2018-12-12
I renziani si spaccano, ma la politica dei tre forni salverà le poltrone
Alle primarie contro Nicola Zingaretti sia Maurizio Martina sia il duo formato da Roberto Giachetti e Anna Ascani. Senza contare un futuro partito del Bullo. Il piano è separarsi per colpire uniti.Il sindaco di Firenze a pochi mesi dalle elezioni cerca alleati. Dopo il voto ci saranno le nomine di Polimoda, Camera di commercio, Confindustria e Fondazione Cassa di risparmio.Lo speciale contiene due articoli.Oggi dunque si parte: il congresso del Pd apre ufficialmente i battenti, e questo pomeriggio scade il termine ultimo per presentarsi alle primarie. In vista di questo appuntamento, dopo tante voci incontrollate che lo vedevano di nuovo protagonista, Matteo Renzi stavolta ha fatto sapere che non sarà della partita con un colloquio al Corriere della sera. Tuttavia anche Marco Minniti si è definitivamente ritirato, e gli uomini fedeli all'ex presidente del Consiglio adesso sono tatticamente in rotta, e per di più divisi in due (se non in tre). In primo luogo tra chi vorrebbe convergere su Maurizio Martina e tra chi invece vuole provare la carta di una candidatura «identitaria» con un inedito ticket «turborenziano» tra Anna Ascani e Roberto Giachetti. E poi tra chi medita di uscire dal partito, magari dietro al lider maximo, inseguendo l'idea della palingenesi (e di un nuovo inizio) con una nuova formazione di «cittadini» di ispirazione «macroniana». Ma alla fine - come vedremo - ognuno di questi percorsi apparentemente discordi potrebbe avere la sua utilità, consentendo, agli uomini che fino ieri governavano il partito, di marciare divisi per colpire uniti. Scopriremo solo negli ultimi minuti utili di stasera, quindi alle 18, se la proposta del ticket Giachetti-Ascani è destinata a prendere davvero corpo (dividendo la componente) o se la ex maggioranza farà quadrato dietro a Maurizio Martina, con un fronte comune contro il governatore del Lazio.Intanto contano le regole. Per presentare un candidato alle primarie servono comunque 1.500 firme e Dario Corallo, il giovane outsider che in questi mesi ha faticato molto per metterle insieme, ironizza: «Spero proprio che a nessuno venga in mente di usare i moduli già compilati, quando chiedevano la firma per Minniti, riciclandoli per far correre un ticket improvvisato all'ultimo minuto». Ovvero: dal momento che la decisione sarebbe stata presa solo ieri, come si può pensare che 1.500 firme possano essere raccolte in un giorno solo? Misteri. In ogni caso una parte dei maggiorenti della corrente di Renzi ha già deciso di convergere sul segretario uscente, producendo un primo paradosso politico. Martina solo un anno fa aveva una linea opposta a quella dell'ex premier e fu fermato brutalmente da Renzi con un intervento televisivo da Fabio Fazio (mentre lavorava a un accordo con il M5s). Oggi invece lo stesso uomo è diventato nemico di quella linea: «Se casca il governo», dice ora, «io di accordi con il M5s non ne faccio». Il motivo di questo ribaltone? Semplice: nel Pd in questi mesi tutto accade per contrario, se non altro rispetto ai criteri della logica e del senso comune. E quindi, visto che Nicola Zingaretti attualmente governa nel Lazio con il M5s ed è implicitamente il meno ostile a quella linea, Martina deve «spostarsi» e smentire sé stesso, per poter raccogliere i voti di chi ha fatto battaglia insieme a Renzi (e contro di lui) opponendosi alla linea del dialogo. D'altra parte anche Zingaretti ha oscillato sul punto delle alleanze, su cui è stato attaccato durissimamente dai renziani: questa estate le aveva considerate possibili. Poi le ha scartate. Mentre due giorni fa il dibattito si è riaperto quando un fuoco di sbarramento si è aperto contro Massimiliano Smeriglio, che di Zingaretti