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2020-02-20
Il Bullo se la prende solo con Bonafede. E prova a rilanciarsi con le larghe intese
Alfonso Bonafede (Ansa)
Più petardo che bomba. Più penultimatum che ultimatum. Da 48 ore, complice la crescita della tensione tra Matteo Renzi e Giuseppe Conte, e considerando il battage autopromozionale con cui il Bullo aveva lanciato e caricato di significato la sua ospitata televisiva, c'era grande attesa per la presenza di Renzi, ieri sera, nel salotto di Bruno Vespa a Porta a Porta.
E l'auto ostensione c'è stata: abbronzatura pakistana, toni di sfida, consueta sicumera. Come Morgan verso Bugo a Sanremo, Renzi ha recitato lo scontro frontale con Conte. Ma sempre avvertendo più che minacciando in modo definitivo: in sostanza aprendo il negoziato, senza nessuna conseguenza immediata.
Primo esempio, quando Renzi ha un'altra volta evocato un'eventuale mozione di sfiducia verso il Guardasigilli. Alla domanda: «Se entro Pasqua la maggioranza non ritirerà la proposta Bonafede sulla giustizia, voi presenterete una mozione di sfiducia individuale?». Risposta: «Penso proprio che andrà così». Morale: palla lunga, trattative aperte fino al 12 aprile. E per chi non avesse capito, ecco la precisazione ulteriore: «Se Bonafede verrà sfiduciato, non credo che cadrà il governo». E più avanti un'incredibile calata di braghe sulle intercettazioni: «Votiamo ok per carità di patria». Altro che battaglia garantista senza cedimenti e senza compromessi.
Secondo esempio, quando ha ripetuto in forma di piagnisteo molte cose già sentite negli ultimi giorni: «Ci sono state polemiche inspiegabili. Noi siamo coerenti. È il Pd che è diventato giustizialista e ha cambiato idea. Non voglio morire grillino. Non è che adesso diventiamo la sesta stella e ci iscriviamo alla piattaforma Rousseau». E ancora: «Il Pd non ci tollera più, come ha detto un vicecapogruppo? Ma se vogliono i nostri voti, si prendano anche le nostre idee. Io dico: abbassiamo le polemiche». Persino quando ha affrontato il tema della presunta caccia ai responsabili da parte di Conte, Renzi è sembrato scegliere più il wrestling (grandi urla, ma senza far male a nessuno) che il pugilato vero: «Hanno provato a farci fuori, ma non ce l'hanno fatta. Hanno cercato di raccogliere senatori “responsabili". È loro diritto provarci, ma la prossima volta farebbero meglio a riuscirci». Anche la posizione netta sul reddito di cittadinanza («Va abolito», ha detto Renzi), è sembrata più una bandierina che una reale volontà.
Terzo esempio, quando ha smentito di voler staccare la spina: «Non ho mai detto: tolgo la fiducia a Conte».
Quarto e ultimo esempio, quando si è buttato su una proposta di riforma come strumento per blindare la legislatura, anche ipotizzando una confusa formula di governo istituzionale (Renzi ha citato il modello Maccanico), o in alternativa invitando Conte a siglare un nuovo patto del Nazareno, e nel frattempo preannunciando che Italia viva metterà in campo uno strumento ultraleggero, quasi inconsistente, una petizione online: «Faccio un appello a tutte le forze politiche, a Zingaretti, Di Maio, Crimi, Conte, Leu, Salvini, Berlusconi, Meloni: siccome così non si va avanti, fermiamoci un secondo e mettiamoci d'accordo per eleggere il sindaco d'Italia, che è l'unico modello che funziona. Una persona che sta lì e governa 5 anni, l'elezione diretta del presidente del Consiglio, anche se so che qualcuno vorrebbe l'elezione diretta del presidente della Repubblica». Per la cronaca, si tratta di una proposta di Mariotto Segni del 1993. E, messa come ha fatto Renzi, si tratta di tutta evidenza di un trappolone ai danni di Matteo Salvini, nel tentativo di spaccare il centrodestra.
