dai giudici a una coppia di estranei. «Nel ctu ( un atto formale richiesto durante un procedimento giuridico che aiuta il giudice ad acquisire informazioni prima di emettere una sentenza, ndr.) si legge chiaramente che la mia famiglia è idonea ad accogliere Angelica. Continuiamo a non comprendere questa decisione. Perché allontanare una bambina dalla sua vera famiglia per farle costruire una nuova vita con due genitori che sono dei completi estranei per lei?». Contattata dalla Verità Barbara ha spiegato come «l'esito di tutte le perizie di idoneità sulla nostra famiglia è sempre stato positivo. Per tutti, assistenti sociali e giudici, potevamo adottare Angelica. Perché allora cambiare idea e strapparla a noi in questo modo?» La storia di Angelica, che oggi non porta più il cognome Scrof e vive la sua vita a 60 chilometri dalla casa della sua vera famiglia, è tormentatissima. La bimba, oltre a non aver mai conosciuto suo padre ha perso la mamma da piccola. «Samantha aveva problemi di tossicodipendenza» ci spiega Barbara Scrof «alla nascita di Angelica lei e la piccola vennero collocate in una struttura per mamme con figli. Ma lì non stava bene». Iniziano così una serie di trasferimenti, prima a casa della madre di Samantha e poi in una nuova casa famiglia in provincia di Pavia. È proprio in quest'ultima struttura che Angelica e Samantha vivono felici per un periodo. Fino a che la bambina non viene strappata per la prima volta alla madre. La donna, a quel punto, cade in una spirale senza fondo. «Aveva gli occhi vuoti, ci diceva che se non poteva stare con sua figlia allora era meglio morire» ricorda Barbara. E così fu. «Dopo un incontro con Angelica in cui la bimba, in lacrime, chiedeva di poter rimanere tra le braccia della madre, Samantha venne investita da due auto. Quando giunsi sul luogo dell'incidente rimasi sconvolta: quello che rimaneva di mia sorella era una scia di sangue lunga 30 metri e la sua borsetta sull'asfalto. Lei giaceva senza vita sotto un telo termico». «Il mio primo pensiero fu la bimba. Per questo, non appena seppellita mia sorella, io, mia madre e mio fratello ci siamo immediatamente rivolti ai giudici manifestando l'intenzione di adottare la nostra nipotina» continua a raccontare Barbara Scrof «io e mio marito fummo individuati come coppia idonea a prendersi cura della bambina». Ma qualcosa è andato storto. Dopo un lungo iter con giudici, udienze, assistenti sociali e sedute con psicologi e psichiatri, il tribunale decide di affidare la piccola a una nuova famiglia. «Non ne capiamo il motivo. Noi eravamo stati ritenuti idonei, la bimba si ricorda di noi, della nonna. Perché non lasciarla con la sua vera famiglia? Perché non darle la possibilità di rimanere attaccata alle suo origini? Perché cancellare il suo passato?». Queste e altre mille domande tormentano ogni giorno Barbara e la sua famiglia che, nonostante siano passati anni non si arrendono e continuano a chiedere di riavere la piccola. «A oggi» conclude amareggiata Barbara «so che la bimba sta bene. Ha cambiato cognome. Della madre, Samantha Scrof, è stata cancellata ogni traccia. L'ho vista da lontano qualche volta, ho portato i suoi cuginetti e la nonna a osservarla di nascosto e per questo siamo stati redarguiti dai nuovi genitori che hanno addirittura chiamato i carabinieri. Perché vietarci ogni contatto con lei?». Marianna Baroli