è il vice alla Regione Lazio.Smeriglio ha avuto il coraggio di dire esplicitamente, in un'intervista al Manifesto, quello che nel Pd molti pensano da tempo senza trovare la forza di sostenerlo apertamente. E cioè che, come pensa il vice di Zingaretti, «piaccia o non piaccia con il M5s ci si deve governare». Aggiunge Smeriglio quando lo sento: «La vocazione maggioritaria del Pd ormai è una pia illusione: un partito che viaggia intorno al 17% può evitare di porsi il problema delle alleanze? Io non credo». Smeriglio aggiunge un altro punto: «Dicendo no a qualsiasi dialogo si finisce per proclamarsi contro il governo gialloverde, ma di favorire, di fatto, per mancanza di alternative, un governo neroverde. Ovvero», conclude il proconsole di Zingaretti, «il ritorno di Silvio Berlusconi in maggioranza. Nelle Regioni sarà già così. Sono sicuri di volere questo obiettivo?». Ma la divisione della corrente renziana ha anche obiettivi tattici più immediati e prosaici della linea politica di lungo periodo. E a spiegare cosa sta accadendo è ancora una volta il giovane Corallo, uno che non ha peli sulla lingua: «Stanno perdendo pezzi, stanno perdendo il controllo del partito, e così litigano brutalmente tra di loro perché i posti di potere da spartire adesso scarseggiano. Dividendosi», aggiunge il giovane dem, «gli ex renziani finiscono per tenere aperti tre forni in vista delle candidature per le Europee: alcuni si garantiscono da soli con il ticket dei turborenziani, altri si fanno garantire da Martina, qualcun altro pensa a eleggersi da solo in una lista esterna al Pd».Anche perché le prossime Europee saranno un test di sopravvivenza importante. «Questi sono morti che camminano», conclude Corallo, «e sanno che senza poltrona non vanno da nessuna parte». Questa sera alle 18 scopriremo se la strategia delle diverse candidature e del ticket è realizzabile.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-renziani-si-spaccano-ma-la-politica-dei-tre-forni-salvera-le-poltrone-2623117559.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pure-nardella-inizia-a-smarcarsi-e-a-ridisegnare-la-mappa-del-potere" data-post-id="2623117559" data-published-at="1758007540" data-use-pagination="False"> Pure Nardella inizia a smarcarsi e a ridisegnare la mappa del potere «Io non lascio il Pd». In Toscana ci potresti costruire un movimento con quelli che hanno messo le mani avanti per avvertire che, con un eventuale nuovo partito di Matteo Renzi, anche no, grazie. È una fuga, cominciata un paio di mesi fa con Rosa Maria Di Giorgi, ex pasdaran renziana e vicepresidente del Senato. Il bagliore di una scissione, ancorché abbassato di intensità, è stato il pretesto per smarcarsi dagli obblighi dell'obbedienza. Dall'ex segretario regionale Dario Parrini al sindaco di Prato Matteo Biffoni, renziani che più di così non si può. E soprattutto il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che è stato fin qui prigioniero del renzismo, condannato a osservare il patto con il diavolo. In realtà fra Renzi e Nardella non c'è mai stato grande feeling. Due personaggi diversi nel carattere, nella storia personale, nel passo. Ora che l'ex premier ha mezzo piede fuori dal Pd, Nardella brinda, perché potrà ridisegnare di testa sua, senza dover rendere conto all'ex ingombrante pigmalione, la mappa del potere nella città che spera di governare per altri cinque anni (le elezioni saranno a maggio 2019). Il riposizionamento è cominciato. Per prima cosa Nardella ha rinviato le nomine più significative a dopo il voto, così avrà la possibilità di utilizzarle per creare alleanze in campagna elettorale. Per ora è sicuramente in vantaggio, tanto più finché non si profileranno all'orizzonte altri candidati del fronte alternativo, cioè centrodestra, Lega e