2018-12-14
Nessuna retromarcia. Il vero obiettivo è sempre stato il 2%
Sotto le urla, mossa da Dc: separare dalla legge di bilancio quota 100 e reddito di cittadinanza ha accontentato l'Ue e gli elettori La nuova accusa ai gialloblù è quella di aver fatto bruciare all'Italia miliardi per poi arrendersi a Jean Claude Juncker. In realtà gli interessi sono diminuiti e le oscillazioni dei mercati fanno parte di cicli non legati solo alla politica Lo speciale contiene due articoli. L'uscita sul balcone di Palazzo Chigi non è stata un colpo vincente, e resterà nel curriculum di Luigi Di Maio. Ha sbandierato in modo un po' troppo acritico il 2,4% di deficit. E ora che la trattativa Stato-Ue ha riportato le lancette del deficit indietro al 2,04% (o a un probabile 2%), opposizione, dem, sinistra in generale e mondo del Web sono partiti all'attacco. In sostanza l'accusa è: il governo si è calato le braghe. È sempre più difficile fissare i paletti dell'obiettività, viste le continue dichiarazioni di tutte le parti in causa. È però un buon esercizio quello di valutare i numeri di per sé. Il rapporto deficit/Pil ereditato era all'1,2%. Gli impegni presi da un governo che è stato asfaltato dalle urne proprio per via della gestione economica del Paese avrebbero imposto all'Italia uno 0,8%. Al contrario, i gialloblù alla fine dei giochi hanno portato il rapporto intorno al 2%. Premesso che il gioco di chi ha il deficit più lungo non è il massimo, se dentro quella spesa non ci sono valutazioni fiscali idonee e investimenti, va detto che se la volontà era fare più deficit, nei numeri tale volontà è stata rispettata: quasi un punto percentuale in più. Il paradosso della trattativa Stato-Ue è che ha svelato tutte le mire politiche che rendono la valutazione di una legge Finanziaria avulsa dai contenuti. L'opposizione ha criticato per mesi le scelte di spesa dei gialloblù, sostenendo che avrebbero portato il Paese allo sfacelo. Adesso le medesime persone rinfacciano a Luigi Di Maio e a Matteo Salvini esattamente l'opposto: avere fatto un passo indietro senza mantenere le promesse. Delle due l'una: o sbagliavano prima, o sono dei calabrache adesso. Eppure la coppia, a detta dei «competenti», riesce sempre a sbagliare. Anche su questi aspetti vale la pena usare il metro di paragone della lettura dei contenuti della manovra. Quasi due mesi fa La Verità ha scritto che il deficit effettivo in manovra era già vicino al 2,1%. Per un semplice motivo: le due misure pilastro sarebbero state scorporate dal dl Bilancio e inserite in un disegno di legge che percorre una strada blindata ma lunga. Una agenzia di stampa ieri ha fatto presente che un cdm tra Natale e Capodanno dovrà occuparsi delle misure: i grillini insitono per inquadrarle in decreti legge. In ogni caso sia quota 100, sia il reddito di cittadinanza sarebbero stati finanziati per il 2019 con cifre non superiori rispettivamente a 6,7 e 7 miliardi. Assieme al perimetro di spesa massima, il governo - per mano del ministro Giovanni Tria - ha aggiunto anche una clausola di salvaguardia che permette sia il trasferimento delle suddette voci ad altro capitolo di spesa sia la riduzione delle medesime in caso di revisione dei parametri. Tradotto in parole povere, facendo scivolare più in là nel tempo l'attuazione concreta della riforma della Fornero e dell'ampliamento dei centri per l'impiego, la spesa complessiva scende e di conseguenza cala pure la percentuale del deficit. Una mossa in puro stile democristiano? Certo non a caso, sarebbe stata appoggiata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nella trattativa con l'Ue ha avuto dichiarata voce in capitolo. Così, mentre il commissario Ue, Pierre Moscovici, assieme a Jean Claude Juncker , attaccava il nostro Paese sulle formalità del deficit, il lavoro del Colle, del governo e del Parlamento era già diretto in direzione della sforbiciata del deficit