2019-07-07
«I talk social sono più veri dei talk show»
La grande firma dello sport Marino Bartoletti si è lanciata con successo crescente sul Web: «Ho avuto l'incoscienza e il coraggio per avventurarmi su Facebook. Racconto mie esperienze. Le bestie di questo medium scivoloso vanno educate e pian piano gli “hater" si allontanano».Un settantenne alla conquista di Facebook. Non male come sorpresa, tanto più se il protagonista è un giornalista della carta stampata e della tv. Marino Bartoletti è una grande firma di calcio, ciclismo e motori, per due volte direttore del Guerin sportivo, fondatore della redazione sportiva Mediaset e direttore della testata sportiva Rai, inventore di Quelli che il calcio. Il suo successo sul principe dei social è tutt'altro che virtuale, come si è visto alla presentazione di Bar Toletti 3. Così ho sedotto Facebook (edizioni Minerva, prefazione di Vittorio Macioce) all'interno della rassegna Parole d'autore curata dall'associazione Cuore di carta di Albignasego (Padova).«Una serata guardando negli occhi le persone a cui mi rivolgo vale più di tante ospitate televisive», confida.Un settantenne che spopola su Facebook.«Un ossimoro, direbbero quelli che parlano bene. Avrei potuto adagiarmi sugli allori. Invece, un paio d'anni fa ho trovato l'incoscienza giusta per avventurarmi su questo medium scivoloso».Incoscienza o coraggio?«Entrambi, forse. Ho superato le titubanze puntando sulle cose che so fare: raccontare storie e dialogare con i lettori, come ai tempi della posta del Guerin sportivo. Grazie a questo dialogo ho capito che le bestie di Facebook non sono così cattive, soprattutto se le sai educare. Anche i giovani hanno voglia di storie positive».Per esempio?«Racconto gli incontri di tanti anni di giornalismo. A pranzo con Enzo Ferrari. A gustare una torta con Enzo Bearzot. Nella camera di ospedale di Niki Lauda dopo l'incidente, quando si pensava che “la nera signora", come direbbe Roberto Vecchioni, se lo sarebbe preso. Invece il prete che gli diede l'estrema unzione disse: “Non vuole morire"».Il tuo segreto?«Parlo di cose che ho vissuto. Chiunque può confutare delle opinioni, ma non le esperienze personali. Bene o male ho fatto dieci Olimpiadi e dieci Mondiali di calcio. Qualcuno di maleducato arriva anche sulla mia pagina. Rispondo prima con ironia, poi con fermezza. Pian piano gli haters si allontanano. Spesso sono altri followers a esortare i più insolenti a un comportamento rispettoso».Che seguito hai?«Il profilo può avere al massimo 5.000 like che si esauriscono in poche ore. Sulla pagina pubblica il post con il consenso più ampio ha raggiunto 2 milioni di visualizzazioni».Qual è stato?«Quello su Fabrizio Frizzi. S'intitolava: “E ora chi gli chiederà scusa?". Il giorno del suo funerale scrivevo che era morto un gentiluomo e che qualcuno si era comportato male con lui, facendolo soffrire».Chi o cosa ti ha convinto a sbarcare su Facebook?«Qualcuno che mi ha suggerito affettuosamente di allinearmi alla contemporaneità. Ho lavorato nella carta stampata, alla radio, in tv, ho scritto per il teatro, non era giusto temere questo media. Anzi, potevo diventarne amico. Raccogliendo i primi post mi sono inventato Bar Toletti, niente di folgorante, Così ho sfidato Facebook. Vista la risposta, ho fatto Così ho digerito…, ora Così ho sedotto…».I social servono a compensare il poco spazio nel giornalismo tradizionale?«Il giornalismo tradizionale lavora per il giorno dopo. Se segui l'attualità, nei social sei in tempo reale e finisci per dare un buco al giornale. Ospite delle rassegne stampa ho commentato spesso quotidiani già superati dalle notizie della notte. Siamo andati a letto che Donald Trump era stato eletto, ma nei giornali del giorno dopo non c'era scritto».Il tempo reale vuol dire dialogo permanente con i lettori.«Un dialogo strettissimo, una reattività inquietante. Una volta avevo scritto un punto e per errore è finito online. Subito mi hanno risposto dieci lettori con like e domande: “Cos'è, un messaggio criptato?"».Rapporto gratificante?«È una reattività che stimola e può provocare una forma di dipendenza. Magari stai per addormentarti e ti viene una risposta, poi i followers replicano… È un meccanismo compulsivo, ma mi dà più soddisfazione questo dialogo che partecipare a certi programmi tv».In questo terzo libro racconti il tuo Sessantotto in giacca e cravatta.«Noi che eravamo dentro non ci siamo accorti della portata di ciò che stava accadendo. All'epoca l'esame di Stato si sosteneva in giacca e cravatta. Mi preparavo al futuro, al lavoro che volevo fare, senza tirare molotov. Mi sono rimboccato le maniche nella quotidianità e forse questo è più rivoluzionario di tanti proclami».Da laureato in giurisprudenza come sei finito a fare il giornalista?«A vent'anni presi il treno per andare alla redazione del Guerin sportivo a Milano. Dove vidi Gianni Brera che picchiettava sui tasti della Lettera 22 davanti a un fattorino che aspettava di sfilare la cartella dalla macchina per portarla in tipografia. Non c'era una correzione. Lo vedevo come il Papa che celebra messa nella cappella privata solo per me. Rimasi folgorato e lo sarei rimasto ancor di più lavorando vicino a lui».Definisci Gianni Brera.