2019-03-25
I magistrati preferiscono l’impunità per i disobbedienti amici di Casarini
Al centro sociale Pedro di Padova, dove si «formò» l'antagonista, abbondano i condannati in primo grado. La Procura di Venezia, però, tiene fermi i processi d'appello: «Temiamo sembri una persecuzione politica».Riapparso con abbronzatura e barbetta da vecchio lupo di mare, indovinata sintesi tra Capitan Findus e Giorgio Soldini, Luca Casarini ha ripreso il posto che gli spetta: il centro dal proscenio antagonista. Stavolta l'irriducibile disobbediente s'è reinventato capo missione del peschereccio Mare Jonio. Ha così intrepidamente tratto in salvo 49 migranti. La procura di Agrigento l'ha però indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e per aver disatteso l'ordine di spegnere i motori. Quisquilie. Carezzine. Medagliette. Lui, impavido, tira dritto. Volete che si lasci spaventare dall'ennesima inchiestina? In trent'anni di onorata carriera è stato accusato di una caterva di reati: violenze, oltraggi, occupazioni, devastazioni, invasioni, deturpamenti, interruzioni di pubblico servizio. Eppure, come ha raccontato La Verità, su nove condanne definitive ne ha scontate appena due: un mese ai domiciliari e tre ai servizi sociali. Grazie, soprattutto, a un profluvio di indulti e condoni. La giustizia italiana però non è stata benevola solo con il neoprotettore dei migranti. Ne sanno qualcosa alla Procura di Padova. Antefatto: negli ultimi anni, i magistrati veneti hanno condannato decine di baldanzosi esponenti del centro sociale Pedro, il più antico e indomabile del Nord Est. Lo stesso in cui s'è fatto le ossa il prode Casarini. Aggressioni e lesioni contro politici, poliziotti e giornalisti, occupazione di interi stabili, piazze messe a ferro e fuoco, contestazioni selvagge. Non proprio bagattelle. Ma le sentenze di primo grado sono rimaste figlie uniche. Così due mesi fa, esasperata dai continui rinvii, la Procura di Padova ha scritto una puntutissima missiva alla Corte d'appello di Venezia, segnalando sei fascicoli pendenti da anni: «Il procrastinare della decisione di secondo grado, con il noto pericolo di prescrizione, viene di fatto a dare l'impressione di impunità e a rafforzare i propositi criminosi reiterati». I magistrati chiedono dunque «una celere trattazione, possibilmente unitaria». Insomma: per i compagni del Pedro, viene paventata l'immunità. La Corte d'appello risponde mettendo un fiore nei cannoni. Accorpare i procedimenti sarebbe problematico: «Potrebbe generare la sensazione, ovviamente non fondata, di una selezione dei processi da trattare in via prioritaria o con modalità esemplari sulla base di opzioni di tipo politico». Adelante con juicio, quindi. Alcune sentenze però risalgono addirittura a quattro anni fa. La prima è addirittura dell'aprile 2015. Nove attivisti del Pedro sono condannati per tumultuosi scontri davanti alla stazione ferroviaria di Padova. Durante uno sciopero generale contro l'allora governo Monti, un gruppo di no global si stacca dal corteo della Cgil. Vuole occupare i binari. I poliziotti cercano di evitarlo. Mal gliene incoglie. Cominciano gli scontri. Gli attivisti si mettono a Ianciare sassi, bombe carta e petardi. Tre agenti vengono feriti da un ordigno esplosivo. Le indagini dei pm padovani, Sergio Dini e Federica Baccaglini, accertano le responsabilità. E ad aprile 2015, per nove compagni, arriva la sentenza di primo grado. Passa appena un mese. Quattro «pedrini» vengono nuovamente dichiarati colpevoli per le delicatezze riservate ad Alberto Giorgetti, all'epoca consigliere provinciale di centrodestra, e Alberto Gottardo, collaboratore del Corriere del Veneto. Manifestazione antiproibizionista in piazza delle Erbe, a Padova: il malcapitato Giorgetti, ora consigliere regionale, viene accolto da schiaffi e spruzzi di birra. Mentre il cronista, reo di aver vergato un pezzo poco