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Essi, infatti, incidevano il tronco della Manilkara chicle e raccoglievano la sostanza che ne colava, per poi bollirla fino al raggiungimento della consistenza giusta per appallottolarla in pezzetti da masticare. La parola chicle è il nome in lingua nahuatl della pianta da cui i Maya estraevano la gomma, la Manikara chicle, appunto, che è una pianta angiosperma dicotiledone della famiglia delle Sapotaceae diffuse nei Paesi dell’America centrale e in Colombia, un bell’albero sempreverde dalla grande chioma che arriva fino a 40 metri di altezza, presente dalla messicana Veracruz fin le coste atlantiche della Colombia. L’albero della Manikara chicle cresce nelle foreste, fino a 1.100 metri sul livello del mare, pensate, e non solo i Maya ne masticavano le palline, ma, in un certo senso, anche noi. Il nome che comunemente si dà in Piemonte alla gomma da masticare, cicles, deriva proprio dal nome di questa pianta, arrivato da noi attraverso una marca di gomme da masticare americana negli anni appena successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Da cicles deriva anche cicca, altro modo di chiamare colloquialmente il chewing gum. E proprio dalla corteccia della Manikara chicle e da altre piante congeneri nasce questo lattice che in passato si usava come unica materia prima gommosa (e naturale) per preparare le gomme da masticare. Le tesi sul passaggio dalla gomma naturale masticata dai Maya a quella di produzione occidentale sono varie. Secondo alcuni, la gomma da masticare occidentale nasce per riciclare quantitativi di quel lattice dei Maya esportato negli Usa, però senza successo. Nel 1845, il generale messicano Santa Ana, in fuga a New York dopo un colpo di Stato che lo aveva esautorato dal potere, propone all’imprenditore Thomas Adams una partita di chicle, che però non supera il processo di vulcanizzazione e non va bene per l’uso industriale. Così Adams pensa di aggiungere sciroppo di zucchero e un aroma (ovvero sassofrasso o liquirizia) e nel 1866 lancia il bon bon da ciancicare sul mercato alimentare, col nome di Adams - New York Chewing gum. Chewing gum significa letteralmente gomma masticante, cioè masticabile, ossia da masticare. La gomma da masticare si fa strada nel cuore e soprattutto nelle bocche degli americani: nel 1885 l’imprenditore di Cleveland William J. White sostituisce lo sciroppo di zucchero con lo sciroppo di glucosio, più performante nella miscelazione con altri ingredienti, e aromatizza con quello che poi diventerà l’archetipo assoluto della gomma da masticare, anche perché rinfresca l’alito, la menta piperita. Nel 1893 William Wrigley crea due nuove gomme da masticare, la Spearmint e Juicy fruit. Secondo altre tesi, prima di Thomas Adams il primo a commerciare una gomma da masticare, ottenuta però dalla linfa di abete rosso, fu John B. Curtis, che nel 1848 produsse la State of Maine Pure Spruce Gum, una ricetta segreta che oltretutto non brevettò mai. La gomma da masticare arriva in Europa, coi soldati americani, durante la Prima Guerra Mondiale, in Francia. Da noi, arriva con la Liberazione che pone fine alla Seconda Guerra Mondiale. Per un po’ di tempo gli italiani masticano americano. Poi, il dolcificio Perfetti di Lainate, nato infatti nel 1946, inizia a produrre chewing gum italiano con il nome, giustamente americano, Brooklyn. Il formato non è sferico ma a lastrina, lo slogan noto a tutti, «la gomma del ponte», sottinteso di Brooklyn, insomma la gomma americana.
Oggi più che mai, ma ben prima di oggi, più o meno a partire dagli anni Sessanta, il chewing gum abbandona la sua fattezza totalmente naturale e diventa sintetico, del tutto o in gran parte sintetico. È un po’ il destino di tutto: nel caso della gomma da masticare il motivo è che in questo modo la produzione costa meno e poi la sinteticizzazione della materia prima sopperisce alla rarefazione degli alberi di sapodilla. Il chicle sintetico è fatto con polimeri sintetici, in particolare gomma butadiene-stirene e acetato di polivinile. Di solito, giusto il 15-20% circa della gomma usata è ancora fatta di lattice di sapodilla (oppure di jelutong, l’albero da lattice Dyera costulata diffuso nelle foreste del Sudest asiatico). A questa base gommosa si aggiungono aromi, edulcoranti e additivi, come lo xantano, che rendono il chewing- gum odierno più elastico del suo antenato Maya. E infatti ciancichiamo a tutto andare, la stima di consumo mondiale è di circa 350 miliardi di gomme da masticare all’anno, circa 30 milioni in Italia.
