2020-05-10
Il bosco insegna a cibarsi con parsimonia
L'eremita che vive tra le piante impara a nutrirsi di quel che la natura gli offre, senza sprecare nulla, approfittando di ogni fungo come di un immenso regalo. Fino al momento in cui è necessario affrontare la sfida più dura per procurarsi la carne.Parsimonia è la prima regola del cibo. L'eremita di ogni tempo deve fare i conti, quotidianamente, con un problema assillante: come alimentarsi. Esiste un primo periodo in cui il provetto eremita tenta di nutrirsi soltanto con quel che il bosco offre. Bacche, funghi, castagne. Poi passa al pesce, se vi sono stagni, laghetti o torrenti abbastanza popolati. Ma dopo qualche mese il conto diventa cruciale e la scelta ricade sul mondo dei sospesi: uccelli di ogni taglia e colore, ed è così che il sangue rientra nella catena alimentare, antefatto portante affinché vi sia, in seguito, il salto a qualcosa di maggiore. Animali più grandi, più evoluti, per così dire: lepri, conigli selvatici, fagiani, scoiattoli, martore, marmotte, cinghiali e addirittura cerbiatti. Non che manchino i vegetariani ostinati, i quali avvitandosi sulla spina dorsale di una considerazione del tutto morale, meglio etica, perpetuano nel nutrirsi esclusivamente di quel che la natura - vegetale - sa offrire. Le persone più industriose strappano un pezzo ai prati o al bosco e iniziano a coltivare ortaggi, sempre che abbiano voglia di scendere e comunicare coi villaggi rimasti, esclusi dalla Repubblica di Vetro. Scambiano coi contadini qualche animale e un po' di legname, se è stagione i funghi, per una manciata di piantine d'insalata, o di cavoli e cavolfiori, pezzi di patata, i semi di zucca e zucchine, fagioli, piselli, cipolle, pomodori, melanzane e rapanelli. Ora, finché si vive alla giornata quel che si porta a casa, che casa sia una capanna di rami, una grotta, una vecchia chiesetta riattata, o una dimenticata càa del föch, le fumerie o essicatoi dove si disponevano i nuovi raccolti di castagne per farle lentamente «affumigare», il consumo è immediato e zero problemi.Quand'era alto meno della maniglia della porta della cucina, il nonno di Immenso raccontava che nella società di un tempo le classi sociali si vedevano già da quel che imbandiva la tavola. Bastava questa istantanea: piatti e pietanze pronte sulla tavola. La gente di montagna viveva quasi tutto l'anno di quel che i boschi di castagne le donavano. Anzitutto il frutto, ovviamente, che si gustava tostato appena raccolto, o bollito nell'acqua, e poi affumicato ed essiccato, anche se raramente questi frutti riuscivano ad arrivare alla primavera successiva. Non solo gli umani avevano fame, in quegli stretti anfratti di mondo, proprio come le bestie grandi e soprattutto le bestie piccole, e fra queste le bestie piccole piccole, due volte piccole, come quelle camole che da un certo punto in poi iniziano a infestare i sacchi che contengono le provviste del raccolto autunnale. I più avveduti, prima di questa evenienza, le facevano macinare per ottenerne farina. Eppoi i funghi. Le radici del castagno hanno un modo tutto loro di prendere possesso della terra, alimentano la crescita dei chiodini, i ciudì o famée, almeno tre diversi tipi di porcino, o «purcì«, fra i quali certi porcini scuri, la cappella nera, brunita, di cui i montanari non possono che andar ghiotti. Quindi russole, ovuli, mazze di tamburo. Dei funghi va fatta sicura parsimonia, poiché non li puoi mangiare tutti i giorni per mesi, il fegato non ne gioisce. Ed ecco perché spesso chi li raccoglie scende fra la gente a venderli, a scambiarli con altri prodotti, come il salame, il formaggio, il vino o le uova. Noi non si studiava sui libri, gli diceva il nonno, tutto quel di cui avevamo bisogno passava dal dialetto e dai modi di dire. Le filastrocche, i proverbi. Ad esempio si diceva: «Quant che i risc' ai stà sü dric', còl, castégn nòs paghe òl fic'», ovvero: quando i ricci di castagna sono poco e non appesantiscono i rami delle piante allora il raccolto scarso non pagherà nemmeno il lavoro. Tradotto: pessima annata. Conseguenza: