Terzomondismo e terzosessismo. In fondo, con un titolo così, era prevedibile. Stranieri ovunque - Foreigners everywhere è un gigantesco link alle minoranze. Un magnete di vittimismi. La 60ª Biennale d’Arte di Venezia è una chiamata a raccolta delle comunità outsider, laterali, emarginate, violentate dal potere, dagli Stati, dal pensiero unico, dalla globalizzazione. Ecco allora il terzomondismo e l’ideologia queer alzare il proprio pianto, lamentarsi, recriminare. Un coro a più voci, nelle varie tonalità che compongono la polifonia finale. Quella dell’esclusione patita. Della vessazione. Del sopruso. Dell’oppressione. Migranti, nomadi, apolidi, indigeni, aborigeni, sradicati, rifugiati ed espatriati si accostano a omosessuali, queer, fluidi, disforici, non binari in una comune condanna dell’Occidente colonialista, selettivo, discriminatorio, razzista. Il quale, per sgravarsi dal pesante complesso di colpa, li accoglie, li sdogana, li legittima e li esalta secondo i dogmi dell’inclusione e dell’accoglienza.
Parole care anche a papa Francesco che, prima volta di un Pontefice, visiterà la Biennale, in particolare il Padiglione Vaticano (alla quarta partecipazione) allestito nel penitenziario femminile all’isola della Giudecca per l’esposizione intitolata Con i miei occhi e realizzata con la supervisione del cardinal José Tolentino de Mendoça (prefetto del dicastero per la cultura e l’educazione). Ad aspettarlo, domenica mattina Francesco troverà l’opera di Maurizio Cattelan: due piante di piedi, come quelli che ogni giovedì santo Bergoglio va a lavare nel carcere femminile di Rebibbia.
Su questa edizione ha già scritto magistralmente Marcello Veneziani, basandosi sul titolo voluto dal precedente presidente Roberto Cicutto, con sagacia ereditato da Pietrangelo Buttafuoco, e segnalando le parole del curatore che tiene a proclamarsi queer Adriano Pedrosa: «In profondità, siamo tutti stranieri». Niente di nuovo sul fronte artistico. Non serviva vedere i padiglioni e le installazioni se non per trovare conferme e aggiungere dettagli, rilievi formali, classificazioni di schieramenti.
Per esempio, il fatto che, rispetto a quello di origine geografica, il sentimento di estraneità a causa dell’orientamento sessuale è quantitativamente maggioritario forse perché più di moda tra le élite intellettuali. All’ingresso dell’Arsenale ci accoglie Refugee Astronaut II, creazione dell’artista britannico-nigeriano Yinka Shonibare, quasi una summa delle precarietà e dei disconoscimenti odierni. È un astronauta a grandezza naturale, che indossa una tuta di stoffa con motivi nigeriani e porta in un sacco di rete attrezzi e strumenti per superare sfide ecologiche e umanitarie. Senza, però, riuscire ad ambientarsi, tanto da rivolgersi allo spazio. Inoltrandosi nei saloni si trovano denunce più circostanziate. Nei dipinti elementari di Marlene Gilson che affiancano soldati e indigeni c’è l’oppressione subita dagli aborigeni dell’Australia, mentre nelle fotografie e negli arredi di Pablo Delano si ripercorre la storia di Porto Rico dalla dominazione spagnola alla subalternità agli Stati Uniti. La critica al colonialismo tocca anche l’Italia nell’opera Gheddafi in Rome: anatomy of a friendship di Alessandra Ferrini, artista fiorentina che ripropone l’incontro del leader libico con Silvio Berlusconi del 2009, analizzando il rapporto tra i due Stati fin dall’occupazione italiana del secolo scorso. Nell’enorme arazzo di Pacita Abad (Singapore), si fotografa invece la stratificazione sociale della globalizzazione: nella fascia alta dei grattacieli compaiono le sigle della finanza, nella seconda i marchi della moda, nella terza le famiglie dei ceti medi e nell’ultima, a terra, i più poveri. Il racconto della resistenza al regime di Pinochet realizzato su grandi tele da Arpilleristas, artiste cilene ignote, è ingenuo e colorato dal sole, segno di una speranza che non demorde. Restando in Sudamerica, l’argentina Mariana Telleria dichiara che Dios es inmigrante nell’installazione con alberi di barche a vela che compongono una grande croce, collocata nel giardino di un ostello vicino al porto di Buenos Aires. Più militante e antipotere il lavoro di Disobedience archive, raccolta di «tattiche di resistenza contemporanea» realizzata da Marco Scotini, composta da una collezione di video sulle forme di protesta nel mondo. È una delle poche opere audiovisive del capitolo sullo sradicamento geografico che riempie anche i padiglioni dei Giardini, dove il frontespizio è affrescato dal collettivo brasiliano Mahku. Per il resto, dominano pittura, scultura e la stoffa degli arazzi, familiari nelle comunità terzomondiste degli anni Settanta.