D’altronde, c’è un chewing gum per ogni occasione. I chewing gum in commercio oggi sono divisibili in quattro gruppi: con lo zucchero, senza lo zucchero, chewing gum rivestiti e chewing gum medicati. Nei primi abbiamo quasi l’80% di peso in zuccheri, come saccarosio e sciroppo di glucosio. Il chewing gum senza zucchero contiene polioli naturali come sorbitolo, xilitolo, eritritolo, dolcificanti naturali a basso contenuto calorico, basso rischio cariogenico e e basso indice glicemico, oppure dolcificanti sintetici ad alta intensità come l’aspartame, il sucralosio, l’acesulfame K. Le gomme da masticare rivestite sono quelle col ripieno e quelle medicate sono, invece, addizionate di sostanze nutritive o composti farmaceutici, per promuovere funzioni specifiche del nostro organismo e prevenire alcuni disturbi, come le gomme antinausea per il mal d’auto e le gomme alla nicotina per la disintossicazione dal fumo. Queste ultime, naturalmente, non devono essere usate in circostanze diverse da quelle per cui nascono.
Ma masticare gomme fa bene o fa male? Se guardiamo all’antenato della gomma da masticare, sicuramente masticare materie di estrazione naturale, in primo luogo resine, è una prassi umana radicata e volta ad uno scopo innanzitutto curativo. Pensate che nel sito neolitico di Kiriekki, in Finlandia, i ricercatori hanno di recente rinvenuto un pezzo di resina risalente al terzo millennio prima di Cristo, ricavato da corteccia di betulla, con segni di denti ben visibili. Anche i greci del V secolo a.C. usavano masticare resine di lentisco. I nostri antenati masticavano resine per estrarne i fenoli, che hanno proprietà antinfiammatorie. Non masticavano solo resine: i malesi masticavano noci di betel, etiopi e yemeniti il qat del Corno d’Africa, i Maya, appunto, palline di chicle. Oggi, continuiamo a masticare. Dopo cioccolatini e caramelle, il chewing gum è il terzo piccolo boccone dolce preferito al mondo, naturalmente non si ingoia e l’apporto calorico è certamente inferiore a quello di cioccolatini e caramelle, quindi molti masticano il terzo, anziché mangiare i primi due per stare a dieta.
Masticare il chewing gum può avere aspetti positivi. Se dopo un pasto o uno snack non abbiamo modo di lavare i denti con spazzolino e dentifricio, rischiamo che la diminuzione del valore del PH della placca conseguente al pasto intacchi smalto e dentina aumentando il rischio di carie. Per alzarlo, allora, e riportarlo a livelli di normalità si può masticare chewing gum senza zucchero, in questo modo stimoliamo la produzione di saliva, la cui aumentata quantità nel cavo orale ha l’effetto di riportare il PH della placca dentaria a un valore normale, debellando il rischio carie. Particolarmente adatto pare essere il chewing gum senza zucchero con xilitolo, del quale è stata appurata la capacità di inibire la crescita dei batteri che, lasciati invece liberi, possono demineralizzare lo smalto e la dentina, favorendo la nascita della carie. La produzione extra di saliva aiuta questo effetto preventivo della carie del chewing gum con xilitolo, perché la saliva contiene enzimi ed anticorpi che hanno un effetto antibatterico naturale. La saliva ha anche l’effetto di rimineralizzare e quindi rafforzare lo smalto dentario. Masticare il chewing gum dopo un pasto fuori casa poi ha un effetto detergente sui denti. Masticare il chewing gum ha un effetto rinfrescante sull’alito, tuttavia questo non si può considerare un intervento curativo a lungo termine nel caso si soffra di alitosi stabile, che va indagata e curata alla radice. Idem la pulizia dei denti, non si può certamente considerare la masticazione del chewing gum equivalente a lavare i denti con lo spazzolino e poi a passare il filo interdentale. La masticazione del chewing gum non dovrebbe superare i 15-20 minuti e massimo per 3 chewing gum al giorno. Se si esagera, invece, si rischia di creare problemi all’articolazione della mascella e ai muscoli della bocca e delle guance. Inoltre, essendo le gomme da masticare contemporanee estremamente adesive rispetto a quella di sola origine naturale, si rischia di tirare via otturazioni dentali, se se ne hanno, e creare problemi ad altre presenze nella bocca come ponti, protesi e apparecchi (soprattutto in quest’ultimo caso, non si deve masticare la gomma). Sembra poi che masticare chewing gum aiuti la concentrazione.
