
Matteo Renzi aveva piazzato il reggente per controllare il partito. Ora gli è sfuggito di mano e lo ostacola sul congresso. E gli altri...Bollettino di guerra sull'ultima sfida Nazarena. Nicola Zingaretti parla e auspica un partito che scelga «un modello Lazio aperto alla società civile e agli amministratori». Carlo Calenda attacca, e chiede «una costituente per aprire il partito a un fronte repubblicano e ad altri mondi fuori dalla tradizione del Pd». Matteo Renzi per ora tace, ma dice ai suoi: «Occorre prendere tempo».Il nodo alla fine è quello rimasto irrisolto il 5 marzo, all'indomani della sconfitta elettorale: congresso sì, no, forse. E pure Romano Prodi arriva a spiegare che occorre «andare oltre al Pd», come se non l'avessero già fatto gli elettori.Promemoria per provare a capire il dilemma del Pd, nel tempo del grande disordine. Regola numero 1: tutti sono d'accordo che serva al più presto questo benedetto congresso, ma anche sul fatto che alla fine il congresso non si possa fare subito, perché c'è rischio di farsi tutti male. Regola numero 2: quando il congresso lo vuoi tu, tu acceleri e io rallento, perché vuol dire che a me in quel momento il congresso non conviene; quando il congresso lo vogliono gli altri loro accelerano e io rallento, perché vuol dire che a me, a quel punto, celebrarlo non conviene più. I veti si annullano a vicenda, e il partito finisce per non decidere mai. Regola numero 3: ogni componente interna ha la forza che serve per bloccare l'altra, ma non quella che serve per imporre una nuova leadership. Tutto chiaro? Ovviamente no. Occorre il riassunto delle puntate precedenti, per capire cosa stia accadendo. In campo ci sono almeno quattro potenziali leadership: la prima, ovviamente è quella di Renzi, che (a fatica) controlla ancora la maggioranza relativa, ma che (per ora) non può tornare direttamente a gestire la partita.La seconda è quella di Zingaretti, l'unico leader che abbia vinto nelle ultime elezioni e che possa unificare maggioranza e opposizione, ma anche quello che ha il tallone d'Achille più grande per via del potenziale doppio incarico. Può ribaltare lo svantaggio e cucire un filo tra ex renziani ed ex bersaniani, ma non può mettersi a fare campagna elettorale tra gli iscritti finché non è sicuro che la partita sia convocata con una data certa.Martina è di certo più debole dei primi due contendenti, ma è piazzato meglio, perché in questo momento si trova già sulla poltrona più alto del Nazareno. Non riesce però a imporre i suoi tempi, rischia di essere logorato dall'attesa.Calenda è l'outsider che ha più chance di vincere una guerra di movimento, e infatti è partito in quarta: non ha correnti organizzate, non ha truppe o tessere, non viene da una storia di partito, ma è quello che ha la maggiore visibilità mediatica, più contenuti originali, comunque la si pensi. E soprattutto tanta grinta. Anche lui - però - ha bisogno di tempo, per radicarsi in una casa che è diventato sua solo il 5 marzo, il giorno in cui ha preso la tessera.Ieri - uscendo allo scoperto nel modo in cui può - Zingaretti ha detto: «Dopo le allarmanti difficoltà che abbiamo attraversato e confermate da un grande numero di ballottaggi persi nelle città italiane non bastano semplici aggiustamenti. Tantomeno povere analisi di circostanza. Un ciclo storico si è chiuso». Il presidente del Lazio ha proclamato la necessità di operare una discontinuità netta con il passato: «Vanno ridefiniti un pensiero strategico, la nostra collocazione politica, le forme del partito e il suo rapporto con gli umori più profondi della società italiana, l'organizzazione della partecipazione e della rappresentanza nella democrazia». Calenda gli ha fatto eco da Radio Capital: «Il Pd», ha detto, «deve fare un congresso, eleggere una segreteria costituente che abbia l'obiettivo di rifondare quello che io chiamo fronte repubblicano e chiedere ad altri mondi, dalla scuola al sindacato, di aiutare a costruire il nuovo centrosinistra».Ecco perché il congresso che prima è stato annunciato, poi anticipato, quindi ritardato, infine sospeso, adesso è di nuovo oggetto di battaglia. Non sul tema dei contenuti, che verranno poi, ma sul nodo decisivo dei tempi. Ricapitolando: dopo il voto, Renzi in un celebre discorso chiese il congresso e le primarie immediate. Si immaginava di correre lui (o di vincere con un suo candidato), e di ottenere una vittoria-lampo. Non ci riuscì, capì di non essere spendibile in questa fase, favorì la nomina di un reggente, Maurizio Martina, convinto che gli sarebbe rimasto fedele senza fare ombra. Un mese dopo, il clima era completamente cambiato: Renzi adesso diffida di Martina, che ormai considera un traditore (al pari di Gentiloni e Calenda). Così la sua strategia è cambiata. Nell'ultima assemblea nazionale il reggente voleva un congresso rapido entro un anno, per poter diventare segretario capitalizzando la sua rendita, Renzi, invece, aveva la posizione opposta per impedire che capitalizzasse la sua rendita e gestisse la partita delle liste quasi si pensava ad un voto anticipato. Ecco perché Martina non ha ottenuto la nomina in Assemblea nazionale, il congresso non è stato ancora fissato e la palla è tornata al centro. Fra chi rallenta, però, il più determinato è Renzi. È convinto che il governo gialloblù naufragherà presto, lo ripete ai suoi, crede nella «strategia popcorn».Nelle settimane scorse aveva vagheggiato di formare un partito proprio, ma i sondaggi sono stati per lui una doccia scozzese. «In nessun caso», mi dice un sondaggista che ha lavorato per lui, «sfonderebbe il 5%. Il partito macroniano», aggiunge, «lo ha fatto già, era quello della Leopolda».Così rimane solo il Pd: Renzi spera di rigenerare la propria immagine in questo periodo di purgatorio, fra conferenze internazionali, programmi televisivi, attività da senatore semplice. «In fondo è convinto», ripete uno dei suoi collaboratori «di aver trovato ancora una volta il candidato più forte per questa sfida». Chi? Sorriso: «Sé stesso».
Mattia Furlani (Ansa)
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