stesso. Entrambe le parti ne erano al corrente, ma nessuna delle due poteva sventolarlo apertamente. Per motivi di facciata e per opportunità elettorali. Però chi insiste con il dire che il governo si è limitato a calare le braghe non solo sbaglia ma denota una certa difficoltà nell'inquadrare il cambio degli equilibri sia dentro il governo sia tra i Paesi membri della Ue. Innanzitutto, va ricordato che il punto di caduta fissato due mesi fa dalla componente leghista del governo (soprattutto per volontà di Giancarlo Giorgetti) era proprio il 2%; poi bisogna aggiungere che la Lega sembra aver voluto far correre il cavallo grillino su alcune promesse che ora non avranno i fondi per realizzarsi, e ciò ha imposto l'apertura di tavoli di concertazione con aziende e sindacati. In tutti questi tavoli il Mise sta perdendo peso in favore della componente leghista. Allo stesso tempo, il fallimento delle politiche macroniane e la disperata corsa al deficit francese avrà numerosi effetti, compresa la possibilità di aprire nuovi fronti di dialogo con i successori di Angela Merkel. Resta una domanda: valeva la pena trattare due mesi su uno 0,4% di deficit? Politicamente, come abbiamo cercato di spiegare sopra, innegabilmente sì. Dal punto di vista dell'economia italiana, è molto presto per tirare le somme. Al di là delle aste non andate del tutto a buon fine, lo spread sale e scende e nel breve periodo non incide sulla vita quotidiana delle persone. In ogni caso è problematico affermare che, fino a qui, il percorso con la Ue abbia indebolito particolarmente il governo, o almeno uno degli azionisti. Poi certo, nelle partite a poker c'è sempre qualcuno che cala i pantaloni: bisogna capire con quale scopo. Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-tifosi-dello-spread-non-si-arrendono-ma-bankitalia-i-tassi-dei-mutui-calano-2623328226.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-tifosi-dello-spread-non-si-arrendono-ma-bankitalia-i-tassi-dei-mutui-calano" data-post-id="2623328226" data-published-at="1760503534" data-use-pagination="False"> I tifosi dello spread non si arrendono. Ma Bankitalia: i tassi dei mutui calano Da quando il governo gialloblù si è insediato a Palazzo Chigi ci è toccato familiarizzare con una serie di espressioni giornalistiche di una violenza inaudita. «Bruciati 300 miliardi», «risparmi andati in fumo», «investimenti a rischio» sono solo alcune delle frasi con cui lettori e telespettatori si trovano a fare i conti. Una terminologia ideata a tavolino non solo con l'intento comprensibile di incrementare le vendite (o gli ascolti), ma anche per creare tensione. La scuola è la stessa del famigerato «Fate presto», stampato a caratteri cubitali sulla prima pagine del Sole 24 Ore del 10 novembre 2011. Toni drammatici che contribuirono a fomentare l'idea che la salvezza del Paese potesse passare per un governo di tecnocrati. Viene da chiedersi dove fossero gli opinionisti che tirarono la volata a Mario Monti quando, l'anno successivo, lo spread tra Btp e Bund tedeschi risaliva oltre quota 500. Più di una volta, durante questi ultimi mesi, è sembrato di rivedere lo stesso film andato in onda nel 2011. Lo stesso termine spread, che credevamo di aver riposto nel cassetto dei brutti ricordi, è stato brandito con insistenza maniacale. Obiettivo finale: convincere i nostri connazionali che la banda di «incompetenti» al governo avrebbe finito non solo per erodere la già di per sé scarsa credibilità internazionale, ma anche per mandare in fumo i nostri sudati risparmi. Lo diciamo subito per chiarezza: non esiste alcuna fornace nella quale vengono inceneriti i nostri denari quando lo spread sale o la Borsa va giù. Esiste, com'è naturale che sia, quello che in gergo viene chiamato rischio di mercato, cioè l'eventualità che il rendimento di un investimento non corrisponda alle attese. E ciò vale, inevitabilmente, anche per i titoli di