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2018-11-22
«Ho visto i massacri in Iraq e dico: dialogare con l’islam è impossibile»
ANSA
Oriana Fallaci, che con l'islam aveva un conto in sospeso, da quando si strappò lo chador, per sfida, al cospetto di un irritante ayatollah Khomeini, diceva che non c'è un islam buono e uno cattivo: c'è l'islam e basta. Di recente lo ha ammesso anche il presidente turco Erdogan: non esiste un islam moderato. La Fallaci aveva chiuso il discorso alla sua maniera: «Con i fondamentalisti non è possibile trattare, ragionarci è impensabile, considerarli con indulgenza è un suicidio. Ergo: con loro siamo in guerra».
Terrorismo a parte, che è la punta dell'iceberg, chi fa le spese dell'islam sono i cristiani in tutto il mondo. Pensate alla storia di Asia Bibi, condannata a morte perché cristiana; è stata assolta dalla Corte suprema del Pakistan, eppure la piazza islamica la vuole morta. Ho incontrato un prete cattolico, un americano newyorkese di 50 anni, che vive a Firenze dove è cancelliere della Curia arcivescovile e cappellano della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Mario Alexis Portella è appena tornato dall'Iraq, dove è andato a parlare del suo libro (pubblicato in lingua inglese per una casa editrice americana) che s'intitola Islam, religione di pace? La violazione dei diritti umani e la copertura occidentale, nel quale sostiene che scambiare l'islam per una religione dalla doppia faccia è sbagliato: è una religione che ha come presupposto fondamentale lo sterminio degli infedeli. Non sono ammesse interpretazioni.
Che tipo di dialogo si può costruire con chi vuol vedere morta una donna, Asia Bibi, il cui crimine è aver offerto un bicchiere d'acqua ad altre donne musulmane?
«Non è un dialogo con una religione ma con coloro che parlano per una religione. Da quando Ataturk ha eliminato il Califfato, nel 1924, molti islamisti hanno colto l'opportunità di quel vuoto politico per rappresentare a modo loro il vero Islam. Parlo di capi di Stato e soprattutto degli imam. Siccome non c'è una autorità centrale che rappresenti tutto l'islam, è un po' difficile individuare un interlocutore».
L'islam non è una religione di pace, come sostengono tanti capi musulmani. Come può esserlo chi ordina feroci «guerre sante» di conquista, e atti di terrorismo spacciati come «meritorio martirio»? Eppure ci sono «coperture occidentali», di cui lei scrive nel suo libro. Perché?
«Le coperture ci sono per motivi economici: perché i cosiddetti petroldollari vengono prima di tutto; perché va salvaguardato l'approvvigionamento delle risorse naturali come il gas. In Occidente ragionano in termini di realpolitik, si limitano a un rapporto fra Stati, perciò sacrificano con troppa leggerezza i diritti umani. Per esempio: Donald Trump critica la religione islamica che ha generato il terrorismo, ma nel frattempo vende le armi all'Arabia saudita e alla Nigeria, cioè a due i Paesi che violano sistematicamente i diritti umani, non solo contro i cristiani ma contro il loro stesso popolo».
Don Portella, lei è americano ed è stato in Iraq, ha visto quanto i cristiani vengono perseguitati, ha visto chiese rase al suolo: che cosa si aspettano quei cristiani da noi occidentali?
«Da parte loro c'è una grande delusione, perché dal 2003, dalla caduta di Saddam e l'invasione statunitense, l'Occidente li ha lasciati in uno stato di anarchia politica. In diversi villaggi e città dove ancora abitano i cristiani, le milizie sciite e curde in gran parte sostenute dall'Iran, ufficialmente pensano alla sicurezza ma nella pratica non svolgono questo ruolo. Quindi i cristiani in Iraq hanno paura, perché sono molestati dai musulmani, che ora occupano i posti lasciati dai cristiani dopo l'Isis. Infatti i sacerdoti cattolici non possono dedicarsi al loro apostolato pastorale, perché sono impegnati in una continua lotta contro i governi locali e centrali».
Abbiamo detto che l'islam è una religione in guerra santa contro gli infedeli. Noi tutti siamo gli infedeli e siamo in pericolo. Eppure molti apologisti continuano a giustificare l'islam e a raccontare falsità storiche.
