2019-05-09
Giorgio Almirante (Ansa). Nel riquadro la copertina del libro di Filippo Giardini «Sigonella vista da destra»
Il saggio di Filippo Giardini studia l’episodio di Sigonella dalla prospettiva di Almirante.
C’è un equivoco di fondo sulla storia recente della politica italiana a proposito della questione palestinese e di Israele. L’equivoco è che il Msi, il Movimento sociale italiano, sia rimasto in freezer fino ai primi anni Novanta. In realtà negli anni Ottanta il partito di Giorgio Almirante preferì ignorare le aperture di Craxi, presidente del consiglio, e rimanere nel proprio «splendido isolamento». Il banco di prova in particolare - ed ecco cosa c’entra la questione palestinese - fu la vicenda di Sigonella, la prima crisi di governo scatenata da un tema di politica estera, e i cui riflessi arrivano fino ad oggi.
Ora un saggio, in libreria in questi giorni, di un giovane storico (25 anni), Filippo Giardini, Sigonella vista da destra, sottotitolo Atlantismo e dialogo interpartitico nel neofascismo italiano dal dopoguerra agli anni Ottanta (Settimo Sigillo, euro 33), ricostruisce fatti e antefatti, dalla nascita del Msi agli anni Ottanta, con vari retroscena e diverse sorprese.
Il 10 ottobre 1985 il presidente del consiglio Bettino Craxi, d’accordo con il ministero degli Esteri Giulio Andreotti e tra le proteste del ministro della Difesa Giovanni Spadolini, non esita a schierare con il mitra spianato 50 carabinieri contro 50 marines attorno al boeing con a bordo i quattro palestinesi sequestratori della nave da crociera Achille Lauro (che vengono consegnati ai magistrati italiani), fatto atterrare dai caccia americani nella base - Nato non Usa - di Sigonella in Sicilia. Il 12 il boeing egiziano che trasporta Abu Abbas, inviato di Arafat per risolvere il sequestro della Lauro ma anche leader del Fronte di liberazione della Palestina ovvero l’organizzazione che ha effettuato l’attacco, con le stesse modalità viene fatto atterrare a Ciampino, ma le autorità italiane rifiutano di consegnarlo agli americani.
Per farla breve il Msi-Dn nelle esternazioni ufficiali è il partito più filosionista, dopo il Pri di Spadolini, più filoatlantico o meglio più filoamericano del parlamento italiano. Anche se questo provoca «la spaccatura tra la maggioranza fedele al segretario», annota Filippo Giardini. Le valutazioni attorno al caso Sigonella, secondo l’autore, sono «il momento in cui si incrinò l’assolutismo varato da Almirante tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta». Viene visto come un cedimento agli oppositori interni l’ordine del giorno che il 27 ottobre 1985 il Comitato centrale del partito approva «a larga maggioranza», proposto dalla «voce fuori dal coro» Giuseppe «Beppe» Niccolai, in cui si ribadisce senza mezzi termini «l’insopprimibile diritto a una patria, sia per gli israeliani che per i palestinesi».
Oltre le «eresie» che hanno attraversato la frastagliata area negli anni Sessanta e Settanta, come l’Organizzazione di lotta di popolo (che nella sigla addirittura richiama l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), Giovane Europa e diverse altre dichiaratamente antisioniste e filopalestinesi, ora il tema impatta su base e dirigenti. Nella vicenda dell’Achille Lauro la posizione ufficiale dei vertici del Msi è quella del partito della fermezza.