La verità è che Renzi deve fare i conti con un'equazione dal numero piuttosto elevato di incognite: non può permettersi di far saltare la legislatura (i parlamentari che lo hanno seguito sarebbero i primi a impalarlo); sa che, nonostante un'esposizione televisiva enorme, i suoi sondaggi sono boccheggianti, tra il 3 e il 4 per cento (ma si tratta, secondo molti, di approssimazioni perfino generose); cerca disperatamente altra visibilità. Sulla giustizia, però, alla prima occasione vera (votare pro o contro Matteo Salvini), si è allineato ai giustizialisti; e alla seconda (prescrizione), risse di giornata a parte, ha buttato la palla in tribuna, rinviando a votazioni parlamentari molto lontane e incerte.
Anche perché è la partita delle nomine che gli interessa: vuole la sua fetta delle 400 poltrone che i giallorossi stanno per spartirsi, e tutta la sua agitazione serve a far crescere un potere negoziale che era basato sui suoi voti al Senato, ma che potrebbe essere presto ridimensionato dalla pur impresentabile pattuglia di «responsabili» che Palazzo Chigi sta cercando di pilotare.
Così, Renzi cerca la strada della riforma istituzionale per tante ragioni: un po' per tentare di nobilitare la sua traiettoria, un po' per giustificare la durata della legislatura, un po' per ammiccare (a questo serve il doppio turno) a una specie di «unione sacra» contro Salvini, e un po' (questo è ciò che gli importa di più) per far saltare lo sbarramento al 5% che gli altri hanno più o meno concordato sulla legge elettorale: un'asticella irraggiungibile oggi dalla lillipuziana Iv.
Anche perché - e qui sta il cuore della questione - Renzi ha evitato in tutte queste settimane l'unica cosa certa che un leader possa fare, se vuole davvero porre fine a un'esperienza di governo: ritirare la sua delegazione dall'esecutivo, facendo dimettere i suoi ministri. Ma a lui interessa tirare la corda, non certo spezzarla.
I giallorossi non si scompongono. Mentre a destra Salvini non abbocca
«Posso solo dire che Alfonso (Bonafede, ndr) non si tocca». Risponde a muso duro il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro, del M5s, commentando in Transatlantico le parole di Matteo Renzi, che ha confermato l'intenzione di presentare una mozione di sfiducia al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, se la riforma della prescrizione non sarà cancellata.
«Le riforme istituzionali», commenta Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, «non sono la prima emergenza del Paese. Credo che la legislatura debba andare avanti dedicando tutte le energie del governo e del Parlamento alla crescita e al lavoro. Auspico che Matteo Renzi concordi su priorità che sono indiscutibili e che quindi Italia viva contribuisca con le sue proposte a questa maggioranza in modo leale».
La sensazione è che la strategia sia sempre la stessa, quella suggerita nei giorni scorsi al premier, Giuseppe Conte, dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: tenere duro, non arretrare di un millimetro, nella convinzione che Renzi alzi la posta solo a scopo progandandistico.
«Distrazioni, litigi e sparate», dice ai telegiornali il reggente del M5s, Vito Crimi, «non ci interessano, il Paese non se lo può permettere. In questo momento abbiamo una sfida importante che è quella della crescita e in questi giorni stiamo lavorando proprio per il bene e per il futuro del Paese lavorando sulla ulteriore riduzione delle tasse, sullo sviluppo per le imprese, su una giustizia più veloce. È questo», sottolinea Crimi, «ciò di cui ha bisogno l'Italia». «Non ci sono alternative a questo governo», argomenta il ministro dell'Economia, il dem Roberto Gualtieri.