gradito, è raggiunto da sputi e insulti. Simili raffinatezze convincono i giudici a condannare, ad agosto 2015, altri quattro aderenti del Pedro. Stavolta, con innegabile ardore e creatività, i compagni riversano le loro attenzioni su Alessio Tarani, leader padovano di Casapound, colpevole di aver organizzato una mostra fotografica. L'uomo viene trascinato fuori dallo spazio espositivo, debitamente menato e cosparso di vernice rossa. Il quartetto se la cava con otto mesi di reclusione. Più sostanziose, invece, le pene inflitte, a maggio del 2016, alla sporca undicina che, a febbraio 2009, tenta di impedire la manifestazione di Forza Nuova in ricordo di Norma Cossetto, istriana infoibata nel 1943. Niente da fare. I poliziotti vengono affettuosamente salutati a suon di cariche, accompagnate dal lancio di petardi e bottiglie di vetro. Due agenti restano feriti. Ancora: a luglio 2016, sei indomiti no global, dopo le pesanti richieste del pm Dini, sono condannati per una sequela di scontri di piazza. Le garbate proteste all'università, in cui rimangono ferite due guardie giurate. L'indispensabile tafferuglio durante una visita dell'allora premier, Silvio Berlusconi. Il rispettoso assalto a un gazebo leghista. Sempre per restare in tema: tra i procedimenti rimasti sub iudice, c'è anche l'aggressione con calci e pugni a un militante del Carroccio. O la baraonda scatenata negli uffici dell'Ater, l'azienda padovana delle case popolari. Altra inchiesta arrivata a sentenza con reati non proprio bagatellari: interruzione di pubblico servizio, manifestazione non autorizzata, danneggiamento, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Eppure, niente. I fascicoli continuano a giacere in appello. E l'impunità paventata dai magistrati sembra che continui a dispiegare effetti. Nell'ultimo anno sono allegramente continuati violenze e oltraggi. E non solo da parte di Pedro. Il pm Dini ha appena chiuso le indagini per 13 compagni padovani del Comitato lotta per la casa, accusati di aver fatto sloggiare in malo modo dalla loro sede i disabili dell'associazione sordi Veneto. Tra gli inquisiti ci sono anche Davide Bortolato e Amarilli Caprio, già condannati per associazione sovversiva nell'inchiesta sulle nuove Brigate rosse. Altri undici attivisti del comitato, nato dalle ceneri del centro sociale Gramigna, sono intanto finiti sotto processo, ancora per occupazioni abusive. Nel 2017 erano stati arrestati in quattro. Misura poi revocata dal Tribunale del riesame di Venezia, con la seguente argomentazione: quando l'occupazione ha una valenza politica, beh, allora è «del tutto legittima». Adesso gli undici riottosi saranno comunque giudicati dal Tribunale di Padova. Che in passato, del resto, s'è riservato qualche bonarietà. Come decidere di sollevare dall'accusa di blocco ferroviario il solito Casarini, impegnato a fermare i treni che trasportavano materiali bellici nella base Usa di Camp Derby: «Ha agito per motivi di particolare valore morale e sociale». A dispetto di qualche assoluzione, il casellario giudiziale del capo missione della Mare Jonio resta piuttosto denso. Negli ultimi vent'anni, l'attuale segretario siciliano di Sinistra italiana, ha collezionato nove condanne definitive. Ne ha blandamente scontate soltanto due: un mese ai domiciliari e tre mesi ai servizi sociali. Tra indulti, condoni e attenuanti il resto è finito in cavalleria. Fiducia che la giustizia italiana sembra però aver mal riposto. Proprio lui, che negli anni Novanta aveva aperto l'Osteria allo sbirro morto, nel centro sociale Rivolta di Marghera. «Era solo sarcasmo sulla sbirragine…», filosofeggiò, meravigliato dal pandemonio creato. Adesso solca i mari a caccia di migranti. Ardito come sempre. Imperturbabile come il capitano durante la tempesta. Baldanzoso come uno che se la caverà pure stavolta.
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