Per Pino Romualdi, storico leader missino, il vero errore del presidente Usa Ronald Reagan «non è stato quello di violare lo spazio aereo italiano ma di non averlo fatto con maggiore decisione». Mario Tedeschi dalle colonne del Borghese accusa Craxi di farsela «con un personaggio come Arafat: mentitore abituale, capo notorio di bande di terroristi e assassini». Giorgio Almirante al Comitato centrale del 27 ottobre ufficializza queste posizioni, compiacendosi di aver «smitizzato il presunto neonazionalismo di Craxi» e conferma la parità vigente tra alleati, grazie anche alla battaglia condotta dai neofascisti ai tempi dell’adesione al Patto atlantico. Eppure nell’ordine del giorno approvato «a larga maggioranza» Beppe Niccolai, in nome dei principi fondativi del Msi-Dn, è riuscito a infilare, oltre al diritto alla Patria anche per i palestinesi e alla «più dura condanna dei terroristi arabi», l’affermazione per cui il partito «rivendica la piena dignità della nostra presenza paritaria nell’Alleanza atlantica, come nazione indipendente non a sovranità limitata». «La sovranità limitata è in realtà» spiegherà Niccolai, «la condizione del nostro Paese».
Tutti temi che sono nel Dna del partito e dell’area di riferimento. Ora vengono sviscerati da Filippo Giardini, con uno sguardo fresco che non guasta mai. Di certo, chi pensasse che in questi mesi di fronte alla tragedia di Gaza e dei territori occupati il governo Meloni abbia navigato a vista e in modo improvvisato, si sbaglia di grosso. La sua politica segue il solco segnato dalla destra in Italia fin dal dopoguerra.
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La «Bild» svela l’ultimo scandalo di Bruxelles: i cittadini subiscono regole rigidissime e politiche demenziali, i funzionari godono di una scala mobile che dal 2022 ha portato incrementi del 22,8%. Compresi i pensionati.
Non è vero che la Ue non serve a niente. E neppure che di questo passo, se non cambia qualche cosa, fila dritta verso il crac, come peraltro ha spiegato perfino Mario Draghi prima di Donald Trump. L’Unione europea serve a fare ricchi i suoi funzionari, i quali non corrono certo il pericolo di andare in bancarotta. Anzi, secondo quanto rivelato dal quotidiano tedesco Bild (di proprietà del gruppo Springer, è il giornale più venduto e letto d’Europa) anche questo Natale i burocrati di Bruxelles hanno motivo per fregarsi le mani, rallegrandosi per aver ottenuto l’ottavo aumento di stipendio in tre anni. Ne beneficeranno tutti i 67.000 dipendenti dell’Unione, sia quelli in servizio che quelli in pensione, i quali si vedranno riconosciuti retroattivamente, con calcolo dal 1° luglio, un aumento di stipendio del 3%. In totale, dal 2022 a oggi, fa il 22,8% in più, per un costo aggiuntivo del solo ultimo incremento di 365 milioni di euro all’anno.
Mica male, considerando che la maggior parte dei lavoratori italiani deve invece fare i conti con una perdita del potere d’acquisto del proprio stipendio che non è affatto compensata da incrementi salariali. Nel 2024, i dipendenti della Ue avrebbero dovuto ricevere aumenti dell’8,5%, ma il «regalo» era sembrato fin troppo generoso, al punto che anche la Commissione guidata da Ursula von der Leyen aveva invitato a moderare le pretese, contenendo la crescita degli emolumenti nel 7,3%. Ma poi, ad aprile scorso, ecco il conguaglio, con un riconoscimento supplementare per tutto il 2024 di un 1,2%.
La causa di questi continui aggiornamenti di stipendio è la temutissima inflazione, che da noi, e più in generale in tutta Europa, si vuole tenere bassa a colpi di aumento dei tassi d’interesse. Ma a Bruxelles è rincorsa da una specie di scala mobile, che consente di tenere il passo con il carovita. L’ufficio statistico europeo, noto come Eurostat, infatti, tiene d’occhio i rincari tra Bruxelles e il Lussemburgo e poi aggiorna gli stipendi, affinché il potere d’acquisto degli euroburocrati non subisca alcun calo. Per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, anche appunto raffreddando i consumi con una decrescita infelice degli stipendi, ma se si tratta dei funzionari della Ue il discorso non vale: per loro scatta il salvagente dell’adeguamento salariale, affinché non debbano tirare troppo la cinghia come fanno tutti i comuni mortali che, risiedendo in Europa, sono tenuti a fare i conti con le politiche demenziali dell’Unione in materia di transizione ambientale, riarmo e burocrazia.