Più variegata nei linguaggi, sebbene sia assente quello digitale, la denuncia delle comunità omosessuali, queer e non binarie. Si va dalla performance video di danza su lenzuola appese al soffitto di Isaac Chong Wai (Hong Kong) alle raffigurazioni di gaiezza quotidiana dell’americano Louis Fratino. Il sudafricano Sabelo Mlageni sceglie invece dei murales in spazi rurali per raccontare la sua non binarietà, mentre Puppies Puppies intitola Woman la scultura di un maschio normodotato. Ahmed Umar, queer sudanese e musulmano riparato in Norvegia, assomma entrambe le forme di estraneità, ritraendosi in abiti, gioielli e trucco femminili nell’opera intitolata Talitin, ovvero «terzo», tipico insulto arabo. Più inquietante è l’evoluzione di Void, il video di Joshua Serafin (Filippine), in cui un corpo evolve in uno spazio fangoso dalla condizione strisciante a essere eretto, fino a proporsi come divinità fluida. La rappresentazione più estrema è, però, quella di Xiyadie, «padre, contadino, omosessuale, lavoratore, migrante e artista» che illustra su enormi tele il disagio dell’identità queer in Cina, raffigurando fellatio e scene di autolesionismo genitale. Infine, in Cyber-Teratology Operation di Agnes Questionmark (Italia), un corpo in sala operatoria, gravido e con arti pinnati - quindi trans-specie, transgender e transumano - è una sorta di summa dello sterminato capitolo dedicato ai percorsi trans.
In conclusione, la tonalità ultima della polifonia è quella del pianto, lamento non sempre fuso nella protesta. In cui più che la qualità e l’innovazione artistica, conta il messaggio originato dall’appartenenza a una delle minoranze rappresentate. Tuttavia, lo stupore è in modica quantità. In un’epoca che con il Sessantotto ha ucciso i padri e abolito il principio di autorità e con l’avvento della globalizzazione ha cancellato le patrie, gli stranieri sono ovunque. E, grazie alla Biennale d’Arte di Venezia, ai media mainstream e all’industria dell’audiovisivo hanno molte possibilità di diventare maggioranza.







La cura Buttafuoco trasforma la Biennale da semplice vetrina a fabbrica di cultura
Metti una sera dopocena ad ascoltare il «Commento al Vangelo di Giovanni» scritto da Meister Eckhart, grande teologo e mistico tedesco, contemporaneo di Dante. Tre attori con leggero trucco argenteo - Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita - avvolti in un tendaggio circolare che dal tetto precipita a terra declamano il testo alternato ai canti del repertorio gregoriano tardo medievale, eseguiti dal coro della Cappella Marciana guidato dal maestro Marco Gemmani. Siamo nel Portego delle colonne della Scuola grande di San Marco dell’ospedale San Giovanni e Paolo di Venezia. Alle pareti dell’oratorio scorrono in verticale grafiche in bianco e nero di intarsi e luoghi sacri, per una drammaturgia (di Antonello Pocetti e Antonino Viola) che da antica si fa contemporanea. I tre attori incalzano salmodiando versi dai padri della Chiesa, da Sant’Agostino, dal testo evangelico rivisitato: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo».