«Renzi a Porta a Porta», twitta il senatore di Leu Pietro Grasso, «propone le riforme costituzionali. Renzi. Le riforme costituzionali. Di nuovo». Al commento, Grasso aggiunge una gif di Fiorello attonito sul palco del Festival di Sanremo e la scritta «Chi si è sentito male?». «L'elezione diretta del premier? Facciamo un convegno», dice a Otto e mezzo, su La 7, il deputato di Leu Pier Luigi Bersani, «e discutiamone, ma non sono disposto a trucchetti».
Il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, del Pd, commenta le dichiarazioni di Renzi a Porta a Porta con un passaggio del racconto di Esopo La rana e lo scorpione, in cui lo scorpione uccide la rana che lo sta portando in salvo: «Mentre stavano per morire la rana chiese all'insano ospite il perché del suo folle gesto. Perché sono uno scorpione, rispose, è la mia natura!».
Non abbocca all'appello per le riforme Matteo Salvini: «Avessimo un governo che fa delle cose che non condivido», dice Salvini, «sarebbe un fatto. Ma avere un governo che non fa nulla perché litiga su tutto, è un dramma, quindi spero che si voti il prima possibile e non esistono governini, governicchi, accordi segreti, trucchetti di palazzo». Da Forza Italia invece resta aperto uno spiraglio: «Sul premierato e sul presidenzialismo», ha commentato Mariastella Gelmini, «Renzi viene sulle nostre posizioni...».
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Penultimatum di Matteo Renzi al ministro: «Entro Pasqua, svolta o sfiducia». Poi propone il governissimo per fregare anche il centrodestra.Il M5s: «Il Guardasigilli non si tocca». Il leader della Lega: «Niente trucchi, si voti».Lo speciale contiene due articoli.Più petardo che bomba. Più penultimatum che ultimatum. Da 48 ore, complice la crescita della tensione tra Matteo Renzi e Giuseppe Conte, e considerando il battage autopromozionale con cui il Bullo aveva lanciato e caricato di significato la sua ospitata televisiva, c'era grande attesa per la presenza di Renzi, ieri sera, nel salotto di Bruno Vespa a Porta a Porta. E l'auto ostensione c'è stata: abbronzatura pakistana, toni di sfida, consueta sicumera. Come Morgan verso Bugo a Sanremo, Renzi ha recitato lo scontro frontale con Conte. Ma sempre avvertendo più che minacciando in modo definitivo: in sostanza aprendo il negoziato, senza nessuna conseguenza immediata. Primo esempio, quando Renzi ha un'altra volta evocato un'eventuale mozione di sfiducia verso il Guardasigilli. Alla domanda: «Se entro Pasqua la maggioranza non ritirerà la proposta Bonafede sulla giustizia, voi presenterete una mozione di sfiducia individuale?». Risposta: «Penso proprio che andrà così». Morale: palla lunga, trattative aperte fino al 12 aprile. E per chi non avesse capito, ecco la precisazione ulteriore: «Se Bonafede verrà sfiduciato, non credo che cadrà il governo». E più avanti un'incredibile calata di braghe sulle intercettazioni: «Votiamo ok per carità di patria». Altro che battaglia garantista senza cedimenti e senza compromessi. Secondo esempio, quando ha ripetuto in forma di piagnisteo molte cose già sentite negli ultimi giorni: «Ci sono state polemiche inspiegabili. Noi siamo coerenti. È il Pd che è diventato giustizialista e ha cambiato idea. Non voglio morire grillino. Non è che adesso diventiamo la sesta stella e ci iscriviamo alla piattaforma Rousseau». E ancora: «Il Pd non ci tollera più, come ha detto un vicecapogruppo? Ma se vogliono i nostri voti, si prendano anche le nostre idee. Io dico: abbassiamo le polemiche». Persino quando ha affrontato il tema della presunta caccia ai responsabili da parte di Conte, Renzi è sembrato scegliere più il wrestling (grandi urla, ma senza far male a nessuno) che il pugilato vero: «Hanno provato a farci fuori, ma non ce l'hanno fatta. Hanno cercato di raccogliere senatori “responsabili". È