Vi state chiedendo che cosa guadagni un funzionario della Ue? La Bild ha provveduto a calcolare quanto incassino i dipendenti in servizio a palazzo Berlaymont e negli uffici connessi. Al gradino più basso, escluse le indennità esentasse, un commesso si metterà in tasca 3.750 euro, 110 dei quali sono frutto dell’ultimo aumento. Per chi invece ricopre funzioni più elevate, gli emolumenti sono ancor più generosi e si può arrivare anche a 25.986 euro, 760 dei quali si aggiungeranno con lo stipendio di dicembre ma moltiplicati per sei per consentire al burocrate di percepire pure gli arretrati accumulati da luglio in poi.
A questo punto immagino che molti di voi si stiano chiedendo quanto diamo a Ursula von der Leyen, se chi le sta intorno nell’olimpo di Bruxelles sfiora i 26.000 euro al mese. La risposta l’ha data sempre la Bild, calcolando che, grazie all’ultimo aumento di 1.000 euro al mese, la presidente della Ue è giunta a sfiorare i 36.000 euro: 35.800 per l’esattezza. E i commissari? Anche con loro l’Unione è generosa: 850 euro di «aggiornamento» per un totale 29.250 euro.
Riepilogando, l’Europa dei parametri di Maastricht, che fissa paletti inviolabili circa la spesa pubblica, funziona solo per i sudditi della Ue, mentre per i signori di Bruxelles non conta e questo fa capire che, se non si inverte la rotta, la barca dell’Unione prima o poi finirà per schiantarsi sugli scogli della realtà.
Dimenticavo: come dicevo, gli aumenti di cui sopra andranno a beneficio anche di 30.000 pensionati. Tanto per farvi capire su che razza di bomba siamo seduti, oggi il costo dei funzionari Ue a riposo è pari a 2,4 miliardi l’anno, ma nel 2045 questi signori ci costeranno 3,2 miliardi. Sempre che Eurostat non adegui al rialzo gli stipendi del 22% come ha fatto nell’ultimo triennio.
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Ansa
Gli alti prelati bocciano la stretta Ue sui clandestini. «Avvenire» ribadisce subito la necessità delle porte aperte per assicurare manodopera. E la fondazione Migrantes contesta il modello Albania proprio adesso che viene preso a esempio da Bruxelles.
E anche la maschera dell’europeismo cade miseramente. Per anni ci è stato ripetuto incessantemente che non esiste vita fuori dall’Ue, dai tempi di papa Francesco i media e i commentatori cattolici non hanno perso occasione per maledire sovranisti, nazionalisti e chiunque rivendicasse maggiore autonomia nazionale, il tutto in nome del supremo valore dell’unità europea. Ma non appena a Bruxelles si prende mezza decisione in lieve contrasto con il pensiero prevalente, ecco che il castello retorico crolla miseramente.
Il fatto è che i ministri europei hanno dato il via a un percorso che, una volta tanto, potrebbe portare qualche risultato positivo. Il commissario europeo alle Migrazioni, l’austriaco Magnus Brunner (Ppe) ha parlato di una «svolta della nostra politica migratoria e di asilo», e ha qualche ragione. Le regole europee sugli ingressi sono in via di cambiamento, si annuncia una stretta, si apre alla possibilità di creare hub per migranti nei Paesi terzi previa stipula di accordi ad hoc, si pensa di potenziare e velocizzare i rimpatri, verranno previste misure speciali per vietare l’ingresso ai migranti considerati un rischio per la sicurezza. È persino stato stilato un elenco di Paesi sicuri (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Serbia, Turchia, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia), in modo da accelerare le procedure per l’esame delle domande di accoglienza degli stranieri provenienti da questi luoghi, possibilmente aumentando il numero di rifiuti.
