2022-02-02
        Un’idea per ricucire il centrodestra
    
 
        Giorgia Meloni e Matteo Salvini (Ansa)
    
Primarie all’americana (non come quelle del Pd) per scegliere il candidato alla guida dello schieramento. Tappe sul territorio e convention finale. Parlando a tutta l’Italia.Come conciliare la lodevole svolta «americana» (nel senso di un partito repubblicano) di Matteo Salvini con l’altrettanto legittimo orgoglio di partito di Giorgia Meloni, che non intende «adeguarsi»? L’uovo di Colombo c’è: mi riferisco al meccanismo delle primarie per scegliere il candidato alla guida dello schieramento, e quindi (nel sistema istituzionale oggi esistente) per indicare il candidato premier. Immagino l’obiezione: ma come, stai proponendo al centrodestra italiano lo stesso marchingegno adottato, tra mille contestazioni e divisioni, dal Pd? Suggerisci di imitare una cattiva pratica, che ha alimentato la guerra tra correnti, che ha creato dubbi sull’identità dei partecipanti al voto, o che - nella migliore delle ipotesi - si è limitata a «fotografare» e «pesare» la forza di partiti e componenti, per favorire le spartizioni interne e l’assegnazione di cariche e incarichi? La risposta è: no. Più precisamente: un secco no. Il Pd italiano non ha affatto adottato il modello delle primarie statunitensi, ma si è limitato a una consultazione in un unico giorno, che fatalmente porta con sé la mera ratifica del quadro già esistente. Un modo come un altro per appiccicare un sigillo popolare a decisioni già assunte in altra sede. Una ratifica. Una messa di incoronazione. Qui si propone invece l’adozione vera del modello americano, con elezioni primarie sequenziali (cioè a tappe, territorio per territorio), con un processo politico (e un dibattito nel Paese) che dura mesi, e una convention finale che prende atto del risultato e lancia la campagna elettorale vera e propria. La metafora più adatta per illustrare la proposta è quella ciclistica: organizzare una sorta di Giro d’Italia, in cui si voti regione per regione. Se si facesse domenica dopo domenica, per coprire le venti regioni servirebbero cinque mesi; accorpando due regioni alla volta, basterebbero due mesi e mezzo.Quali sarebbero i vantaggi di un percorso simile? Intanto, non solo tutti gli elettori di centrodestra sarebbero coinvolti, ma anche tutti i territori, e ciascun candidato dovrebbe seriamente impegnarsi per parlare a tutta Italia. In più, non sarebbe una «fotografia secca» per pesarsi, scattata una volta per tutte, ma un processo politico che costringerebbe tutti a dare il meglio di sé. Il front-runner, il favorito, sarebbe virtuosamente obbligato a confrontarsi con i temi e le obiezioni degli altri candidati, a farne tesoro, ad arricchire il proprio messaggio. Un eventuale outsider bravo e capace non sarebbe costretto a un ruolo inevitabilmente marginale, ma potrebbe far crescere il proprio peso, portare nella discussione nuovi temi e istanze utili a tutta la coalizione. Potrebbe esserci la vittoria finale del favorito della vigilia oppure una sorpresa: comunque, essendo stati tutti coinvolti, nessuno potrebbe chiamarsi fuori alla fine. E tutti si sentirebbero rappresentati dal campione scaturito da una simile competizione. Di più: adottando il modello della convention finale all’americana, il vincitore potrebbe scegliere un vice, un running mate, un numero due con cui comporre il ticket per la campagna elettorale da condurre contro il centrosinistra: realisticamente, dando voce e volto a un’altra area culturale, per far sentire pienamente coinvolti anche gli sconfitti della gara delle primarie. Di tutto questo ho scritto nel mio saggio Per una nuova destra, sottolineando i vantaggi politici dell’operazione, ma pure quelli in termini di comunicazione: una «gara lunga» può far emergere idee e capacità, può appassionare il pubblico, e soprattutto consentire di determinare l’agenda politica e mediatica del paese, anziché farsela imporre dagli avversari e dalle circostanze. Una corsa sul modello Usa, territorio per territorio, darebbe tempo e modo ai candidati di farsi conoscere, di attaccare ed essere attaccati, di affrontare momenti favorevoli e cadute, di affinare e mettere a punto programmi e proposte, e anche di dare vita a una «drammaturgia», di creare carisma intorno ai partecipanti e al vincitore finale, e anche (scusate se è poco) di alimentare una vera competizione tra proposte: tra chi ha una certa idea sulle tasse e chi ne ha un’altra, e così via su immigrazione ed Europa, e su ogni altro tema. Di solito, il centrodestra italiano obietta rispetto al tema delle primarie di aver già introdotto una prassi ormai storicamente accettata dai partiti della coalizione: quella per cui sarà candidato premier il leader del partito che, la domenica del voto, avrà preso più voti. Ma questo criterio può alimentare le conflittualità preelettorali tra le liste di centrodestra (specie se un paio di partiti avranno sondaggi ravvicinati tra loro, come accade adesso tra Lega e Fdi), e soprattutto priva la coalizione della chance di partire con molti mesi di anticipo, lanciando una mobilitazione che potrebbe solo giovare al risultato elettorale finale. Non voglio nascondermi dietro un dito: nell’immediato, la mia proposta sarebbe anche un modo per rendere ariosa, aperta, carica di prospettiva, di idee (e anche di umanità e di rispetto reciproco) la sfida politica in corso tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, evitando il rischio di spigolosità e asprezze, e aiutando questi leader a condurre una trasparente campagna pubblica, capace di coinvolgere cittadini, militanti, intellettuali, categorie produttive, e indirizzando la loro competizione positiva verso l’esterno, cioè verso l’Italia, anziché verso l’interno, cioè verso una mera conta nel perimetro della coalizione.