2022-11-24
Igles Corelli: «Troppi stellati fissati con le verdure. Torni la selvaggina»
Nel riquadro lo chef Igles Corelli (IStock)
Uno dei palati più innovativi d’Italia: «È una moda che serve a risparmiare e a far contenta la Michelin. Ma non si cucina così».Neanche a farlo a posta: uno dei cuochi più bravi e creativi d’Italia, noto in tutto il mondo, Igles Corelli lancia un appello per smetterla con la cucina, come la chiama lui del «cavolo freddo» e Irit Zohar, dell’Università di Tel Aviv, analizzando dei resti trovati nel sito di Gesher Benot Ya’aqov, in Israele ci fa sapere che il primo cibo cotto risale a 780.000 anni fa. Era una carpa. La scoperta sposta di centinaia di miglia di ani indietro le lancette della cucina. Seguendo il filo di Claude Levi Strauss che per primo ha intuito il legame tra cottura del cibo ed evoluzione possiamo dire che gli uomini hanno cominciato a diventare più intelligenti molto prima di quanto si sapesse. «Ecco», esordisce Igles che con Il Trigabolo di Argenta insieme ai tre Bruno Barbieri, ora cuoco catodico, Gualandi e Biolcati - fece fare negli anni Settanta un salto di qualità impensabile alla ristorazione italiana, «mi viene a fagiolo questa notizia per dire che non se ne può più dei piatti freddi, della cucina che non è espressa, di mangiare cibi tiepidi perché aspettano mezz’ora prima di servirli per definire esteticamente la ricetta. Questa non è cucina è solo moda».Igles lei è uno dei maestri della nostra cucina, forma centinaia di ragazzi, non crede che un po’ di responsabilità sia vostra che avete coltivato la cucina dello stupore?«Può darsi, anch’io a cavallo tra i due secoli sono caduto nella trappola dell’apparire più che dell’essere. Ma mi sono reso conto subito che era una sorta di attentato alla nostra cultura. Noi siamo un’altra cosa: noi siamo la cucina del naturale, di ciò che la nostra meravigliosa terra ci offre. Io sono ora a Istanbul, città meravigliosa, per la settimana della cucina italiana nel mondo, un’idea che finalmente ci ha consentito di far provare la vera nostra cucina. Non penso che farebbero la fila, come stanno facendo, per venire a cena da me se gli proponessi un cibo omologato, standardizzato, tiepido e incomprensibile. Loro vengono ad assaggiare Corelli perché vogliono sentire la mia lingua gastronomica. Vengono da me come vanno ad ascoltare l’opera lirica di Verdi o di Puccini, come vanno a vedere la nazionale di calcio o come quando tifano Ferrari o si vestono Gucci o Prada. Per loro l’Italia è questo: è stile di vita e io con i miei piatti devo farglielo vivere.»Lei Igles ha fatto un post molto piccato in cui sosteneva: «Ma se tutti gli stellati lavorano solo le verdure i grandi prodotti italiani e soprattutto la caccia dove vanno a finire? Mi sorge un dubbio: qualcuno sa cucinare?». Ecco le ripropongo il quesito: qualcuno sa cucinare?«Spiego la ragione di quel post. Vedo che c’è questa rincorsa al piatto estetico e che si inseguono le influenze esterne. Sostanzialmente la cucina passa in secondo piano e s’impone la moda del cibo. Ma questo è pericolosissimo. Per quattro ragioni: la prima che se i cuochi smettono di cucinare non hanno più senso, questo è un mestiere che richiede attenzione, sacrificio e massima dedizione con un allenamento continuo. La seconda ragione è che imponendo la moda si fa spazio al cibo omologato e credo che ci siano potentati economici che ci stanno lavorando sodo come quelli delle bistecche sintetiche o degli insetti, la terza ragione è che non di solo cavolo freddo vive l’uomo. La grande cucina si è sempre misurata con la selvaggina che ora è sparita dalle carte. Possibile che tutti abbiano sentito l’afflato etico verso gli animali? Se è così non mi spiego perché affollano i fast food».E l’ultima?«Sta nel food cost: è evidente che se ti do tanta verdura spendo di meno. Se poi la verdura la faccio brillare con le stelle Michelin guadagno di più. E per molti è il solo modo per far stare in piedi il ristorante. La verità è che stiamo cedendo alle mode. Che sono imposte dall’alto».In che senso?«Osservo che c’è ormai una sorta di stile Michelin. Tutti omologati, tutti a usare i gli stessi prodotti. Vale anche per la Lavazza, per la San Pellegrino che è in mano all’Unilever, per tutti i main sponsor delle guide e delle manifestazioni di cucina. Esaltano quei cuochi, quei piatti perché così omologano il gusto e vendono i loro prodotti su larghissima scala. I loro protetti sono i cuochi che aprono 4, 10, 20 ristoranti che non seguono la stagionalità, che usano il prodotto già pronto, che fanno solo estetica. Bisogna mettere la vela contro il vento del conformismo e ricominciare a fare i tortellini col brodo di bue grasso, col pollo di Marozzo, col prosciutto di D’Osvaldo, col Parmigiano stagionato 40 mesi. E serviti caldi!».Insomma tornare al Trigabolo? «Al Trigabolo facevano sperimentazione, ma era un menù goloso che interpretava il territorio e le tradizioni innovandole. Ne parlavo con Gianfranco Vissani, anche lui sostiene la tradizione. Lui è esagerato perché vorrebbe tornare alla padella di ferro, io invece spingo sulle tecniche e le insegno perché migliorano il piatto, però devi fare cucina vera. Oggi esci dal ristorante e non ti ricordi cosa hai mangiato perché seguono solo le mode. Dieci anni fa se entrava un vegetariano in sala, in cucina volavano parole grosse, oggi sono tutti lì a fare la corte a queste tendenze. Che molti seguono in buona fede, ma che sono indotte da chi ha interesse a cancellare la cucina come prodotto dell’agricoltura e della cultura. Ferran Adrià aveva lanciato il suo slogan: todo es chimica. È vero, tutte le trasformazioni in cucina sono chimiche. Ma non chimica per fare i prodotti di sintesi che le multinazionali vorrebbero farci mangiare cominciando ad imporceli attraverso le Stelle».