«Sono i testi islamici originali a dire la verità, quei testi che invece, esperti e attivisti, ignorano, accreditando la tesi che la religione sia interpretata male da chi predica terrorismo e l'islamizzazione del mondo. Non è così».
Mi faccia un esempio, don Portella.
«Basta leggere il comandamento di Allah nel quinto versetto della nona sura (l'ultimo capitolo fondamentale del Corano) che indica il comportamento da tenere con cristiani, ebrei ed altri non musulmani: “Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri dovunque li incontriate! Catturateli, assediateli e tendete loro ogni sorta d'insidie"».
Lei dice che è stata la debolezza dell'Occidente ad aver praticamente declassato i diritti di libertà, di parola e di religione, classificando come islamofobo chiunque metta in discussione le intenzioni degli islamisti.
«Qui bisogna distinguere. Musulmano è colui che si sottomette alla religione del profeta Maometto; islamista è invece un intellettuale, come l'imam, che sostiene di parlare per conto dell'islam. Ebbene, gli islamisti si sono infiltrati nei posti di governo e nelle lobby, come all'Onu, e da quella posizione strategica hanno potuto convincere i capi di Stato tramite la soft law, a criminalizzare qualsiasi critica contro l'Islam. E così possono diffondersi ancora di più».
Papa Francesco viene accusato dai suoi detrattori, di tradire la Chiesa con l'islam. Lei che ne pensa?
«Il Papa ha fatto bene a portare il Vangelo di Gesù Cristo al mondo islamico, come del resto hanno fatto i suoi predecessori Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. Ma il cristianesimo è basato sulla pace e l'amore di Dio, mentre l'islam giustifica gli omicidi e la guerra nei suoi testi sacri: è difficile individuare un percorso costruttivo da parte dei musulmani. È un problema più politico che religioso».
Francesco, tuttavia, invoca il dialogo attraverso una conoscenza reciproca fra musulmani e cristiani: come si può dialogare con chi non parla lo stesso linguaggio di pace?
«Il problema sono i suoi interlocutori. Quando il Santo padre incontra certi personaggi, come l'imam Ahmed El Tayeb, rettore emerito dell'Università Al Azar, che è l'università più prestigiosa del mondo sunnita, non può fidarsi di quello che gli dice: con lui l'imam parla di pace, ma quando torna in Egitto racconta un'altra cosa. Al Sisi stesso ha provato a convincere El Tayeb e il corpo religioso del mondo islamico a rivedere il Corano in modo storico, perché non si può continuare a giustificare la violenza attraverso i suoi versetti. Ma El Tayeb lo ha bloccato>.
C'è una via d'uscita credibile?
«Per aver un dialogo reciproco, occorre che gli imam che accolgono le parole del Corano in modo fondamentalista rivedano il testo. Soprattutto correggano gli hadiths, cioè quei racconti e insegnamenti del profeta che giustificano la violenza».
Da ciò che mi ha spiegato, capisco perché il discorso che papa Benedetto fece a Ratisbona abbia scosso certe coscienze: Ratzinger osservò che Maometto, dopo avere in gioventù ammesso la facoltà di scelta, una volta raggiunto il potere, impugnò la spada per convertire il prossimo. Aveva ragione.
«La reazione che ci fu per le sue parole, dimostra appunto che l'islam non tollera alcuna analisi critica».
Don Portella, che futuro hanno i cristiani in Iraq?
«Gli Usa ancora possono influire sulla politica del governo centrale iracheno, in modo che i cristiani abbiano gli stessi diritti dei musulmani e dei curdi. Detto questo, anche se gli iracheni cristiani non si fidano del governo americano, hanno in cuor loro una grande speranza: che la decisione del presidente Trump di ritirarsi dall'accordo nucleare sottoscritto da Obama, possa diventare una forma di pressione sul regime iraniano. Pressione anche economica. E che le milizie, alla fine, perdano la loro influenza e la smettano di perseguitare i cristiani».
Arrestato jihadista: «Pronto a morire nel nome dell’Isis»
Tra la notte di martedì e l'alba di ieri sono scattate in mezza Italia varie operazioni antiterrorismo, culminate con l'arresto a Milano, da parte degli uomini del Nocs, del ventiduenne egiziano Issam Shalabi. Il ragazzo, cui sono contestati i reati di associazione con finalità di terrorismo internazionale e istigazione e apologia di delitti di terrorismo, era un «soggetto accreditato presso l'Isis», come ha spiegato il capo della Procura nazionale antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho. Addirittura, Shalabi sarebbe stato «in contatto diretto» con i tagliagole e «autorizzato a disporre di comunicazioni che arrivavano dal comando del sedicente Stato islamico».