Certo, sono tutti primi passi, ma intanto per la prima volta si disegna uno scenario che non preveda soltanto accoglienza indiscriminata. Per una volta, l’Europa ci chiede di stringere le maglie, non di allentarle. Ed ecco, infatti, pronti via, la reazione indignata di quanti fino a ieri facevano professione di europeismo e ora si scoprono scettici rispetto alla linea di Bruxelles. Avvenire, in prima pagina, pubblica un editoriale di Maurizio Ambrosini per spiegare che la vera forza dell’Europa è l’inclusione. Che dice lo studioso? Che «l’Europa ha un serio problema: manca di manodopera». Secondo Ambrosini, «milioni di cittadini europei e statunitensi appaiono in maggioranza contrari all’immigrazione e tendono a votare per i partiti che promettono di respingerla, ma affidano anziani a bambini a lavoratrici straniere, si fanno portare i pasti a casa dai rider, ricorrono a muratori e decoratori immigrati per le ristrutturazioni, mangiano frutta e bevono vino prodotto con il lavoro di quelli che dovrebbero tornare o starsene a casa loro. Si potrebbe continuare a lungo, provando a immaginare come potrebbe funzionare la vita quotidiana senza questi apporti: in Italia, 2,5 milioni di occupati regolari, oltre il 10% del totale». Davvero una strepitosa argomentazione: l’Europa deve accogliere perché ha bisogno di braccia. Molto cristiana, come idea.
Ad Avvenire sembrano un po’ confusi. A tratti parlano come Ilaria Salis (che ha annunciato una mobilitazione del suo gruppo europeo contro le nuove norme migratorie), in altri frangenti, invece, si esprimono come i colossi confindustriali bisognosi di forza lavoro a basso prezzo. Ma poco cambia, in fondo, il punto è che bisogna tifare accoglienza, soprattutto ora che l’Ue sembra mostrare tiepidi segni di cambiamento.
A dare manforte su questa linea compensa la fondazione Migrantes, altra emanazione vescovile. Il nuovo rapporto sui rifugiati, presentato ieri, prende di petto il cosiddetto «modello Albania». Un attacco che capita a fagiolo, visto che proprio ora si inizia a parlare di hub nei Paesi terzi. Il modello albanese, dice Migrantes «si configura come il paradigma delle nuove strategie di controllo migratorio esternalizzato adottate in Europa».
L’agenzia Agi ben sintetizza i contenuti del rapporto. Secondo Migrantes, il modello albanese «prevede la detenzione amministrativa e la gestione dei flussi migratori al di fuori dei confini nazionali italiani. Fin dalle sue fasi iniziali, l’opacità sistemica, alimentata dall’esclusione di media e società civile, hanno reso il trasferimento in Albania (anche se di pochissime persone) uno strumento di governance del fenomeno migratorio. Nonostante si dimostri inefficace in termini di rimpatri effettivi, il modello venne percepito come politicamente vincente e disciplinarmente efficace ed evidenzia il chiaro orientamento della politica migratoria europea verso la gestione extraterritoriale dei confini. Il progetto diventa un cruciale banco di prova per la tenuta dei principi democratici e giuridici dell’Unione europea».
Messaggio chiarissimo: i prelati dicono no alle strette, no alle esternalizzazioni, no alla difesa dei confini. Sono europeisti, come no. Ma a patto che l’Ue resti progressista. Se dice no ai migranti, si scomunica pure Bruxelles.
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Ursula von Der Leyen (Ansa)
Alcuni Stati membri hanno lanciato l’allarme: «La spesa diventa sempre più insostenibile». Per i funzionari di Bruxelles il «salario minimo» è di 3.754 euro.