guai grossi. I proprietari di questi castagni dovevano partire per andare a fare i tagliaboschi in altre regioni. E dovevano stare lontani anche cinque o sei mesi, ficcati la notte dentro grotte di terra, a lavorare e a russare accanto a persone che nemmeno capivano, e non importava se a casa li attendessero quattro figli e la moglie, o soltanto una madre anziana e stanca. C'era solo bisogno disperato di guadagnare quattro soldi grazie ad una lavoro faticoso che poteva ammazzarti alla minima distrazione. Alfine il valore del legno: il castagno è facile da tagliare, non così pesante da trasportare, la vendita è assicurata perché utile in qualità di legno d'opera, bello da vedere, con quel suo colore particolare, ottimo come palo di vigna, come porta o finestra, senza dimenticare l'uso domestico, propellente economico di stufe e camini. Il che un tempo voleva dire tutte le abitazioni, dei poveri quanto dei ricchi.Ma torniamo al cibo. Finché ci si riesce ci sono i pesci, che fra tutte le creature dei boschi sono le più stupide e le meno vicine a noi. Poi tocca agli uccellini, che però già ti trafiggono, con quegli occhietti piccoli, le loro piume indifese, la loro vigile allegria che tu hai senti, sgranocchiando quei quattro grammi di carne. Si mangia pochino, se uccidi un passero, poco di più con le gazze, le tortore e le ghiandaie, le prime però hanno un pessimo sapore, carne filamentosa. Una volta scalata la graduatoria e arrivato ai mammiferi più evoluti, la parte più difficile è l'uccisione dell'animale.Ora, noi siamo umani e ci crediamo migliori degli animali, ma quando si tratta di fame, di sopravvivenza, ritorniamo più bassi e meno intelligenti. O meglio, la nostra intelligenza si adatta e ci riporta indietro quel che basta per ritrovare la fermezza e la scaltrezza di costruire trappole e ingegnarci. Anime che mangiano altre anime, quantomeno quel che hanno intorno, alle anime. Arriva il giorno in cui la fame è troppa, è bestiale. Così si inizia a inseguire i leprotti. I più audaci, se collaborano con altri eremiti, puntano ai cerbiatti o ai cinghiali. Per ragioni credo culturali i cinghiali adulti non fanno tenerezza, chi li uccide quasi ne prova piacere, come se il Dio degli animali selvatici li avesse messi al mondo apposta. I tassi invece fanno troppa simpatia, e poi sono astuti, capiscono al volo quando sei mosso da pessime intenzioni. Per catturare i leprotti la strategia migliore è un fucile leggero, Zen ha una carabina che ogni tanto presta a Immenso, in cambio di un favore e di almeno due cosce della preda catturata. Sennò ci sono le tagliole, ma non funzionano spesso, diciamo una volta su quattro, una volta su tre nei casi più fortunati. Al nostro eremita va bene, comunque, anche perché su questa montagna tutti hanno un grosso problema: la conservazione. Il cibo lo puoi conservare almeno in quattro modi: il freddo, ma qui non esiste energia elettrica; il sale, e da queste parte i pochi che ne hanno se lo sono guadagnato giù a valle, con un baratto «salatissimo». Il fumo, così come si faceva con le castagne, ed è la strategia che seguono i più. Oppure, sotterrando, e qui non tutti sono d'accordo: Immenso ci ha provato ma quando è tornato a dissotterrare l'aspetto e la puzza erano talmente repellenti che non se l'è sentita. Il processo di affumicazione è lungo, dura diversi giorni e ci sono stagioni in cui è proibitivo. L'autunno è la stagione migliore, non male nemmeno l'estate, l'inverno è più difficile ma almeno c'è la legna secca. Diciamo che bisogna anche valutare l'opportunità di far fumo per giorni e giorni, attirando l'attenzione sulla propria casa, e il tutto per avere due manciate di carne di lepre. A Immenso non è ancora accaduto nulla ma se ne sentono di storie amare, predoni che saccheggiano abitazioni e uccidono. Peggio ancora: ti rubano quel che possono e ti rompono un braccio, una gamba, ti conciano male. Ecco, la più grande disdetta di un eremita: l'ammalarsi, questo sì che può diventare un problema terminale.
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