Gli investigatori hanno intercettato il giovane radicalizzato mentre, al telefono, senza esitazioni si proclamava «pronto a combattere e a fare la guerra». L'egiziano si vantava di aver ricevuto un approfondito addestramento militare e aveva scaricato dal Web decine di inni jihadisti, sermoni di imam estremisti e altro materiale propagandistico contrassegnato dal logo di Dabiq, la rivista dell'Isis. Shalabi si preoccupava poi di smistare il tutto ad altri proseliti, radunati attraverso applicazioni di messaggistica come Whatsapp e Telegram.
Proprio l'uso di «tecniche informatiche molto particolari», come le ha chiamate De Raho, ha consentito agli inquirenti, allertati da una segnalazione dell'intelligence risalente alla fine del 2017, di monitorare l'attività del sospetto terrorista. Nell'ambito della retata condotta tra Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Abruzzo sono finite sotto indagine anche altre due persone, alle quali il ministero dell'Interno ha già notificato i provvedimenti di espulsione dall'Italia.
L'inchiesta, durata diversi mesi, è stata coordinata dalla Dda dell'Aquila e il fermo è scattato proprio in seguito a un'ordinanza di custodia cautelare spiccata dal Gip del capoluogo abruzzese. Il ventiduenne egiziano, infatti, quando erano partite le indagini era domiciliato in provincia di Teramo, a Colonnella, un paese poco distante dalla riviera adriatica. Lì, Shalabi lavorava per una ditta che si occupava delle pulizie nel Mc Donald's locale. A giugno, il giovane si era trasferito a Cuneo e infine a Milano, dove aveva iniziato a lavorare in nero con un'azienda di bitumazione stradale.
L'arresto dell'aspirante martire della jihad riporta prepotentemente alla ribalta un argomento che da un po' di tempo era stato obliterato dalle cronache giornalistiche. Prese, forse, dall'attualità politica, oppure persuase ormai della sostanziale impermeabilità dell'Italia agli attentati terroristici, grazie all'infaticabile lavoro dei nostri 007 (che non ci stancheremo mai di ringraziare). L'episodio, però, conferma non solo l'attualità del pericolo rappresentato dai fondamentalisti islamici, ma anche l'importanza di mantenere una linea «rigorista» sull'immigrazione: Shalabi, infatti, nel Teramano aveva vissuto da clandestino. Altro che «scheletrini» e «disperati»: il rischio che tra i veri profughi in fuga dalla guerra e tra i migranti economici si annidino pedine dell'Isis esiste eccome. E non può essere sottovalutato. Non bisogna abbassare la guardia solo perché i media a un certo punto non ne parlano più, svegliandosi dal torpore soltanto quando l'ennesimo «lupo solitario» falcia i passanti con un van nel centro di qualche metropoli occidentale.
A proposito di lupo solitario: è così che si definiva lo stesso Shalabi. Ed è così che la maggior parte dei giornaloni ce lo ha presentato. Eppure, dalle affermazioni del numero uno della Procura antiterrorismo emerge un quadro di legami pervasivi e articolati tra l'aspirante combattente estremista e lo Stato islamico. Più che una scheggia impazzita, l'egiziano sembra essere stato una testa di ponte, un punto di riferimento «di grandissimo spessore», per citare De Raho, per Daesh. Una recluta investita del compito di radicalizzare altri potenziali martiri, esortandoli a mettere anche la loro vita al servizio della causa fondamentalista.
La retorica del lupo solitario è molto utile a convincerci che non esista un'emergenza strutturale, che da noi non ci siano cellule organizzate e che la propaganda dell'Isis colpisca in modo un po' casuale tra gli individui influenzabili. Ben più inquietante, ma forse più verosimile, è lo scenario di un Occidente oramai pieno di metastasi, di piccole strutture flessibili e autonome, ma non per questo autocefale e sganciate dalle direttive provenienti dall'interno del Califfato. Prospettiva tanto più spaventosa, se si riflette sull'età di Shalabi e degli altri due estremisti colpiti da decreto di espulsione: tutti ragazzi di poco più che 20 anni, totalmente accecati dal fanatismo religioso. È un segnale chiaro, che abbiamo ricevuto pure dalla Francia, dal Belgio e dagli altri Paesi funestati da vili attentati: sono proprio i più giovani quelli che ci odiano. Nel caso del miliziano «abruzzese», un ragazzo arrivato in Italia da poco. Nelle banlieu parigine o nelle periferie islamizzate di Bruxelles, addirittura immigrati di seconda generazione, istigati dai fenomeni di ghettizzazione provocati da decenni di politiche delle porte spalcante, oltre che disgustati da quelli che considerano i disvalori occidentali.