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Uno scatto della famiglia anglo-australiana, che viveva nel bosco di Palmoli, in provincia di Chieti (Ansa)
Non è certo un grosso problema: è sufficiente reidratare il paziente e si risolve nel giro di un paio di giorni al massimo. La tragedia è che questo ha allertato il «lupo». Per una indigestione da funghi, la famiglia è stata attenzionata dai servizi sociali.
Levare un bambino alla sua famiglia, staccarlo da sua madre, è un danno di gravità mille. Il cortisolo alle stelle, la fede nel mondo distrutta. Lo stress è talmente atroce che abbatte il sistema immunitario. Un bambino si può levare solo quando sta subendo un danno di gravità duemila. Come si fa a non sbagliarsi? Basta usare il buon senso, la logica e ascoltare i bambini.
Eleonora è morta il 7 gennaio 2005 a Bari. Aveva 16 mesi. Era nata sana come un pesciolino. È morta di stenti, di fame e sete, ma sicuramente avranno avuto un peso le botte, le ecchimosi, le escoriazioni suppurate, le due vecchie fratture a un braccio mai curate, la completa mancanza di sole, e soprattutto le devastanti piaghe da decubito per i pannolini non cambiati. Era legata al passeggino e il passeggino era messo davanti a un muro. Ha vissuto nel dolore e nel terrore: la paura continua dei colpi da parte della madre e del suo convivente (le tiravano addosso di tutto, se piangeva) o anche dei due fratellini a cui era stata regalata come una specie di giocattolo da tormentare. L’ha uccisa la paura che la notte calasse senza nemmeno il mezzo biberon che le davano ogni due giorni. La notte è calata per più di una volta consecutiva senza il mezzo biberon, ed Eleonora è morta di disidratazione. Le assistenti sociali, allertate da vicini perplessi, erano arrivate alla sua porta, per ben quattro volte, avevano fatto toc toc come il lupo davanti alla porta dei tre porcellini, nessuno aveva aperto e il discorso è stato considerato chiuso.
Le assistenti sociali sono persone educate, estremamente rispettose, davanti alle porte chiuse si fermano. I due fratellini di Eleonora sono stati ricoverati in ospedale. Quando hanno loro chiesto se volessero stare con mamma o con la dottoressa, hanno risposto che volevano stare con la dottoressa. I bambini abusati lo capiscono che fuori casa stanno meglio e lo verbalizzano. Un bambino, dopo aver dichiarato innumerevoli volte che la madre era violenta con lui, che lo terrorizzava, che non voleva andare con lei, è stato consegnato alla donna che lo ha sgozzato. Si sono fidati di un qualche esperto, uno psichiatra, un’altra assistente sociale, un giudice che per una qualche teoria letta su un libro ha ritenuto di avere la capacità di stabilire che quella madre non fosse pericolosa, e che il bambino che ne aveva paura fosse uno sciocchino.