È l’Expositio sancti evangelii secundum Iohannem (tratto dal monumentale Commento al vangelo di Giovanni di Johannes Eckhart, edito da Bompiani con testo latino a fronte) che il presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, ha voluto proporre per due settimane come progetto speciale in collaborazione con l’Archivio storico delle arti contemporanee (Asac): ogni sera un tema specifico (Logos, Essere, Amore, Bene/Male, Anima/Corpo), introdotto da personalità come il cardinal José Tolentino de Mendoça, prefetto del dicastero vaticano per la cultura, o come il filosofo Peter Sloterdjik. Sono serate di ascolto e meditazione di parole essenziali e di voci inattuali, che proprio l’attualità di vocii incessanti e assordanti intendono sanamente contestare. Idea del presidente, che festeggia il primo anno a Ca’ Giustinian, è creare una nuova Biennale della parola, con prossimi eventi su testi di Friedrich Hegel e di Claude Lévi-Strauss. E non poteva esserci viatico migliore di un commento al vangelo che inizia con «In principio era il Verbo».
Buttafuoco, si sa, non è solo manager e organizzatore culturale, per altro figure di cui si avverte necessità. È anche scrittore e studioso. E sebbene la sua nomina, voluta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, sia stata accolta con scetticismo dagli storici ambienti di riferimento della Biennale, ora che si compie il primo giro di calendario, bisogna riconoscere che una certa impronta si comincia a vedere. Ci sono coraggio, dinamismo e carattere propositivo nel palinsesto che via via prende corpo con la nuova presidenza. E, prima ancora, c’è stata una buona dose di sagacia, nell’abilità con cui, appena nominato, Buttafuoco ha saputo gestire la 60ª Esposizione d’Arte intitolata «Stranieri ovunque» e affidata dal suo predecessore Roberto Cicutto al curatore di militanza queer Antonio Pedrosa.
Figura identitaria e al contempo uomo di mondo, con un mix di continuità e rinnovamento, Buttafuoco ha provveduto alle nomine prorogando il direttore del Cinema Alberto Barbera, protagonista di una sequenza di mostre fucine di Oscar in serie (ultimi i tre di The Brutalist con Adrien Brody e quello per Io sono ancora qui di Walter Salles), e il responsabile del settore Danza, Wayne McGregor. Diversamente, ha impresso un cambio di passo scegliendo l’attore Willem Dafoe per il Teatro, nominando Caterina Barbieri per la Musica del biennio 2025-26, e nelle Arti visive con l’artista svizzero-camerunense Koyo Kuoh, che ha l’incarico di allestire la 61ª Esposizione d’Arte del 2026.
Votata a un’idea più movimentista che istituzionale dell’Ente, questa presidenza mostra di volersi spingere oltre l’agenda delle esposizioni. La vetrina è certamente importante, ma per un intellettuale irregolare e critico del mainstream qual è l’autore di Beato lui. Panegirico dell’arcitaliano Silvio Berlusconi (Longanesi), il vero obiettivo è fare della Biennale un soggetto di produzione culturale autonoma. Un ambito di creatività del pensiero a disposizione del presente e rivolto al futuro, per realizzare il quale è sempre più centrale il ruolo dell’Archivio storico, centro di ricerca sulle arti contemporanee che avrà presto la nuova sede all’interno dell’Arsenale. Buttafuoco si muove con cautela, lasciando parlare i fatti. Ha avviato il progetto speciale È il vento che fa il cielo. La Biennale di Venezia sulle orme di Marco Polo per i 700 anni dalla sua scomparsa, con eventi a Hangzhou in Cina e successivamente a Venezia. E, a 53 anni dall’ultimo numero del 1971, ha fatto rinascere la rivista trimestrale La Biennale di Venezia, affidando la supervisione editoriale a Debora Rossi e la direzione a Luigi Mascheroni. I due numeri usciti, il primo dedicato al tema dell’acqua e ai «Diluvi prossimi venturi» e il secondo alla «Forma del caos» e alla conservazione della memoria in opposizione alla cancel culture, consegnano un nuovo strumento ricco di testimonianze e contributi volti ad analizzare l’evoluzione del pensiero attraverso il prisma delle discipline della Biennale stessa (arte, cinema, architettura, musica, teatro e danza) per offrire materiali di riflessione alla discussione internazionale.