O capiamo, o rischiamo di fare una brutta fine. Perché il nemico non ce l'abbiamo più alle porte. Ce l'abbiamo dentro casa.
Volontaria italiana rapita in Kenya
Cercava la «donna bianca» il gruppo di uomini armati di fucili Ak 47 che nella serata di martedì ha fatto irruzione nel villaggio di Chakama, a circa 60 chilometri a ovest di Malindi. Con il passare delle ore, assume i contorni di un'azione mirata il rapimento della ventitreenne milanese, Silvia Costanza Romano, avvenuto nelle contea di Kilifi, non lontano dalla costa sud orientale del Kenya.
A confermarlo sono diversi testimoni che erano presenti nel piccolo centro abitato al momento dell'azione, in cui sono rimaste ferite cinque persone, tra cui due bambini.
Ronald Kazungu Ngala, uno dei ragazzi la cui istruzione è sostenuta dalla Onlus per cui lavora la ragazza italiana, racconta che gli uomini che l'hanno rapita cercavano proprio lei e l'hanno schiaffeggiata e legata, prima di portarla via. La banda avrebbe prima fatto irruzione nell'ufficio della organizzazione con fucili e machete, intimando che fosse detto loro dov'era la donna bianca, poi si sarebbero diretti in una stanza adiacente dove l'hanno trovata. I rapitori si sono poi dileguati insieme l'ostaggio attraverso il fiume Galana.
Silvia Romano lavorava come volontaria per l'organizzazione Africa Milele Onlus, con sede a Fano, nelle Marche, che si occupa di progetti di sostegno all'infanzia. La giovane italiana era tornata in Kenya agli inizi di novembre, dopo averci già lavorato per alcuni mesi, per partecipare a un progetto di cooperazione internazionale. Uno dei suoi ultimi post su Facebook la ritrae sorridente, alle spalle di una capanna di legno in un villaggio, mentre veste degli abiti tipici africani.
La Farnesina ha confermato il rapimento ma intende mantenere il più stretto riserbo sulla vicenda «nell'esclusivo interesse della connazionale». Intanto, la Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine. Nel procedimento si ipotizza il reato di sequestro di persona per finalità di terrorismo. Il vice ministro degli Esteri Emanuela Del Re ha parlato di «vicenda gravissima». «Ci stiamo lavorando, fatemi dire il meno possibile», ha detto il ministro dell'Interno Matteo Salvini al termine di un'audizione al Copasir.
In base a quanto si apprende i carabinieri del Ros sono già in contatto con le autorità keniote. Dal canto suo, la polizia locale del Paese africano sembra avere pochi dubbi sulla nazionalità dei rapitori. «Sono di origine somala», ha dichiarato il comandante, Fredrick Ochieng, aggiungendo che non possibile «puntare il dito con certezza in direzione di un gruppo specifico», anche se la pista islamica sembra la più accreditata.
La ragazza conosceva bene le condizioni di quella parte del Kenya, tuttavia Davide Ciarrapica, fondatore della Onlus Orphan's dream, ha riferito all'Ansa che circa un mese fa le aveva sconsigliato di andare nel villaggio di Chakama perché non è un posto sicuro. Va inoltre considerato che il Kenya è uno dei Paesi africani più interessati del terrorismo di matrice islamica. Sentito dalla Verità, Marco Cochi, ricercatore del Cemis e autore del libro sul jihadismo africano Tutto cominciò a Nairobi, ricorda che dal 2017 il gruppo terroristico somalo Al Shabaab ha intensificato le operazioni nel vicino Kenya. «Una serie di sanguinosi attacchi hanno costretto il governo kenyota a raddoppiare gli sforzi per contrastare la nuova offensiva estremista».
Cochi spiega che nella parte costiera del Paese è attiva la cellula Jaysh Ayman, che prende il nome dal fondatore Maalim Ayman. Il gruppo è attivo dal 2009 e al suo interno hanno militato anche diversi foreign fighter.