Sono le stesse assistenti sociali che, dopo aver tolto un bambino a sua madre con le motivazioni più creative, stanno con le labbra strette e l’orologio in mano a controllare che non si sgarri dai 60 minuti che un giudice, che non ha mai visto quel bambino in vita sua, ha stabilito per la visita due volte al mese. L’assistente sociale sottolinea alla madre che il bambino il giorno del colloquio con lei è agitato, disperato e intrattabile, mentre di solito è sempre «buonissimo». Buonissimo vuol dire apatico e rassegnato, in inglese si usa il termine «functional freezing», congelamento delle emozioni per evitare di essere schiantato dal dolore. Il congelamento deve essere totale perché il bambino possa essere svuotato di qualsiasi emotività e ridotto a cosa. Se il bimbo ha un fratello, viene separato da lui. Sparisce la nonna da cui andava tutti i pomeriggi e che gli faceva i biscotti, spariscono gli amici. A volte sono andati a prenderlo poliziotti armati. Più il trauma è atroce, più potente è il congelamento emotivo che rende il bambino malleabile.
La prima notte che il bambino passa in «casa famiglia», vezzoso termine con cui si chiamano gli orfanotrofi statali dove portano i bambini tolti alle famiglie, piange tutta la notte: se è piccolo può arrivare alla disidratazione. Poi si «rasserena», diventa buono. La rassegnazione si paga in malattie. Ci sono processi che dimostrano che è vero che nei campi rom si vendono bambini ladri e bambine prostitute, periodicamente qualche bambino rom muore bruciato vivo nella roulotte che ha preso fuoco, eppure nessuno interviene. I rom non vogliono essere disturbati e le assistenti sociali sono persone rispettose delle civiltà altrui, per questo non intervengono nelle famiglie musulmane che infibulano la figlia di due anni o danno la figlia tredicenne in sposa al cugino mai visto prima. Ma è su tre nomi: Forteto, Bibbiano, Bassa Modenese, che il sistema ha mostrato la sua struttura violentemente patologica. Non metto in dubbio che tra le assistenti sociali esistano persone di buon senso e non malevole, ma un sistema che ha prodotto Bibbiano, il Forteto e la Bassa Modenese è strutturalmente privo di buonsenso e soprattutto malevolo, e deve essere ristrutturato o abolito. Gli assistenti sociali e i giudici hanno un potere totale. Non rispondono degli errori. La facoltà da cui escono gli assistenti sociali, dopo aver dato alcuni esami e superato una tesi, in nulla garantisce buon senso e benevolenza, anzi: è il contrario. Si tratta di una delle facoltà politicamente strutturate, il 99% dei docenti e degli iscritti sono di sinistra. Le assistenti sociali sono il braccio armato della politica della sinistra mondiale: odio per il cristianesimo, odio per la famiglia, amore sviscerato per tutte le tematiche Lgbt. Tra i minuscoli esami con cui le assistenti sociali formano la loro capacità di giudicare il bene e il male, di distruggere famiglie, di annientare la psiche ma anche il corpo dei bambini che hanno la sciagura di attirare la loro attenzione, quindi non Eleonora e non i bambini rom, le incredibili idiozie raccolte sotto il nome di «studi gender» sono considerate una lodevole intuizione scientifica. Le assistenti sociali sono convinte che un uomo possa essere una donna, che un bambino affidato a due maschi che l’hanno comprato non possa che stare benissimo, e che in fondo la famiglia «tradizionale» sia un modello da superare. La terza situazione problematica è la mancanza di un controllo sui controllori. Chi stabilisce che la psiche dell’assistente sociale e del giudice che possono distruggere la vita di altri sia in equilibrio? Si tratta di persone che hanno semplicemente superato degli esami e un concorso. Chi stabilisce che nella sua mente l’assistente sociale, che controlla con le labbra strette che la madre non possa stare con i suoi figli più del numero di minuti stabiliti da lei o da un giudice, non abbia tendenze di aggressività maligna o non le abbia sviluppate facendo questo lavoro?
