
I «drag kid» rappresentano l'ultima frontiera del gender: minorenni come Jack o Desmond con migliaia di seguaci online.Se lo scrittore Vladimir Nabokov pubblicasse oggi il romanzo Lolita, nel quale celebrava come oggetto sentimentale ed erotico l'omonima dodicenne, come minimo il terrorismo femminista del Me too lo farebbe arrestare in quanto propagandista di «porcismo» maschile eterosessuale. Ma se un piccino ammiccante più di Lolita e di una pornostar messe assieme si dichiara gay, transgender o gender fluid e serve e onora i relativi movimenti (fratelli di pensiero progressista del Me too) presso i media e i social network, allora l'erotizzazione è cosa buona e giusta. In questo caso, l'essere umano non è ridotto ad oggetto da un sistema che lo usa a suo comodo. Lo statunitense Desmond Napoles, nome d'arte Desmond is amazing, compie undici anni questo mese, si definisce esplicitamente gay, nonché la prima drag kid (sarebbe la versione infantile della drag queen) al mondo. Naturalmente, è diventato un'icona del mondo Lgbt, del quale egli stesso si definisce «advocate». Sul suo profilo Instagram - gestito dalla madre, con indirizzo mail del management bello in vista - ha quasi sessantamila follower. Fotografie e video mostrano Desmond sempre ipertruccato e con lo sguardo supersexy, naturalmente vestito di abiti femminili, dalle minigonne ai lunghissimi abiti da sera, spesso con tacchi che spaziano dall'alto all'altissimo, pellicce, cappelli, gioielli e borsette. Conciato così, macina performance (immaginiamo a pagamento) per i più svariati eventi, dalla festa di compleanno della bambina che compie cinque anni alla sfilata in passerella alla New York Fashion Week del febbraio scorso per Gipsy Sport e Dope Tavio, ingaggio che lo ha portato a comparire anche su Vogue. Un nume sempre evocato nei suoi post è la drag queen americana Ru Paul e un hashtag ricorrente nei post di Desmond è «boys in make up», ragazzi truccati, che già procura abbastanza tristezza quando a usarlo nelle proprie fotografie sono ragazzi truccati maggiorenni, figuriamoci quando il ragazzo in questione ha poco più di dieci anni ossia non è un ragazzo, è un bambino. No, Desmond, a dispetto del suo nickname, non è per niente fantastico. Esattamente come non lo è Jack, altro bambino no gender, un britannico da quasi cinquecentomila follower su Instagram, che si definisce «face doodler» e specifica anch'egli che il profilo è gestito dalla madre. Jack ha anche un canale Youtube nel quale mostra i tutorial di trucco (che spalma su sé stesso). Più inquietante del vedere l'intero armamentario estetico della seduzione femminile spiaccicato in faccia ad un decenne, sono i commenti degli adulti, donne soprattutto, che si sperticano in lodi sul talento da truccatore del piccino. A nessuna viene in mente di dirgli che fanno impressione le unghie di plastica incollate sulle manine di un bimbo, così come le ciglia finte che cancellano completamente l'innocenza che il suo sguardo dovrebbe veicolare. Nemmeno passa per la testa, evidentemente, alla madre. Questi bambini sono identificati come portatori in età pediatrica di disturbo dell'identità di genere, un concetto «ombrello» che racchiude molte possibilità: ci si sente dell'altro sesso, si vuol mutarlo transando al genere interiore oppure no, ci si sente del proprio sesso e dell'altro alternativamente, ci si sente di nessun sesso. Ma la domanda è: è giusto che di fronte a questi disturbi in così precoce età ci si preoccupi così tanto solo dell'aspetto antidiscriminatorio? Ed è poi giusto che il bambino, per non essere discriminato, debba essere trasformato in una sorta di piccolo Dio della confusione che gli alberga dentro e portato in processione davanti a un pubblico adulto che, se la vetrina è il social network, è praticamente il mondo intero? Vogliamo davvero fingere che la pedofilia gay non esista? Sono bambini, dovrebbero andare a scuola, giocare e godersi un'età spensierata, nella quale essere ciò che si sentono di essere, certo, ma conciarsi come gli adulti che sculettano sui carnascialeschi carri dei Gay Pride e posare come Kim Kardashian in miniatura non è molto lontano dalla pedofilia eterosessuale che la nostra società, a ragione, condanna e punisce amaramente. Ma essendo che questi sono bambini Lgbt, si può anzi si deve fare. È giusto che il diverso terreno culturale, omosessuale ratifichi ciò che in ambito eterosessuale vietiamo? La vera Kim Kardashian è un'adulta ben presente a sé stessa. Ciò nonostante, il pensiero unico radical chic, artefice della dittatura del gender, la considera una donna oggetto al servizio del maschilismo. Asia Argento disse, qualche mese fa: «Non voglio cadere sulla politica, ma tanti anni di visione berlusconiana della femmina hanno portato all'umiliazione della donna». Beh, bisognerebbe riflettere sulla visione gay della femmina e del bambino. Una visione secondo cui bambini di nove o dieci anni devono essere i nuovi testimonial della rivoluzione gender intenta a cancellare la dicotomia maschile e femminile, già a partire dall'infanzia. Cioè il momento in cui un bambino dovrebbe pensare a tutto, tranne che a quale sesso lo attragga e a quale sesso appartenga. Si criticò Shirley Temple, perché la recitazione le avrebbe rubato l'infanzia, si criticò Suri Cruise, la figlia dell'attore Tom Cruise, perché la mamma consentiva che indossasse scarpine con un pochino di tacco e piccole borsette. Però, un bambino maschio conciato come un travestito e sbattuto al pubblico sguardo va bene.
Giovanni Gastel, 4 colori almeno! copertina per rivista Donna, marzo 1982/Archivio Giovanni Gastel
Alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo (PR) una mostra che racconta l'Italian Style dal 1950 agli anni 2000. In un intreccio di moda, fotografia e pubblicità, esposte (sino al 14 dicembre 2025 ) oltre 300 opere, fra cui iconiche campagne pubblicitarie di Armando Testa e Olivieri Toscani e straordinari scatti di Giovanni Gastel e Gian Paolo Barbieri.
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Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso sull’ineleggibilità immediata della leader del Rn. L’Ue intanto bacchetta Parigi.
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Nicola Petrosillo in commissione: «Dal farmaco previsto dai protocolli zero effetti sul virus. E io, come medico, lo do pochissimo».