L’austerità è una zavorra da imporre solo agli altri. Come segnala la Bild, quotidiano tedesco, l’Unione europea ha applicato un aumento degli stipendi dei propri 67.400 funzionari. È l’ottavo ritocco al rialzo dall’inizio del 2022, con un incremento complessivo del 22,8%. «Quest’ultimo aumento è eccessivo e insensibile. Gli aumenti salariali automatici devono essere aboliti» ha dichiarato Michael Jäger, presidente della Federazione europea dei contribuenti.
Periodicamente, l’ufficio statistico europeo Eurostat effettua una serie di calcoli per adattare gli stipendi degli eurocrati a variabili legate all’inflazione, al potere d’acquisto, al costo della vita a Bruxelles e in Lussemburgo. È un automatismo che puntualmente ingrassa le tasche dei diretti interessati e che, di converso, scompare tra le colonne della grande stampa e i dibattiti televisivi.
Il penultimo aumento salariale, il settimo, risale solo alla fine del marzo scorso e figura come pagamento supplementare per il 2024. Stando agli automatismi, infatti, lo scorso anno, gli stipendi avrebbero dovuto aumentare dell’8,5%. All’epoca, però, perfino la Commissione europea lo ha ritenuto eccessivo, invocando immediatamente un’erogazione del 7,3% e il rimanente 1,2% nell’aprile di quest’anno.
L’aumento salariale degli ultimi giorni, l’ottavo, è applicato retroattivamente al 1° luglio, si aggiunge ai precedenti e graverà per 365 milioni di euro all’anno. Anche questa volta potranno beneficiarne tutti i livelli della baracca europea: i componenti della Commissione, il presidente Ursula von der Leyen, i funzionari di ogni specie e perfino gli oltre 30.000 eurocrati in pensione.
Per l’esattezza, Von der Leyen riceverà circa 1.000 euro in più ogni mese, toccando quota 35.800 euro mensili e oltre 400.000 all’anno. Scendendo nella gerarchia, un commissario percepirà 850 euro in più, arrivando a 29.250, mentre un quadro intermedio si vedrà erogare circa 760 euro in più, toccando i 25.986 euro. Infine, alla base della gerarchia, lo stipendio più basso vedrà 110 euro in più in busta paga, fino a raggiungere i 3.754 euro mensili. Questi numeri figurano in ribasso poiché non comprendono le indennità per stranieri, gli assegni per il nucleo familiare né le altre indennità esenti da imposte. Perfino i contributi per l’assicurazione sanitaria risultano molto bassi (circa il 2%).
Possono sorridere di fronte all’ottavo aumento salariale anche i 30.500 funzionari europei in pensione. Questi ultimi, secondo un documento interno della Commissione, aumenteranno a 42.500 entro il 2073 registrando un aumento dei costi dagli attuali 2,4 miliardi ai 3,231 miliardi nel 2045. Negli anni successivi, si stima una diminuzione dato che i funzionari più giovani accumuleranno meno diritti pensionistici per ogni anno di servizio. D’altra parte, rimarrà garantita la pensione massima al 70% dell’ultimo stipendio.
Nel frattempo, i Paesi membri dell’Unione lanciano l’allarme stilando un documento interno che afferma «una profonda preoccupazione per l’andamento della spesa pensionistica». Di qui la richiesta che la spesa sia «limitata e che venga trovato un equilibrio a lungo termine tra l’adeguatezza delle pensioni e la sostenibilità delle finanze pubbliche».
In tal senso, parte del dibattito pubblico tedesco è insorto. Alcuni hanno evidenziato come il compenso di 400.000 euro annuo di Ursula von der Leyen sia perfino superiore ai 360.000 euro percepiti dal cancelliere tedesco. Altri hanno rispolverato i costi dell’intero carrozzone europeo: oltre 12 miliardi all’anno a cui si aggiungono altre centinaia di milioni per gli edifici in affitto e i 2,5 miliardi di euro per sostenere il Parlamento europeo coi suoi 720 membri e i suoi oltre 5.000 dipendenti.
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