Sono stati fatti terribili esperimenti, dove persone prese a caso venivano messe nel ruolo del carceriere, dove qualcun altro a caso faceva il carcerato: era una recita. Ma molti hanno sviluppato linee di aggressività maligna. Dove si ha potere sugli altri, è estremamente facile che si sviluppino linee di aggressività maligna, linee di piacere nell’infliggere ad altri dolore attraverso la propria autorità. Ripeto la domanda: chi controlla i controllori? Nel frattempo, se avete bambini in casa, evitate i funghi. Le zucchine costano anche meno.
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Soldati di guardia vicino al confine tra Thailandia e Cambogia (Getty Images)
L’ennesimo scontro sta imponendo nuove evacuazioni di massa su entrambi i lati del confine. Il governo della Thailandia ha ordinato a più di 380.000 suoi cittadini di abbandonare subito le aree ad alto rischio, con decine di migliaia che hanno già raggiunto i rifugi allestiti dal governo.
La Cambogia ha spostato circa 1200 famiglie, portandole all’interno del paese e lontane dalla zona dove si combatte. Hun Manet, primo ministro della Cambogia ha pubblicamente accusato la Thailandia, di essersi inventata un incidente fra i militari per tornare ad attaccare la Cambogia, negando che ci sia stato qualsiasi tipo di atto provocatorio da parte dell’esercito di Phnom Penh. Il governo di Bangkok ha invece additato la Cambogia come la nazione che non vuole rispettare l’accordo avendo continuato a minare il confine comune. «Il ministero della Difesa thailandese.ha autorizzato nuove operazioni militari a fronte dell’escalation - ha dichiarato il portavoce dell’esercito Winthai Suvaree - i raid hanno preso di mira infrastrutture militari cambogiane in rappresaglia all’attacco avvenuto in precedenza. il nostro unico obiettivo sono le posizioni di supporto della Cambogia nell’area del passo di Chong An Ma, un’area che doveva essere smilitarizzata».
I combattimenti della scorsa estate in pochi giorni avevano provocato 45 morti ed oltre 250.000 sfollati da entrambe le parti. Alla fine dell’estate a Kuala Lumpur Malesia, Cina e anche Stati Uniti avevano mediato un primo cessate il fuoco che però non era mai stato realmente applicato. A ottobre il presidente statunitense Donald Trump si era impegnato in prima persona co-firmando una dichiarazione congiunta tra le due nazioni e promuovendo allo stesso tempo una serie di nuovi accordi commerciali con Bangkok e Phnom Penh, nel caso avessero accettato un prolungamento del cessate il fuoco. Questo accordo sembrava poter durare, ma meno di un mese fa la Thailandia ha deciso di sospenderlo unilateralmente, accusando la Cambogia di aver minato una zona in territorio thailandese e l’esplosione di una mina aveva anche ferito alcuni soldati. Il primo ministro cambogiano ha ribadito il suo impegno nei confronti dell'accordo, che prevedeva il rilascio di 18 prigionieri cambogiani detenuti in Thailandia da diversi mesi e non ancora liberati. Il problema rimane il posizionamento del confine e la contestazione di alcune aree e templi che si trovano in territorio cambogiano, ma che sono rivendicati da Bangkok.
Le aree contese ospitano diversi templi di grande interesse storico e culturale, tra cui il Preah Vihear. La Corte Internazionale di Giustizia ne ha concesso la sovranità esclusiva a Phnom Penh, ma Bangkok si rifiuta di riconoscere l'autorità della Corte in materia territoriale. In realtà la questione è molto più profondo e da molti anni fra i due paesi del sud-est asiatico la tensione rimane altissima. Entrambe le nazioni sono caratterizzate da un acceso nazionalismo che diventa determinante soprattutto fra le popolazioni che vivono lungo gli oltre 800 chilometri di confine. L’amministrazione statunitense si è detta pronta a riportare i due contendenti al tavolo delle trattative, ma intanto l’aviazione thailandese sta continuando a martellare il territorio cambogiano.
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Ecco #DimmiLaVerità dell'8 dicembre 2025. La "dj" ufficiale di Atreju, la deputata di Fdi Grazia Di Maggio, ci parla della festa nazionale del partito di Giorgia Meloni.