loro diritto provarci, ma la prossima volta farebbero meglio a riuscirci». Anche la posizione netta sul reddito di cittadinanza («Va abolito», ha detto Renzi), è sembrata più una bandierina che una reale volontà. Terzo esempio, quando ha smentito di voler staccare la spina: «Non ho mai detto: tolgo la fiducia a Conte».Quarto e ultimo esempio, quando si è buttato su una proposta di riforma come strumento per blindare la legislatura, anche ipotizzando una confusa formula di governo istituzionale (Renzi ha citato il modello Maccanico), o in alternativa invitando Conte a siglare un nuovo patto del Nazareno, e nel frattempo preannunciando che Italia viva metterà in campo uno strumento ultraleggero, quasi inconsistente, una petizione online: «Faccio un appello a tutte le forze politiche, a Zingaretti, Di Maio, Crimi, Conte, Leu, Salvini, Berlusconi, Meloni: siccome così non si va avanti, fermiamoci un secondo e mettiamoci d'accordo per eleggere il sindaco d'Italia, che è l'unico modello che funziona. Una persona che sta lì e governa 5 anni, l'elezione diretta del presidente del Consiglio, anche se so che qualcuno vorrebbe l'elezione diretta del presidente della Repubblica». Per la cronaca, si tratta di una proposta di Mariotto Segni del 1993. E, messa come ha fatto Renzi, si tratta di tutta evidenza di un trappolone ai danni di Matteo Salvini, nel tentativo di spaccare il centrodestra. La verità è che Renzi deve fare i conti con un'equazione dal numero piuttosto elevato di incognite: non può permettersi di far saltare la legislatura (i parlamentari che lo hanno seguito sarebbero i primi a impalarlo); sa che, nonostante un'esposizione televisiva enorme, i suoi sondaggi sono boccheggianti, tra il 3 e il 4 per cento (ma si tratta, secondo molti, di approssimazioni perfino generose); cerca disperatamente altra visibilità. Sulla giustizia, però, alla prima occasione vera (votare pro o contro Matteo Salvini), si è allineato ai giustizialisti; e alla seconda (prescrizione), risse di giornata a parte, ha buttato la palla in tribuna, rinviando a votazioni parlamentari molto lontane e incerte. Anche perché è la partita delle nomine che gli interessa: vuole la sua fetta delle 400 poltrone che i giallorossi stanno per spartirsi, e tutta la sua agitazione serve a far crescere un potere negoziale che era basato sui suoi voti al Senato, ma che potrebbe essere presto ridimensionato dalla pur impresentabile pattuglia di «responsabili» che Palazzo Chigi sta cercando di pilotare. Così, Renzi cerca la strada della riforma istituzionale per tante ragioni: un po' per tentare di nobilitare la sua traiettoria, un po' per giustificare la durata della legislatura, un po' per ammiccare (a questo serve il doppio turno) a una specie di «unione sacra» contro Salvini, e un po' (questo è ciò che gli importa di più) per far saltare lo sbarramento al 5% che gli altri hanno più o meno concordato sulla legge elettorale: un'asticella irraggiungibile oggi dalla lillipuziana Iv. Anche perché - e qui sta il cuore della questione - Renzi ha evitato in tutte queste settimane l'unica cosa certa che un leader possa fare, se vuole davvero porre fine a un'esperienza di governo: ritirare la sua delegazione dall'esecutivo, facendo dimettere i suoi ministri. Ma a lui interessa tirare la corda, non certo spezzarla. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-bullo-se-la-prende-solo-con-bonafede-e-prova-a-rilanciarsi-con-le-larghe-intese-2645194124.