2021-01-28
Ibra-Lukaku, lo scandalo è solo sui giornali
Zlatan Ibrahimovic e Romelu Lukaku (Ansa)
Il frontale fra i titani di Milan e Inter è stato il meglio del derby, uno show selvaggio ormai dimenticato in questo calcio in provetta. Eppure il giorno dopo era tutto un grido indignato di «vergogna». La parola guerriero piace solo se sta dentro un titolo a effetto. Donkey o monkey? C'è voluto il Var del labiale ma almeno questo l'abbiamo risolto: ha detto asino e non scimmia. Quindi non è inverno nucleare, non è fine della carriera di Zlatan Ibrahimovic, protagonista della scena più intensa e decisiva del derby Inter-Milan dopo il gol di Christian Eriksen: la rissa verbale con Romelu Lukaku. Una battaglia fra giganti del pallone e non del pensiero, ma anche un ritorno dentro la giungla delle emozioni che ti travolgono; un momento selvaggio del tutto dimenticato in questo calcio in provetta, asettico e con il fremito della verdura lessa, senza tifosi e quindi senz'anima.Quel frontale fra autotreni alla fine del primo tempo ha fatto il giro del mondo. Le due fronti inutilmente spaziose una contro l'altra - roba da fumetto, mancano solo i fulmini e i grrrr - sono sulle prime pagine di giornali e siti. Dove domina l'indignazione, soffocata a stento dalla degnazione. Bello il titolo del principale quotidiano sportivo argentino, Olé: «Violento scontro fra titani». Perché questo è stato, qualcosa a metà fra il duello sotto le mura di Troia fra Ettore e Achille senza Omero a raccontarlo, e lo show triste da bulli di periferia che hanno perso i freni inibitori. L'impressione deriva proprio dall'eccellenza sportiva dei due fighters: se a minacciarsi a vicenda fossero stati mediocri comprimari nessuno sarebbe andato oltre il distratto replay.Tutto nasce da un duro fallo di Alessio Romagnoli che abbatte il centravanti interista. Quando si rialza per protestare, Romelu si trova davanti Zlatan e lo spettacolo ha inizio. I due non si sono mai amati. Nel 2017 al Manchester United, Lukaku (13 anni di meno) fu preferito allo svedese che cominciò a rosicare e a vendicarsi alla sua maniera. «Se riesci a fare uno stop al volo ti regalo 50 sterline», lo provocava in allenamento. Una, due, tre volte. Poi prese a ripetere una vecchia calunnia buttata lì dal presidente dell'Everton. Lukaku voleva andare al Chelsea e il patron mise in giro la voce che a indurlo era stata la madre dopo un rito voodoo. Vicende contorte, con le ragnatele, sibilate a fil di labbra durante il derby per innervosire. Con la conseguenza più sorprendente: a pagarne le spese è stato il milanista, poi cacciato dal campo per doppia ammonizione. E costretto a chiedere scusa ai compagni lasciati in 10 nel momento cruciale, mentre l'Inter rimontava. Una scena forte, inadatta a lettori di poesie. Ma non banale, nello sport in generale càpita. Nel basket, dove oltre i due metri si vedono contatti atomici, anche di più. Tra l'altro lo scontro, più che rappresentare una rissa, mima la sua finzione. Non c'è il Fight Club, solo lo scimmiottare una cattiveria che si ferma abilmente a un centimetro dalle vie di fatto, dal massacro. Quindi è cinema. «Vai a fare i riti voodoo con tua madre, asino», «Ti sparo un colpo in testa»: chiacchiere e distintivo come negli Intoccabili. Dove la parte di Al Capone è tutta di Ibra, strafottente con il petto in fuori, macchiettistico nel voler imporre la legge del cortile con il ghigno da coltello a serramanico. Ma Lukaku non ne esce meglio, così furibondo da saltarsi addosso da solo in un ruolo non suo, lontano anni luce dal sacerdote laico dei diritti umani, inginocchiato davanti alle regole del politicamente corretto. Difficile discostarsi da questo scenario, ma anche condividere il conformismo di Stato, quello dei professionisti dell'indignazione permanente. Il giorno dopo è come sempre dominato dall'«ovvio dei popoli» (copyright di Edmondo Berselli), quel velluto di ipocrisia collettiva che scopre - ma guarda un po', non lo sapevamo - l'adrenalina, la contrapposizione, la cattiveria del calcio. Ed è tutto un «vergogna», un alzare il ditino sul «pessimo esempio per i giovani», un'esibizione arpeggiante di moralismo a prescindere e di pacifismo sportivo all'acido lisergico. Come se i giocatori di pallone avessero la leggiadria delle campionesse di nuoto sincronizzato. E come se nessuno avesse mai sentito pronunciare da un palermitano doc, Totò Schillaci, la frase: «Ti faccio sparare».Due animali da gol, niente da dire. Quanto al razzismo, chi si sente gridare «negro» e «zingaro», ne sa qualcosa ma da vittima. Eppure giornalisti che non hanno niente da dire davanti a calciatori fetenti che simulano in area o tirano la gomitata carogna nelle tonnare dei calci d'angolo, oggi si ingegnano a condannare all'ergastolo Ibra per la provocazione («deve finire la carriera come Zidane dopo la testata a Materazzi») e Lukaku per la mancanza di aplomb. Disdicevole signora contessa. La parola guerriero piace, ma solo se sta dentro un titolo a effetto. Anche se donkey non è monkey, l'essenza dolciastra del bene di Stato pervade l'aria.Ad avvertirne l'olezzo è il milanista che scrive sui social come per giustificarsi: «Nel mio mondo non c'è posto per il razzismo. Siamo tutti uguali, siamo tutti giocatori, alcuni meglio di altri». Ma il frontale potrebbe creargli problemi perché sui social si è già scatenata la canea contro la sua partecipazione al Festival di Sanremo. Era previsto che Ibrahimovic fosse ospite fisso ma ora ha un problema, fronteggiare l'hashtag #Ibranograzie e le proteste di Codacons, attivisti gay e politici sparsi che stanno mettendo in difficoltà Amadeus e la Rai. In tutto ciò un duro vero senza fiction né isterie c'è: è Nicolò Barella, che dal basso del suo metro e 72 ha tentato per cinque minuti di placcare un toro furioso di due metri come Lukaku. Merita pure un premio doppio perché c'è riuscito.
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
A Fuori dal coro Raffaella Regoli mostra le immagini sconvolgenti di un allontanamento di minori. Un dramma che non vive soltanto la famiglia nel bosco.