«La fazione Jaysh Ayman ha avuto un ruolo significativo sia nell'attacco del 2014 ad un bar di Mpeketoni, in cui morirono oltre 40 persone», aggiunge Cochi, «sia nella strage compiuta il 2 aprile 2015 all'Università di Garissa, dove furono uccise 148 persone, quasi tutti studenti».
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Parla il sacerdote americano che ha appena pubblicato un saggio sulla bufala della «religione di pace». «La violenza è nelle pagine del Corano. Non c'è un interlocutore unico, questo favorisce gli estremismi». Issam Shalabi, ventiduenne egiziano, voleva colpire in Italia Non se ne parla quasi più, ma l'incubo terrorismo non è finito. La cooperante Silvia Costanza Romano, 23 anni, prelevata da uomini armati. I testimoni: «Cercavano la donna bianca». Sospetti sui miliziani di Al Shabaab. Lo speciale contiene tre articoli. Oriana Fallaci, che con l'islam aveva un conto in sospeso, da quando si strappò lo chador, per sfida, al cospetto di un irritante ayatollah Khomeini, diceva che non c'è un islam buono e uno cattivo: c'è l'islam e basta. Di recente lo ha ammesso anche il presidente turco Erdogan: non esiste un islam moderato. La Fallaci aveva chiuso il discorso alla sua maniera: «Con i fondamentalisti non è possibile trattare, ragionarci è impensabile, considerarli con indulgenza è un suicidio. Ergo: con loro siamo in guerra». Terrorismo a parte, che è la punta dell'iceberg, chi fa le spese dell'islam sono i cristiani in tutto il mondo. Pensate alla storia di Asia Bibi, condannata a morte perché cristiana; è stata assolta dalla Corte suprema del Pakistan, eppure la piazza islamica la vuole morta. Ho incontrato un prete cattolico, un americano newyorkese di 50 anni, che vive a Firenze dove è cancelliere della Curia arcivescovile e cappellano della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Mario Alexis Portella è appena tornato dall'Iraq, dove è andato a parlare del suo libro (pubblicato in lingua inglese per una casa editrice americana) che s'intitola Islam, religione di pace? La violazione dei diritti umani e la copertura occidentale, nel quale sostiene che scambiare l'islam per una religione dalla doppia faccia è sbagliato: è una religione che ha come presupposto fondamentale lo sterminio degli infedeli. Non sono ammesse interpretazioni. Che tipo di dialogo si può costruire con chi vuol vedere morta una donna, Asia Bibi, il cui crimine è aver offerto un bicchiere d'acqua ad altre donne musulmane? «Non è un dialogo con una religione ma con coloro che parlano per una religione. Da quando Ataturk ha eliminato il Califfato, nel 1924, molti islamisti hanno colto l'opportunità di quel vuoto politico per rappresentare a modo loro il vero Islam. Parlo di capi di Stato e soprattutto degli imam. Siccome non c'è una autorità centrale che rappresenti tutto l'islam, è un po' difficile individuare un interlocutore». L'islam non è una religione di pace, come sostengono tanti capi musulmani. Come può esserlo chi ordina feroci «guerre sante» di conquista, e atti di terrorismo spacciati come «meritorio martirio»? Eppure ci sono «coperture occidentali», di cui lei scrive nel suo libro. Perché? «Le coperture ci sono per motivi economici: perché i cosiddetti petroldollari vengono prima di tutto; perché va salvaguardato l'approvvigionamento delle risorse naturali come il gas. In Occidente ragionano in termini di realpolitik, si limitano a un rapporto fra Stati, perciò sacrificano con troppa leggerezza i diritti umani. Per esempio: Donald Trump critica la religione islamica che ha generato il terrorismo, ma nel frattempo vende le armi all'Arabia saudita e alla Nigeria, cioè a due i Paesi che violano sistematicamente i diritti umani, non solo contro i cristiani ma contro il loro stesso popolo». Don Portella, lei è americano ed è stato in Iraq, ha visto quanto i cristiani vengono perseguitati, ha visto chiese rase al suolo: che cosa si aspettano quei cristiani da noi occidentali? «Da parte loro c'è una grande delusione, perché dal 2003, dalla caduta di Saddam e l'invasione statunitense, l'Occidente li ha lasciati in uno stato di anarchia politica. In diversi villaggi e città dove ancora abitano i cristiani, le milizie sciite e curde in gran parte sostenute dall'Iran, ufficialmente