2022-04-02
I «migliori» hanno creato profughi di serie B
Pasticcio del governo: in base al dpcm sull’accoglienza degli sfollati, chi è scappato dall’Ucraina anche solo pochi giorni prima che iniziasse l’invasione non è considerato rifugiato, ha il passaporto bloccato, non riceve l’assegno mensile e non può lavorare.Ci voleva il «governo dei migliori», per combinare guai persino con i profughi ucraini. Stavolta, essendo implicato un decreto del presidente del Consiglio, la figuraccia porta direttamente la firma di Mario Draghi. Grazie al quale scopriamo che, per l’Italia, esistono gli sfollati «anteguerra» e quelli «postbellici». Con trattamenti giuridici completamente differenti.È stata la signora Irina Andriukhina, originaria di Kiev, a spiegare ad Adnkronos l’ultimo pasticciaccio brutto dell’esecutivo: accogliere con tutti i crismi chi è scappato dal conflitto, dimenticando i poveretti che hanno lasciato la loro terra appena prima dell’invasione russa. «Il governo», ha raccontato l’Andriukhina all’agenzia stampa, «ha fatto uscire l’articolo 20» del testo unico sull’immigrazione, «in base al quale viene rilasciato il permesso di soggiorno per un anno come rifugiato di guerra ai cittadini ucraini». Tecnicamente, il riferimento è alla fattispecie della protezione temporanea, che il dpcm del 29 marzo scorso accorda agli sfollati dell’Est, a decorrere dal 4 marzo. Peccato che la disposizione si applichi solo a chi ha lasciato il Paese «a partire dal 24 febbraio», cioè dal giorno in cui Vladimir Putin ha iniziato la cosiddetta «operazione speciale». Per gli altri, valgono regole diverse. Quali altri? Semplice: gli ucraini che sono arrivati in Italia uno, due, tre, quattro giorni prima che scoppiasse la guerra, magari perché fiutavano la malaparata e avevano già dei parenti cui ricongiungersi qui. A costoro, ha raccontato la signora Irina, «non viene rilasciato questo tipo di permesso», cioè quello di 365 giorni «e sono costretti a richiedere asilo politico in base all’articolo 19, con il conseguente ritiro del passaporto e l’impossibilità di rientro in patria. Ma non solo, perché non hanno diritto ad alcun tipo di aiuto come gli altri profughi ucraini arrivati in Italia dal 24 di febbraio e non possono lavorare». Se non altro, essendo decaduto l’obbligo di green pass nei negozi, potranno andare a comprare la biancheria di ricambio - però con i soldi dei parenti, non avendo diritto al contributo. È una situazione talmente surreale, che è meglio ricapitolarla. Al transfuga di Kharkiv, giunto in Italia dal 24 febbraio in avanti, garantiamo un permesso di soggiorno valido 365 giorni e 300 euro al mese per 90 giorni, più 150 euro per ciascun figlio minorenne, se si procura da sé una sistemazione. Altrimenti, viene destinato a uno dei 15.000 posti messi a disposizione dal sistema di accoglienza diffusa, grazie all’intervento repentino della Protezione civile. Al contrario, il rifugiato che è scappato 24 ore prima dell’inizio delle ostilità incassa, come i genitori dell’Andriukhina, stabilitisi a Pontedera in anticipo di due giorni sull’invasione, un permesso da turista di 90 giorni, scaduti i quali deve ottenere per forza il riconoscimento dell’asilo politico. Nel frattempo, non becca un quattrino e non può nemmeno sbarcare il lunario con un lavoretto. Senza passaporto, inoltre, gli è preclusa financo la possibilità di riandarsene in Ucraina. È un dettaglio non trascurabile, poiché, come ha segnalato il responsabile della gestione dei rifugiati nella regione di Lviv, Vlodymyr Kvurt, «c’è un fenomeno di rientro di profughi in Ucraina». Si tratterebbe di «migliaia di persone», provenienti pure dall’Italia, per lo più «madri che hanno deciso di tornare a casa, laddove possibile, per essere vicine ai propri figli», costretti a rimanere al fronte. La signora Irina assicura che il problema degli ucraini «antebellici» riguarda molti suoi connazionali. In realtà, non è dato sapere, di preciso, quanti di loro stiano sperimentando sulla propria pelle i risvolti kafkiani della burocrazia tricolore. Abbiamo chiesto al Viminale dei numeri, ma al ministero di Luciana Lamorgese, gli unici numeri che comunicano sono quelli complessivi. Eccoli: 79.047 persone scappate fino a oggi dal conflitto, di cui 75.816 alla frontiera e 3.231 controllate dalla Polfer del Friuli Venezia Giulia. Parliamo di 40.780 donne, 7.800 uomini 30.467 minori, con un aumento di 1.026 ingressi nella giornata di ieri. Difficile altresì quantificare il fenomeno dei rimpatri: quasi quasi, viene da rimpiangere la meticolosità dei bollettini Covid. Quanto agli aspetti logistici, un primo allarme l’ha lanciato l’insospettabile Beppe Sala, sindaco di Milano: con questo ritmo di arrivi, ha ammesso, «fra due o tre mesi il problema» di gestire gli ospiti si presenterà eccome. A ben vedere, l’imbarazzante discriminazione tra sfollati dall’Ucraina non è l’unica disparità in atto. Di guerra, ahinoi, non c’è solo quella tra Mosca e Kiev. A un rifugiato che sbarchi qui, poniamo, dallo Yemen bombardato dai sauditi, o a uno proveniente dal Darfur, quanto denaro consegneremmo per l’autonoma sistemazione? E, per un altro verso, mentre abbiamo a lungo affollato i centri d’accoglienza con migranti che scappavano da conflitti più presunti che reali, oggi stiamo facendo i preziosi con quegli ucraini, rei unicamente di essere partiti prima che Putin sganciasse le bombe. A questi ultimi, il governo non ha ancora dato una risposta. Magari, i «migliori» non s’erano neppure posti il problema. Vogliono provvedere in autonomia, o dovranno affidarsi a una task force guidata da Irina Andriukhina?
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