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-giallorossi-non-si-scompongono-mentre-a-destra-salvini-non-abbocca" data-post-id="2645194124" data-published-at="1765875632" data-use-pagination="False"> I giallorossi non si scompongono. Mentre a destra Salvini non abbocca «Posso solo dire che Alfonso (Bonafede, ndr) non si tocca». Risponde a muso duro il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro, del M5s, commentando in Transatlantico le parole di Matteo Renzi, che ha confermato l'intenzione di presentare una mozione di sfiducia al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, se la riforma della prescrizione non sarà cancellata. «Le riforme istituzionali», commenta Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, «non sono la prima emergenza del Paese. Credo che la legislatura debba andare avanti dedicando tutte le energie del governo e del Parlamento alla crescita e al lavoro. Auspico che Matteo Renzi concordi su priorità che sono indiscutibili e che quindi Italia viva contribuisca con le sue proposte a questa maggioranza in modo leale». La sensazione è che la strategia sia sempre la stessa, quella suggerita nei giorni scorsi al premier, Giuseppe Conte, dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: tenere duro, non arretrare di un millimetro, nella convinzione che Renzi alzi la posta solo a scopo progandandistico. «Distrazioni, litigi e sparate», dice ai telegiornali il reggente del M5s, Vito Crimi, «non ci interessano, il Paese non se lo può permettere. In questo momento abbiamo una sfida importante che è quella della crescita e in questi giorni stiamo lavorando proprio per il bene e per il futuro del Paese lavorando sulla ulteriore riduzione delle tasse, sullo sviluppo per le imprese, su una giustizia più veloce. È questo», sottolinea Crimi, «ciò di cui ha bisogno l'Italia». «Non ci sono alternative a questo governo», argomenta il ministro dell'Economia, il dem Roberto Gualtieri. «Renzi a Porta a Porta», twitta il senatore di Leu Pietro Grasso, «propone le riforme costituzionali. Renzi. Le riforme costituzionali. Di nuovo». Al commento, Grasso aggiunge una gif di Fiorello attonito sul palco del Festival di Sanremo e la scritta «Chi si è sentito male?». «L'elezione diretta del premier? Facciamo un convegno», dice a Otto e mezzo, su La 7, il deputato di Leu Pier Luigi Bersani, «e discutiamone, ma non sono disposto a trucchetti». Il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, del Pd, commenta le dichiarazioni di Renzi a Porta a Porta con un passaggio del racconto di Esopo La rana e lo scorpione, in cui lo scorpione uccide la rana che lo sta portando in salvo: «Mentre stavano per morire la rana chiese all'insano ospite il perché del suo folle gesto. Perché sono uno scorpione, rispose, è la mia natura!». Non abbocca all'appello per le riforme Matteo Salvini: «Avessimo un governo che fa delle cose che non condivido», dice Salvini, «sarebbe un fatto. Ma avere un governo che non fa nulla perché litiga su tutto, è un dramma, quindi spero che si voti il prima possibile e non esistono governini, governicchi, accordi segreti, trucchetti di palazzo». Da Forza Italia invece resta aperto uno spiraglio: «Sul premierato e sul presidenzialismo», ha commentato Mariastella Gelmini, «Renzi viene sulle nostre posizioni...».
Ansa
La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
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Ansa
Questo, infatti, «prevede un principio fondamentale del nostro ordinamento, non derogabile neppure da fonti internazionali. Insieme all’articolo 2», ossia quello che sancisce l’inviolabilità dei diritti umani, «può fungere da controlimite anche verso il diritto Ue, che non avrebbe ingresso in Italia».
Prodigi dell’ideologia: all’improvviso, il corpaccione di direttive e regolamenti europei non è più sacro, inviolabile, sistematicamente anteposto alle leggi nazionali; se di mezzo ci sono i rimpatri veloci, oppure l’idea che Egitto, Bangladesh e Tunisia siano Stati nei quali è lecito rispedire i migranti, i giudici riscoprono nella nostra Costituzione un argine. E anziché disapplicare le norme italiane, vietano l’«ingresso» a quelle europee.