pensano alla sicurezza ma nella pratica non svolgono questo ruolo. Quindi i cristiani in Iraq hanno paura, perché sono molestati dai musulmani, che ora occupano i posti lasciati dai cristiani dopo l'Isis. Infatti i sacerdoti cattolici non possono dedicarsi al loro apostolato pastorale, perché sono impegnati in una continua lotta contro i governi locali e centrali». Abbiamo detto che l'islam è una religione in guerra santa contro gli infedeli. Noi tutti siamo gli infedeli e siamo in pericolo. Eppure molti apologisti continuano a giustificare l'islam e a raccontare falsità storiche. «Sono i testi islamici originali a dire la verità, quei testi che invece, esperti e attivisti, ignorano, accreditando la tesi che la religione sia interpretata male da chi predica terrorismo e l'islamizzazione del mondo. Non è così». Mi faccia un esempio, don Portella. «Basta leggere il comandamento di Allah nel quinto versetto della nona sura (l'ultimo capitolo fondamentale del Corano) che indica il comportamento da tenere con cristiani, ebrei ed altri non musulmani: “Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri dovunque li incontriate! Catturateli, assediateli e tendete loro ogni sorta d'insidie"». Lei dice che è stata la debolezza dell'Occidente ad aver praticamente declassato i diritti di libertà, di parola e di religione, classificando come islamofobo chiunque metta in discussione le intenzioni degli islamisti. «Qui bisogna distinguere. Musulmano è colui che si sottomette alla religione del profeta Maometto; islamista è invece un intellettuale, come l'imam, che sostiene di parlare per conto dell'islam. Ebbene, gli islamisti si sono infiltrati nei posti di governo e nelle lobby, come all'Onu, e da quella posizione strategica hanno potuto convincere i capi di Stato tramite la soft law, a criminalizzare qualsiasi critica contro l'Islam. E così possono diffondersi ancora di più». Papa Francesco viene accusato dai suoi detrattori, di tradire la Chiesa con l'islam. Lei che ne pensa? «Il Papa ha fatto bene a portare il Vangelo di Gesù Cristo al mondo islamico, come del resto hanno fatto i suoi predecessori Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. Ma il cristianesimo è basato sulla pace e l'amore di Dio, mentre l'islam giustifica gli omicidi e la guerra nei suoi testi sacri: è difficile individuare un percorso costruttivo da parte dei musulmani. È un problema più politico che religioso». Francesco, tuttavia, invoca il dialogo attraverso una conoscenza reciproca fra musulmani e cristiani: come si può dialogare con chi non parla lo stesso linguaggio di pace? «Il problema sono i suoi interlocutori. Quando il Santo padre incontra certi personaggi, come l'imam Ahmed El Tayeb, rettore emerito dell'Università Al Azar, che è l'università più prestigiosa del mondo sunnita, non può fidarsi di quello che gli dice: con lui l'imam parla di pace, ma quando torna in Egitto racconta un'altra cosa. Al Sisi stesso ha provato a convincere El Tayeb e il corpo religioso del mondo islamico a rivedere il Corano in modo storico, perché non si può continuare a giustificare la violenza attraverso i suoi versetti. Ma El Tayeb lo ha bloccato>. C'è una via d'uscita credibile? «Per aver un dialogo reciproco, occorre che gli imam che accolgono le parole del Corano in modo fondamentalista rivedano il testo. Soprattutto correggano gli hadiths, cioè quei racconti e insegnamenti del profeta che giustificano la violenza». Da ciò che mi ha spiegato, capisco perché il discorso che papa Benedetto fece a Ratisbona abbia scosso certe coscienze: Ratzinger osservò che Maometto, dopo avere in gioventù ammesso la facoltà di scelta, una volta raggiunto il potere, impugnò la spada per convertire il prossimo. Aveva ragione. «La reazione che ci fu per le sue parole, dimostra appunto che l'islam non tollera alcuna analisi critica». Don Portella, che futuro hanno i cristiani in Iraq? «Gli Usa ancora possono influire sulla politica del governo centrale iracheno, in modo che i cristiani abbiano gli stessi diritti dei musulmani e dei curdi. Detto questo, anche se gli iracheni cristiani non si fidano del governo americano, hanno in cuor loro una grande speranza: che la decisione del presidente Trump di ritirarsi dall'accordo nucleare sottoscritto da Obama, possa diventare una forma di pressione sul regime iraniano. Pressione anche economica. 