«Uno scrittore che ha portato la cultura nel giornalismo sportivo a livelli impensabili. Sono orgoglioso di aver diretto il Guerin sportivo dopo di lui».Prima di Aldo Biscardi, invece, hai condotto Il Processo del lunedì.«La sua prosa era diversa dalla mia, ma la riconoscenza vola più alta dei congiuntivi. Consapevolmente o no, ha portato il bar sport in tv. O, detto in modo nobile, lo spettacolo della commedia dell'arte, con i suoi Arlecchino, Pulcinella e Balanzone, cioè Gian Maria Gazzaniga, Antonio Corbo, Ezio De Cesari. Quando vedo la volgarità di certi talk show dico: ridateci Biscardi».Qualche anno dopo arrivò la conduzione della Domenica sportiva.«Nel 1985, anno dello scudetto del Verona. I veronesi mi amano ancora perché lo festeggiammo in studio con Osvaldo Bagnoli».Un altro che citi spesso è Sergio Zavoli.«Forse il più grande giornalista italiano».Più di Montanelli?«Sì, perché più abile nella multimedialità. Montanelli non è andato molto oltre la carta stampa, mentre Zavoli ci ha lasciato dei documentari di storia italiana che andrebbero studiati all'università».L'erede di Biscardi è stato Maurizio Mosca?«Non direi, anche se entrambi erano esperti nella commedia dell'arte. Indimenticabile l'Appello del martedì con Helenio Herrera e l'avvocato Peppino Prisco. Mosca era un bambino di 60 anni, di un'onestà disarmante». Hai frequentato Beppe Viola?«L'ho frequentato e amato e lo piango ancora adesso. Se Quelli che il calcio si chiama così è proprio per l'omaggio che gli abbiamo voluto fare inventando quella trasmissione che l'avrebbe divertito moltissimo».Come nacque Quelli che il calcio?«Nacque dalla suggestione di un bambino che guardava la radio. Guardarla era quasi più bello che ascoltarla, perché scatenava l'immaginazione: cosa c'era lì dentro? Una volta cresciuto pensai a una versione televisiva di Tutto il calcio minuto per minuto. Portai il progetto ad Angelo Guglielmi, grande direttore di Rai3».E?«Io e Carlo Sassi garantivamo la parte tecnica, ma non si trovava il conduttore. Proponevamo Fabio Fazio, che Guglielmi non voleva, Paolo Bonolis o Giorgio Comaschi che aveva condotto Galagoal dopo Alba Parietti».Perché Guglielmi non voleva Fazio?«Era convinto che non bucasse... Andammo da Gianni Morandi, da Gaspare e Zuzzurro... Poi a qualcuno venne in mente Dario Fo. Ci recammo in delegazione a Spoleto dove recitava il suo Mistero Buffo. Illustrai il progetto, ma alla fine Franca Rame sentenziò: “Il mio Dario una stronzata così non la farà mai". Aveva ragione, perché due anni dopo egli avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. Ma quando venne ospite si divertì moltissimo».Con Quelli che il calcio decollò la carriera di Fazio.«Lui ha fatto la fortuna della trasmissione e la trasmissione la sua. Davamo un'immagine del calcio migliore di ciò che era realmente: sullo stesso divano sedevano gli esponenti del rigorismo tecnico e i tifosi più pittoreschi».Chi ti piace dei nuovi cronisti sportivi?«Noi intervistavamo i giocatori nudi in spogliatoio, tanti colleghi oggi vivono di Wikipedia e si limitano a mettere il microfono sotto la bocca dell'allenatore durante le conferenze stampa. Il miglior cronista di oggi è Francesco Repice che riesce ad abbinare ritmo, competenza e capacità di appassionare chi ascolta. Non è un caso che lavori alla radio».Che idea ti sei fatto delle scelte di Fazio dopo Quelli che il calcio?«Sono molto affezionato a Fabio, essendo suo testimone di nozze. Credo sia un grande talento. Anche quando vorrei chiamarlo per dirgli se è sicuro di quello che fa, alla fine prevale l'amicizia».Nel calcio è l'estate delle rivoluzioni. Cosa pensi di Maurizio Sarri allenatore della Juventus?«È il più grande cambiamento della storia bianconera. La Juventus aveva già deviato qualche volta dal suo pragmatismo, ma non era mai ricorsa al suo peggior nemico, portatore di un verbo distonico rispetto alla cultura della real casa».E della Roma che ammaina le bandiere Francesco Totti e Daniele De Rossi?«Core de Roma è intraducibile in inglese. Pallotta pensa più allo stadio che agli scudetti. Detto questo, anche la società ha le sue ragioni. Francesco ha promesso che non avrebbe mai fatto nulla contro la Roma, ma l'addio con conferenza stampa di certo non ha rasserenato gli animi». Dell'Inter che chiama Antonio Conte, suo nemico storico?«Nell'Inter si fondono spirito aziendale dei nuovi proprietari e identità italiana. È una società che non si abbandona alla lagna, ma si rimbocca le maniche e prende un allenatore per vincere, come fece nell'87 ingaggiando Giovanni Trapattoni dalla Juventus».Il più grande calciatore italiano.«Direi Roberto Baggio».Il più grande in assoluto?«Maradona. Se il metro di misura è chi ha fatto vincere squadre che altrimenti non avrebbero mai vinto, Napoli e Argentina sono due prove sufficienti».Il più grande allenatore.«Helenio Herrera. Un risultatista che ha cambiato la storia del calcio non solo italiano. Si dice ancora oggi “l'Inter di Herrera"».
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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