2022-04-04
I tifosi degli aumenti sono gli stessi che si sono sempre opposti a tutto
Bloccati rigassificatori, trivellazioni, centrali atomiche, gasdotti. «Senza fonti fossili l’economia si ferma», dice l’ex ministro Alberto Clò.«La situazione è il risultato dei nostri errori e di quello che il Paese ha voluto. Tutti si chiedono come può essere accaduto che siamo diventati così dipendenti dalla Russia al punto da esserne ostaggi. Ma chi ora si fa tante domande sul perché della crisi del gas, dov’era quando ci furono punti di discontinuità nella politica energetica, o si celebrò il referendum sul nucleare del 1987?». Alberto Clò, economista, ex ministro dell’Industria durante il governo Dini e ora direttore della rivista Energia, ha vissuto da vicino gli anni in cui l’Italia decise, passo dopo passo, il suo futuro energetico. La madre di tutti gli errori, di cui ora paghiamo il conto, è proprio il referendum. Pochi alzarono una voce fuori dal coro della demagogia ambientalista, come Nino Andreatta, Felice Ippolito, promotore dello sviluppo del nucleare negli anni Sessanta, e Umberto Colombo, nel ’79 presidente dell’Enea, l’ente per l’energia nucleare e le energie alternative.Nel 2016 ci fu un altro referendum, voluto dalle Regioni, contro le trivelle, che però non ebbe effetti perché mancò il quorum. Il governatore della Puglia Michele Emiliano guidò il fronte dei «no triv», tutto rivolto a sinistra. Risultato: i giacimenti esistenti possono andare avanti senza limiti ma con il divieto di espandere l’attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio entro 12 miglia dalla costa. In totale le piattaforme esistenti oggi in Italia sono 131, di cui 90 entro le 12 miglia. Le concessioni in mare sono invece 69. Trentanove estraggono gas, 4 petrolio e solo una gas e petrolio. «Nel 2000 venivano estratti 20 miliardi di metri cubi di gas mentre l’anno scorso poco più di 3,5 miliardi. Il che ha significato 17 miliardi in più che abbiamo dovuto importare dalla Russia», afferma Clò. Emiliano s’intestò, con il M5s, un’altra battaglia di punta del fondamentalismo ecologista, quella contro il gasdotto Tap (Trans Adriatic pipeline) terminato tra mille polemiche a fine 2020 (con lavori iniziati nel 2016) che collega la Puglia all’Azerbaijan e che vale fino al 10% delle forniture italiane di gas. Tra i contestatori più accaniti ci fu il grillino Alessandro Di Battista: il 2 aprile 2017 durante un comizio promise che, se il Movimento avesse vinto le elezioni dell’anno successivo, ne avrebbe impedito la realizzazione. È bastato che i prezzi delle bollette raddoppiassero per far cambiare idea ai 5 stelle, che ora sostengono addirittura il raddoppio del gasdotto. In prima fila il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano che definiva il Tap «stupido, un’errata scelta politica». Emiliano chiese di spostare l’opera di 30 chilometri, nella località di Squinzano, per rispetto delle coltivazioni di ulivi. Pollice verso anche per lo sfruttamento dei giacimenti off shore dell’Adriatico. Secondo il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, introdotto dal governo Conte 1 per lo sfruttamento dei giacimenti nazionali, nel sottosuolo italiano ci sono circa 92 miliardi di metri cubi di gas. L’obiettivo è il raddoppio della produzione, arrivando a coprire il 10% del fabbisogno nazionale. I maggiori giacimenti si trovano nell’Adriatico. Ma per gli ecologisti l’estrazione metterebbe in pericolo Venezia. Intanto sull’altra sponda, cioè in Croazia, non si fanno tanti problemi: faranno le loro perforazioni marine sfruttando anche i giacimenti di idrocarburi che si troverebbero sotto le acque italiane, così da rendere il Paese un hub energetico per tutti i Balcani.Il fronte del No ha ostacolato pure l’ampliamento delle fonti alternative come eolico e fotovoltaico, osteggiati soprattutto dai sindaci perché gli impianti sarebbero un delitto all’ambiente e danneggerebbero il turismo. Bocciato dall’Europa il fracking, una tecnica di estrazione che negli Stati Uniti ha cambiato il volto dell’industria petrolifera. Ma l’accelerazione della transizione ecologica ha bloccato anche gli investimenti in nuove estrazioni. «Le compagnie petrolifere assediate dai propri azionisti che chiedono di investire in energia verde, dagli organismi internazionali assoggettati alle logiche green e dalla crisi finanziarie dopo la pandemia, hanno ridotto drasticamente gli investimenti minerari. E se non si buca non si produce», dice Clò. «La faziosità ecologista ha detto che non valeva la pensa di investire in petrolio e gas ma oggi si riscopre che i fossili sono essenziali. Per ricostruire capacità produttiva si richiedono molti investimenti e anni».
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