Stato. Certo, non si può dire che l'interminabile tira e molla sui contenuti della manovra ancora in corso tra il governo guidato da Giuseppe Conte e la Commissione europea non abbia giocato un ruolo fondamentale nel condizionare l'andamento dei mercati. Da maggio di quest'anno lo spread, fino a quel momento stabilmente sotto quota 150 punti base, è schizzato fino a toccare quota 300 in occasione dell'affidamento dell'incarico a Carlo Cottarelli, per poi seguire un andamento altalenante tra i 200 e 327 punti base nei mesi successivi. Lo spread indica la differenza di rendimento tra i nostri Btp (titoli decennali a cedola fissa) e quello dei Bund tedeschi, considerati i più sicuri in Europa. I titoli di Stato vengono venduti nel corso di specifiche aste rivolte a investitori istituzionali e privati. Il rendimento è quel «prezzo» che il venditore deve corrispondere all'acquirente perché accetti il rischio dell'acquisto che, nel caso del debito sovrano, riguarda la possibilità che uno Stato non sia capace di rimborsare l'obbligazione a scadenza. L'andamento del rendimento (e di conseguenza dello spread) costituisce, perciò, la cartina di tornasole dell'affidabilità del nostro debito pubblico rispetto a quello di riferimento (in questo caso quello tedesco). Giovanni Tria, però, lo ripete da mesi, e molti analisti concordano con il suo giudizio: «I recenti livelli dei rendimenti», ha ripetuto in più di un'occasione il titolare di Via XX Settembre, «non riflettono i dati fondamentali del Paese». L'aumento dei rendimenti, passati dall'1,7% di maggio al 3% circa registrato nelle ultime settimane, ha inevitabili ripercussioni sul costo del debito. Secondo quanto stimato dal centro di ricerca finanziaria Mazziero research nel suo ultimo Osservatorio trimestrale sui dati dei conti pubblici italiani, un aumento dello 0,5% nei rendimenti avrebbe un costo pari a 2,019 miliardi di euro l'anno (168 milioni al mese), da moltiplicare per la vita media del nostro debito (attualmente 6,78 anni). Ovviamente, questo effetto riguarda solo le nuove emissioni e non lo stock di debito esistente. Ma allora quali sono le terribili conseguenze per risparmiatori e banche, delle quali sono costellate le pagine dei nostri giornali? Se l'investitore decide di portare l'investimento a termine, in realtà non c'è nessuna conseguenza, in quanto a scadenza l'obbligazione garantisce il capitale più la cedola. Le cose cambiano quando si vuole vendere il titolo. Un aumento del rendimento comporta un deprezzamento dei titoli, dal momento che il nuovo acquirente accetterà di comprare l'obbligazione a un rendimento inferiore rispetto a quello di mercato solo pagandola di meno. È per questo motivo che è più corretto parlare di «perdita virtuale», in quanto concretamente nessuno entra nel nostro portafogli e ci sottrae i soldi del mancato guadagno. Per ciò che concerne i titoli in pancia alle banche, una diminuzione del loro valore potrebbe causare una stretta creditizia (meno finanziamenti alle imprese e alla famiglie), tassi di interesse più alti, ma anche l'esigenza di ricapitalizzare. Gli ultimi dati pubblicati da Banca d'Italia lunedì confermano che, fino a oggi, non si è verificato nulla di tutto ciò. Da ottobre dell'anno scorso, infatti, i flussi sono stabili e i tassi relativi all'acquisto di nuove abitazioni sono addirittura diminuiti, passando dal 2,01% all'1,88%. Inoltre, non va dimenticato che, se facciamo eccezione per l'asta del Btp Italia svoltasi lo scorso mese (che ha raccolto 2,1 miliardi contro i 7/8 attesi), l'ultima asta dei Btp decennali si è conclusa positivamente con un eccesso di domanda e rendimenti in calo. Non sappiamo ancora come andrà a finire la singolar tenzone tra Roma e Bruxelles. Le frecciate scambiate con gli euroburocrati (spesso a mercati aperti) avranno creato danni, ma l'apocalisse paventata dalle cassandre nostrane è tutt'altra cosa. Antonio Grizzuti