
Stefano Esposito, senatore dem, propose di rivedere gli accordi che consentivano ai signori delle infrastrutture di controllare sé stessi. Il tentativo fallì, si oppose persino la Cgil.Ad aiutare la famiglia Benetton a costruire quella formidabile macchina da soldi chiamata Autostrade per l'Italia non è stata solo la politica, con la privatizzazione pagata a prezzo di saldo e con l'allungamento fino al 2042 della concessione. No, a consentire al gruppo di Ponzano Veneto di guadagnare ancor più quattrini di quelli messi in tasca nei primi 15 anni (9,5 miliardi di utili, in gran parte distribuiti ai soci sotto forma di dividendi) ci ha pensato anche il sindacato, che mentre in Parlamento c'era chi voleva mettere un argine allo strapotere della lobby del casello si mise di traverso, organizzando cortei e manifestazioni. Lo ricorda bene Stefano Esposito, senatore del Pd e vicepresidente della commissione Trasporti di Palazzo Madama, perché fu lui ad andarci di mezzo, finendo nel mirino di Cgil, Cisl e Uil. La storia ha un precedente, che risale al 2014, quando al governo c'era Enrico Letta e al ministero delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Nella cosiddetta legge «Sblocca Italia» fu inserita una norma che prevedeva il rinnovo automatico delle concessioni. In pratica, in base al nuovo codicillo il già favorevolissimo contratto con cui lo Stato concedeva ai privati di gestire la rete autostradale sarebbe stato prolungato senza discussioni e, soprattutto, senza gara. Un favore ai Benetton, ai Gavio e a tutti i gestori, che in questo modo avrebbero potuto continuare a fare soldi senza alcuna concorrenza, tenendosi gran parte del malloppo incassato con i pedaggi.La norma favoriva i concessionari ma faceva a pugni con le regole europee, che impongono di mettere all'asta il servizio. Dunque, un paio d'anni dopo in Parlamento, mentre era in discussione il codice degli appalti, si cercò di porre rimedio, introducendo le regole di Bruxelles, cioè assegnando le concessioni con una gara europea e togliendo il privilegio a chi se le era viste regalate senza concorrenza. Apriti cielo. Alla Camera e al Senato si scatenò la bagarre, perché ovviamente ai concessionari (leggi Benetton e Gavio) non piaceva affatto che qualcuno gli sfilasse dalla bocca l'osso conquistato. A Esposito, il senatore del Pd di cui sopra, allora venne l'idea di mettere all'asta i lavori di manutenzione. Convinto che il vero business non stia nei pedaggi, ma nelle opere che i concessionari si fanno in casa con aziende loro, guadagnando dunque due volte, con le autostrade e anche con le imprese addette agli interventi, Esposito propose di applicare le regole europee sugli appalti. Secondo Bruxelles, il 60 per cento della manutenzione deve essere fatto da terzi, lasciando ai concessionari il 40. Esposito presentò un emendamento che fissava all'80 per cento i lavori con gare pubbliche e al 20 quelli gestiti in casa. Sarebbe stato un modo per controllare i costi, ma soprattutto per avere una vera concorrenza sulle opere di manutenzione. Se infatti il concessionario è anche colui che guadagna sugli interventi, è difficile che li controlli e ancor più difficile che contesti i lavori eseguiti se non sono a regola d'arte. Quando lancia l'idea Esposito sa bene che le società di manutenzione sono un business per i concessionari. Gavio ha Itinera, Autostrade invece ha Pavimental, ma l'elenco di fornitori che si possono trovare in casa è lunghissimo e qualche volta dietro le società che realizzano la manutenzione ci sono gli stessi dirigenti delle autostrade, che cambiano cappello a seconda della convenienza. «Quando proposi di mettere a gara l'80 per cento dei lavori cominciò l'inferno», ricorda oggi Esposito. «Pezzi di Forza Italia e Pd provarono a far cambiare l'emendamento, ma io tenni duro». Il senatore racconta anche di un incontro piuttosto sgradevole con Giovanni Castellucci, l'amministratore delegato di Autostrade: «Mi disse che avrebbe licenziato tutti i lavoratori delle imprese addette alla manutenzione. Io replicai dicendo che non avrei accettato ricatti». Risultato, l'emendamento andò avanti: 80 per cento dei lavori messi a gara e solo il 20 fatto in casa, un anno per mettersi in regola. Falliti i tentativi di modificare la norma, Castellucci tenne fede alla minaccia. Le aziende annunciarono il licenziamento di 8.000 dipendenti. Tra Tortona e Alessandria, patria dei Gavio, ci furono cortei e blocchi stradali. «C'erano cartelli con scritto “Esposito affamatore di lavoratori"» ricorda il senatore Pd. «Per la prima volta in vita mia vedevo il sindacato attaccare un terzo anziché le imprese che mandavano a casa i dipendenti».Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, convocò un tavolo di mediazione, Paolo Gentiloni chiamò Esposito per manifestargli i dubbi del governo e del partito. «In Parlamento si mobilitarono in tanti», racconta oggi Esposito, «dai 5 stelle a Forza Italia, tutti uniti per difendere gli interessi dei concessionari. Uno dei pochi che trovai al mio fianco fu Altero Matteoli, l'ex ministro di Silvio Berlusconi». A questo punto, rendendosi conto di essere in minoranza nel suo stesso gruppo, Esposito capì che il boccone era troppo grosso perché le società di gestione delle autostrade mollassero la presa. Un miliardo e mezzo, forse addirittura un miliardo e ottocento milioni da spartirsi con la manutenzione. Alla fine dunque cedette e tornò alle norme europee: 60 a gara e 40 per cento lasciato alle aziende di proprietà degli stessi concessionari. Ovvero, manutenzione fatta in casa. Il controllato che si fa controllore.«Quei mesi del 2017 mi sono rimasti impressi», ricorda ancora Esposito. «Gavio me ne disse di tutti i colori». Ma anche il sindacato. Alle ultime elezioni, durante un'assemblea dei lavoratori di Ativa, la società che gestisce la tangenziale di Torino, città da cui il senatore Pd proviene, il sindacalista di turno si sentì in dovere di dire che avrebbero sostenuto Piero Fassino, ma non Esposito, nemico dei lavoratori per aver provato a toccare il tesoro dei concessionari autostradali. Già, perché la lobby del casello non perdona e ha un sindacato per amico.
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