Peraltro, Minniti, già candidato al Csm per Area, corrente di centrosinistra, nel 2021, era stato uno dei primi, un paio d’anni fa, a sconfessare la lista governativa dei Paesi sicuri: bocciò la decisione di infilarci dentro proprio la Tunisia. Va però segnalato che, a dispetto dell’omonimia con il ministro piddino, noto per aver messo un freno alle missioni delle Ong nel Mediterraneo, quello della Costituzione «come limite alla regressione e spinta al rafforzamento della protezione dello straniero» - citiamo il titolo di un suo articolo del 2018 - era un vecchio pallino di Minniti. Ne scrisse già sette anni fa, appunto, su Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica. Tanto per fugare ogni eventuale dubbio sulla sua neutralità politica.
La posizione delle toghe, dunque, è questa: se le leggi italiane sono più severe delle norme europee in materia di immigrazione, allora bisogna snobbare le leggi nazionali, in nome del primato del diritto Ue, autenticamente umanitario; ma se l’Ue, su impulso dell’Eurocamera e del Consiglio, impone un giro di vite, allora il primato del diritto europeo va a farsi benedire, perché gli subentra il controlimite della Costituzione. Oltre alla possibilità, accordata dalla Corte di Lussemburgo ai magistrati e rivendicata da Minniti, di questionare gli elenchi dei Paesi sicuri.
È un meccanismo che si mette in moto ogni volta che Roma o Bruxelles cercano di moderare i flussi migratori e di accelerare le espulsioni. Ed è un peccato che, tra i «principi fondamentali del nostro ordinamento, non derogabili neppure da fonti internazionali», di cui parlava Minniti al Manifesto, insieme alle prerogative degli stranieri, non vengano considerate quelle degli italiani.
Nel novero dei «diritti inviolabili», sancito dall’articolo 2 della Carta, dovrebbero rientrare tutti quelli indicati dalla Dichiarazione Onu del 1948. Compresi il diritto alla vita e alla «sicurezza della propria persona». Che, a quanto risulta dalle statistiche del Viminale, sono messi a repentaglio dall’invasione degli immigrati, i quali vengono arrestati o denunciati per il 60% dei reati predatori, senza contare il 44% delle violenze sessuali, benché gli stranieri siano solo il 9% della popolazione.
E poi, la Costituzione non afferma che la sovranità appartiene al popolo? Nell’esercitarla, i rappresentanti eletti in Parlamento non possono certo perpetrare degli abusi sulle minoranze. Ma in mezzo ai tanti diritti intoccabili di bengalesi, egiziani e subsahariani, possibile non ci sia uno spazietto per il diritto del popolo a regolamentare il fenomeno dell’immigrazione? A rendere più efficace e rapido il sistema dei rimpatri?
Non vogliamo spingerci fino a sostenere un argomento estremo: siccome la Costituzione fu sospesa durante la pandemia a detrimento degli italiani, rinchiusi, multati se circolavano dopo le dieci di sera, esclusi da lavoro e stipendio se non si vaccinavano, allora essa può ben essere sospesa allo scopo di controllare i confini e tutelare l’ordine pubblico. No, il punto è un altro: siamo così sicuri che rimandare a casa sua un adulto sano, che non rischia di essere perseguitato né ucciso in guerra, senza aspettare i consueti «due anni» che secondo Minniti impiegano le Corti per pronunciarsi, significhi fare carne di porco della nostra nobile civiltà giuridica? Va benissimo preoccuparsi della «protezione dello straniero». Ma gli italiani chi li protegge?
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Ansa
L’ordinanza, firmata dal giudice Ludovico Morello, dispone «la cessazione del trattenimento» nel Cpr, smentendo la convalida già emessa dalla stessa Corte e arrivando a smontarla, senza che nel frattempo sia accaduto nulla che non fosse già noto. E infatti gli uffici del ministero dell’Interno starebbero valutando di impugnare la decisione.
