2019-03-01
I terroristi si infiltrano sui barconi, le mafie nella rete dell’accoglienza
Il rapporto dei servizi smonta le balle buoniste. E punta il dito contro gli anarchici. Si evidenzia inoltre come il calo degli sbarchi sia dovuto alla «rafforzata capacità della Guardia costiera» libiche e alla «drastica riduzione delle navi delle Ong» davanti alle coste nordafricane.È stata presentata ieri la «Relazione sulla politica dell'informazione per la sicurezza» 2018 curata dal comparto dell'intelligence. Come ogni anno, si tratta di un appuntamento che illustra le minacce che hanno caratterizzato gli ultimi mesi ma che, altrettanto, si delineano come quelle significative per i prossimi futuri scenari.Nelle parole del presidente Giuseppe Conte, un chiaro avvertimento più che mai utile: «Il rischio zero non esiste». Si tratta del punto di partenza per rendere sicuro il nostro Paese: cioè quella competenza diffusa tra tutti i cittadini che presuppone la sicurezza come un insieme condiviso di conoscenza, per generare consapevolezza del rischio, e di pratiche, perché diffondere e assumere comportamenti sicuri è il primo passo per essere sicuri.Detto questo gli scenari entro i quali si articolano le minacce terroristiche sono quelli che abbiamo spesso descritto come qualificanti il conflitto ibrido in corso: un jihadismo che non è mai morto e un reflusso di ex terroristi verso i paesi di origine che richiede controllo, in un quadro internazionale che continua a misurare le relazioni tra alleati con una certa confusione.Il rapporto sdogana un'evidenza che come ricercatori avevamo evidenziato da anni, relativa «al rischio di infiltrazioni terroristiche nei flussi migratori. Più volte segnalato sul piano informativo, tale pericolo è stato confermato da sviluppi investigativi che hanno attestato l'utilizzo - peraltro sporadico e non strutturale - dei canali dell'immigrazione clandestina per il trasferimento in Europa di estremisti subsahariani».Si evidenzia inoltre come il calo degli sbarchi sia dovuto alla «rafforzata capacità della Guardia costiera» libiche e alla «drastica riduzione delle navi delle Ong» davanti alle coste nordafricane che, «di fatto, ha privato i trafficanti della possibilità di sfruttare le attività umanitarie». Una conferma indiretta dell'operato del governo, insomma. Sul fronte dell'immigrazione clandestina, si legge, «sono emersi puntiformi tentativi di ingerenza nel sistema di accoglienza da parte di soggetti vicini ad organizzazioni criminali autoctone, anche in relazione alla possibilità di intercettare cospicui finanziamenti pubblici». Sul fronte dell'estremismo interno quella rappresentata dagli anarco-insurrezionalisti resta invece «l'espressione più insidiosa».Tornando al terrorismo internazionale, invece, emerge la preoccupazione per cui «flussi di singoli individui e/o gruppi familiari sono stati registrati in uscita dal teatro siro-iracheno in direzione di Nord Africa, Asia meridionale, Repubbliche centro-asiatiche e Sud-Est asiatico, oltre che del Vecchio Continente». Si parla di circa 1.700 individui, di cui un quarto di origine balcanica, che costituiscono una minaccia su più fronti: per la conoscenza operativa che hanno, formatisi sia al combattimento sia alla preparazione di armi e attacchi, e per l'attrazione perversa che comunicano, potendo diventare fattori di attrazione e formazione rispetto a nuovi giovani jihadisti cresciuti in casa nostra. Si tratta di affrontare una questione delicata e urgente.Infatti, a cominciare dalle sue origini questo flusso sfugge, nel suo generarsi, ai Paesi di destinazione (o rientro): esso è spesso il frutto perverso di accordi locali tra chi sta combattendo la guerra sul suolo siriano (Stati Uniti, Russia, Turchia, etc.) e i gruppi locali con i quali viene negoziato un salvacondotto perché «svuotino» le aree di conflitto contese. Per questi accordi sono stati «spinti» verso l'esterno numerosi jihadisti che poi refluiscono nei Paesi d'origine o rientrano nell'ampio circuito del jihadismo internazionale: in pratica non si elimina la minaccia ma la si sposta altrove. O addirittura si usa questa strategia della «delocalizzazione» come minaccia, per riassettare alleanze giustamente allo sbando, avendo sullo sfondo un conflitto siro-iraqeno sempre più opaco in termini di utilità. Questo pericoloso modo di operare, funzionale solo a chi si trova sul campo, è all'origine di questa minaccia fluida che dovremo affrontare. E sta andando a costruire in una nuova forma un differente esercito islamista che, cambiato per modalità operative, perseguirà i suoi obiettivi verso i medesimi target.La questione sulla quale da oltre un anno si sta lavorando, infatti, riguarda proprio l'eredità di Daesh: chi sono i suoi eredi? Come si stanno organizzando? Il resto della «famiglia», i qaedisti, in che modo si inseriscono nella linea di successione? Le risposte stanno prendendo forma e aiutano a prevenire le minacce ma sono efficaci solo se nessuno delegherà alle sole istituzioni il compito di rendere sicuro il nostro Paese: la collaborazione è la strategia di sopravvivenza della comunità nazionale.