
La magistratura francese dispone una perizia sulla salute mentale della leader del Rassemblement national. La sua colpa? Aver diffuso le immagini delle stragi dell'Isis. La replica: «Non ci andrò, che mi costringano pure». La solidarietà di Matteo Salvini.L'approccio psichiatrico al terrorismo jihadista non è affatto una novità. Ricordate? «Non è un terrorista, è solo uno squilibrato»: lo abbiamo sentito a margine di ogni attentato. Il fatto che dallo psichiatra fosse costretto ad andarci anche chi il terrorismo lo denuncia è invece un inquietante inedito storico. A inaugurare il nuovo corso, dal sapore vagamente sovietico, pare debba essere Marine Le Pen, a cui i giudici di Nanterre intendono imporre per l'appunto una visita psichiatrica. La colpa della leader del Rassemblement national (il partito erede del vecchio Front national) è aver diffuso on line delle immagini delle stragi dell'Isis. Le cose sono andate così: nel dicembre del 2015, il giornalista Jean-Jacques Bourdin invita nella sua trasmissione lo specialista del mondo arabo Gilles Kepel, autore del libro Terreur dans l'Hexagone. Nel corso della conversazione, il giornalista chiede se vi sia un «legame diretto tra jihadismo francese e avanzata del Front national». L'esperto risponde: «Sì, sono due fenomeni congruenti, che si somigliano». Un partito che raccoglie milioni di voti di onesti cittadini francesi e che fino a prova contraria non è responsabile di alcuna violenza sarebbe «congruente» con dei tagliagole efferati? Una lettura a dir poco folle. E infatti Marine non l'ha presa bene, parlando su Twitter di affermazioni «inaccettabili» e di «proposizioni immonde». Per poi aggiungere, subito dopo, altri tre tweet con immagini terribili di stragi dell'Isis, tra cui quella della decapitazione dell'americano James Foley, e l'hastag «Daesh, c'est ça!», lo Stato islamico è questo. Tanto è bastato affinché sul banco degli imputati ci finisse lei. «Foto mostruose. La signora Le Pen: incendiaria del dibattito pubblico, errore politico e morale, non rispetto delle vittime...», twittò per esempio Manuel Valls. Come se la mostruosità fosse far vedere le foto delle stragi, più che compierle.Ma tutto questo, dicevamo, accadeva nel 2015. Lo scorso primo marzo, da quei tweet è nata un'inchiesta. Il capo d'accusa è «diffusione di immagini violente». Ieri, la clamorosa novità: i giudici hanno chiesto per la leader del secondo partito di Francia (o primo, a seconda dei sondaggi e del momento) una perizia psichiatrica. Lo ha denunciato la stessa presidente di Rassemblement national: «Dai magistrati bisogna aspettarsi di tutto, credevo di aver visto tutto, e invece no». E ancora: «Per aver denunciato gli orrori dell'Isis attraverso dei tweet la giustizia mi sottopone ad una perizia psichiatrica. Fino a dove vogliono arrivare?». In allegato al tweet, l'ordinanza con cui il tribunale chiede l'esame psichiatrico. La perizia, vi si legge, deve verificare se «ella è in grado di comprendere e rispondere alle domande» e se «l'infrazione rimproverata al soggetto è in relazione con degli elementi fattuali o biografici dell'interessato». La Le Pen ha comunque fatto sapere che non intende in alcun modo sottoporvisi. «Non ci andrò, beninteso, aspetto di vedere come i magistrati mi costringeranno». Il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha commentato: «Una procura ordina una perizia psichiatrica per Marine Le Pen. Non ho parole! Solidarietà a lei e ai francesi che amano la libertà!».Il partito dei giudici, forte in Francia tanto quanto in Italia, difende tuttavia la decisione sulla base di tecnicismi giuridici. «Per questo tipo di infrazioni, così come per le infrazioni di natura sessuale, la perizia psichiatrica è richiesta sistematicamente. Essa permette al giudice di avere in mano tutti gli elementi per potersi pronunciare», ha spiegato Jacky Coulon, segretario nazionale dell'Union syndicale des magistrats, citato da Le Figaro. Secondo il codice penale francese, la misura sarebbe addirittura obbligatoria. Tale è infatti la procedura per coloro che sono accusati di aver violato l'articolo 227-24, ovvero quello che punisce chi sia beccato a «fabbricare, trasportare, diffondere con qualunque mezzo e supporto un messaggio di carattere violento, incitante al terrorismo, pornografico o di natura tale da portare grave offesa alla dignità umana o da incitare i minori a commettere giochi che li mettano fisicamente in pericolo». Un articolo che, lo si vede bene, ha poco a che fare con la presunta colpa di Marine. Che a finire sotto la lente dello strizzacervelli debba essere la persona che ha rischiato seriamente di diventare presidente della Repubblica non è peraltro un dettaglio. Marine Le Pen è un personaggio pubblico, se fosse pazza ce ne saremmo accorti. E del resto della sua sanità mentale non sembrano aver mai dubitato neanche i più accaniti avversari. Ma la questione, più che di merito, è soprattutto simbolica: qual è lo stato di salute di una democrazia che manda dallo psichiatra il capo del principale partito di opposizione, che alle ultime elezioni presidenziali ha preso 10.638.475 voti e che, se si votasse domani, starebbe probabilmente testa a testa con Emmanuel Macron? È davvero difficile non evocare la reclusione manicomiale dei dissidenti che era prassi comune nell'Unione sovietica. Ed è anche difficile immaginare che i giudici non abbiano tenuto conto di tutto questo, tanto che sospettare una volontà di umiliazione dell'avversario politico non appare del tutto peregrino. Il comunistissimo Jean-Luc Mélenchon, fra tanti, sembra averlo capito alla perfezione, se è vero che ha twittato: «Disaccordo totale con la psichiatrizzazione della decisione politica. La signora Le Pen è politicamente responsabile dei suoi atti politici. Non tutti i mezzi per combatterla sono buoni o accettabili. Non è con metodi simili che si farà rinculare l'estrema destra». Perizia anche per lui?
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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