Il giudice, nella premessa, ricorda che il ricorso è ammesso «qualora si verifichino circostanze o emergano nuove informazioni che possano mettere in discussione la legittimità del trattenimento». Poi interpreta: «Seppure non possa parlarsi di revoca giurisdizionale della convalida, è da ritenere consentita comunque una domanda di riesame del trattenimento dello straniero e che, mancando una apposita disciplina normativa al riguardo, esso possa farsi valere con lo strumento generico del procedimento camerale […] per ottenere un diverso esame dei presupposti del trattenimento alla luce di circostanze di fatto nuove o non considerate nella sede della convalida». Alla base della decisione ci sarebbe quindi l’assenza «di un’apposita disciplina normativa». Ed ecco trovato il varco. Il primo elemento indicato riguarda i procedimenti penali richiamati nel decreto di convalida: uno, nato su segnalazione della Digos, per le parole pronunciate durante una manifestazione, il 9 ottobre, che sembravano giustificare il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, il secondo per un blocco stradale risalente allo scorso maggio al quale l’imam avrebbe partecipato insieme a un gruppo pro Pal. Il giudice scrive che «gli atti relativi a tali procedimenti non risultano essere stati secretati» e che l’assenza di segreto era stata, «contrariamente a quanto si pensava in un primo momento», ignorata nella decisione precedente, che aveva valorizzato proprio quel presupposto «a supporto del giudizio di pericolosità». Il primo procedimento, secondo il giudice, sarebbe stato «immediatamente archiviato (in data 16 ottobre, ndr) da parte della stessa Procura», perché le dichiarazioni del trattenuto sarebbero «espressione di pensiero che non integra estremi di reato». Ma se l’archiviazione è del 16 ottobre e la convalida è del 28 novembre, il fatto non è sopravvenuto. È precedente. Eppure viene trattato come elemento nuovo.
Non solo. La Corte precisa, citando la Costituzione, che le dichiarazioni dell’imam sarebbero «pienamente lecite» e aggiunge che la «condivisibilità o meno e la loro censurabilità etica e morale» è un giudizio che «non compete in alcun modo» alla Corte e «non può incidere di per sé solo sul giudizio di pericolosità in uno Stato di diritto».
«Parliamo di una persona che ha definito l’attacco del 7 ottobre un atto di “resistenza”, negandone la violenza», ha commentato sui social il premier Giorgia Meloni, aggiungendo: «Dalle mie parti significa giustificare, se non istigare, il terrorismo. Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». La stessa dinamica si ripete sul blocco stradale del 17 maggio 2025. La Corte afferma che «dall’esame degli atti emerge una condotta del trattenuto non connotata da alcuna violenza». Anche qui non viene indicato alcun fatto nuovo. Cambia solo il giudizio. Anche i contatti con soggetti indagati o condannati per terrorismo vengono ridimensionati. Nella precedente decisione a quelle relazioni era stato attribuito un certo peso specifico: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo, trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Nel 2018, in un’indagine su Elmahdi Halili (condannato nel 2019, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2022, per aver partecipato all’organizzazione terroristica dello Stato islamico), «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». Rapporti che ora diventano «isolati, decisamente datati» e «ampiamente spiegati e giustificati dal trattenuto nel corso della convalida». Spiegazioni che erano già state rese prima del 28 novembre, ma che allora non avevano impedito la convalida.
Nel decreto di Piantedosi, l’imam veniva indicato come un uomo «radicalizzato», «portatore di ideologia fondamentalista e antisemita». Ma, soprattutto, come vicino alla Fratellanza musulmana, movimento politico-religioso sunnita nato in Egitto nel 1928, che punta a costruire uno Stato ispirato alla legge islamica. Unico passaggio, quello sulla Fratellanza musulmana, al quale il giudice non fa cenno.
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