grillini. Questo significa anche che, gira e rigira, i nomi per le poltrone calde sono quasi sempre i soliti, eredi di sé stessi, farina del sacco di centrosinistra. Tutti aspettano di vedere che cosa succederà a livello politico, che fine farà il Pd, se la Lega o il M5s occuperanno davvero le posizioni strategiche. Così per ora è saltata anche quella che poteva essere l'unica poltrona prima della nuova era, cioè il vertice di Polimoda, la scuola per futuri designer di cui fanno parte istituzioni e categorie economiche della città. L'assemblea dei soci lunedì scorso era pronta a confermare presidente Ferruccio Ferragamo, che è lì da 12 anni ma è anche l'imprenditore fiorentino più famoso nel mondo. Erano pronti a votare per lui il sindaco Nardella, il presidente degli Industriali Luigi Salvadori e il presidente della Fondazione Cassa di risparmio, Umberto Tombari, noto per essere il titolare dello studio legale per cui ha lavorato Maria Elena Boschi e anche membro del cda della Salvatore Ferragamo spa. Ferragamo è stato congelato dal contenzioso con altri due soci pubblici, fra i principali finanziatori di Polimoda: Antonella Mansi, vicepresidente nazionale di Confindustria e presidente del Centro di Firenze per la moda, e Leonardo Bassilichi, presidente della Camera di commercio, a caccia, anche lui, di una riconferma per il prossimo mandato. Bassilichi e Mansi insistono perché venga rispettato il decreto trasparenza, che prevede l'obbligo di dichiarare lo stato patrimoniale per chi ricopre incarichi nelle società partecipate o controllate; Ferragamo insiste, invece, nel suo rifiuto: non vuole svelare né il curriculum né la dichiarazione del redditi. Le scorie sembravano superate con un'astensione dei contestatori, ma a sorpresa il voto è slittato, con la scusa di una riorganizzazione della scuola. In realtà la diatriba, sulla quale è intervenuto anche il capo dell'Anticorruzione Raffaele Cantone dando ragione a Bassilichi, non è stata ancora chiarita, perché nessuno dei soci si vuole prendere la responsabilità di consentire a Ferragamo di collocarsi al sopra della legge. Il giro di valzer è un labirinto. Una specie di catena di Sant'Antonio. Un vero intreccio di potere che si scambia sostegno reciproco, che si dovrà impossessare di Firenze nel prossimo quinquennio, con il quale lo stesso Nardella dovrà confrontarsi se resterà sindaco. Bassilichi è in scadenza alla Camera di commercio ma aspira a succedere a sé stesso. Se il giochetto dei veti con le altre categorie economiche, soprattutto Cna e Confesercenti, glielo consentirà, cioè se saprà respingere l'attacco del presidente di Confesercenti Firenze Claudio Bianchi. Stesso discorso vale per il presidente di Confindustria Luigi Salvadori. Lui però aspira a prendere il posto di Tombari alla Fondazione Cassa di risparmio, la cassaforte della città. Non c'è ancora un nome per la presidenza degli Industriali. È la nomina più rappresentativa, e per questo preme a Nardella. Confindustria non è più il «circolo del burraco», come la incorniciò Renzi. Tanto più che gli industriali hanno un ruolo strategico anche per la scelta del presidente della Camera di commercio, perciò vengono trattati con i guanti bianchi da Bassilichi. È una giostra dalla quale non scenderà nessuno. Nemmeno il presidente uscente, per assenza di poltrona, della Banca Cr Firenze, che ormai è Intesa Sanpaolo e sta a Torino. Giuseppe Morbidelli, docente di diritto amministrativo alla Sapienza, per ora non ha una ricollocazione, ma sogna di restare in gioco spostandosi alla Fondazione Crf, dove però è già in corsa Salvadori. In fondo c'è posto per tutti, basta aspettare. E magari sapersi accontentare. Cambiano le stagioni ma i sistemi restano gli stessi.
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