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Il ragazzo, cui sono contestati i reati di associazione con finalità di terrorismo internazionale e istigazione e apologia di delitti di terrorismo, era un «soggetto accreditato presso l'Isis», come ha spiegato il capo della Procura nazionale antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho. Addirittura, Shalabi sarebbe stato «in contatto diretto» con i tagliagole e «autorizzato a disporre di comunicazioni che arrivavano dal comando del sedicente Stato islamico». Gli investigatori hanno intercettato il giovane radicalizzato mentre, al telefono, senza esitazioni si proclamava «pronto a combattere e a fare la guerra». L'egiziano si vantava di aver ricevuto un approfondito addestramento militare e aveva scaricato dal Web decine di inni jihadisti, sermoni di imam estremisti e altro materiale propagandistico contrassegnato dal logo di Dabiq, la rivista dell'Isis. Shalabi si preoccupava poi di smistare il tutto ad altri proseliti, radunati attraverso applicazioni di messaggistica come Whatsapp e Telegram. Proprio l'uso di «tecniche informatiche molto particolari», come le ha chiamate De Raho, ha consentito agli inquirenti, allertati da una segnalazione dell'intelligence risalente alla fine del 2017, di monitorare l'attività del sospetto terrorista. Nell'ambito della retata condotta tra Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Abruzzo sono finite sotto indagine anche altre due persone, alle quali il ministero dell'Interno ha già notificato i provvedimenti di espulsione dall'Italia. L'inchiesta, durata diversi mesi, è stata coordinata dalla Dda dell'Aquila e il fermo è scattato proprio in seguito a un'ordinanza di custodia cautelare spiccata dal Gip del capoluogo abruzzese. Il ventiduenne egiziano, infatti, quando erano partite le indagini era domiciliato in provincia di Teramo, a Colonnella, un paese poco distante dalla riviera adriatica. Lì, Shalabi lavorava per una ditta che si occupava delle pulizie nel Mc Donald's locale. A giugno, il giovane si era trasferito a Cuneo e infine a Milano, dove aveva iniziato a lavorare in nero con un'azienda di bitumazione stradale. L'arresto dell'aspirante martire della jihad riporta prepotentemente alla ribalta un argomento che da un po' di tempo era stato obliterato dalle cronache giornalistiche. Prese, forse, dall'attualità politica, oppure persuase ormai della sostanziale impermeabilità dell'Italia agli attentati terroristici, grazie all'infaticabile lavoro dei nostri 007 (che non ci stancheremo mai di ringraziare). L'episodio, però, conferma non solo l'attualità del pericolo rappresentato dai fondamentalisti islamici, ma anche l'importanza di mantenere una linea «rigorista» sull'immigrazione: Shalabi, infatti, nel Teramano aveva vissuto da clandestino. Altro che «scheletrini» e «disperati»: il rischio che tra i veri profughi in fuga dalla guerra e tra i migranti economici si annidino pedine dell'Isis esiste eccome. E non può essere sottovalutato. Non bisogna abbassare la guardia solo perché i media a un certo punto non ne parlano più, svegliandosi dal torpore soltanto quando l'ennesimo «lupo solitario» falcia i passanti con un van nel centro di qualche metropoli occidentale. A proposito di lupo solitario: è così che si definiva lo stesso Shalabi. Ed è così che la maggior parte dei giornaloni ce lo ha presentato. Eppure, dalle affermazioni del numero uno della Procura antiterrorismo emerge un quadro di legami pervasivi e articolati tra l'aspirante combattente estremista e lo Stato islamico. Più che una scheggia impazzita, l'egiziano sembra essere stato una testa di ponte, un punto di riferimento «di grandissimo spessore», per citare De Raho, per Daesh. Una recluta investita del compito di radicalizzare altri potenziali martiri, esortandoli a mettere anche la loro vita al servizio della causa fondamentalista. La retorica del lupo solitario è molto utile a convincerci che non esista un'emergenza strutturale, che da noi non ci siano cellule organizzate e che la propaganda dell'Isis colpisca in modo un po' casuale tra gli individui influenzabili. Ben più inquietante, ma forse più verosimile, è lo scenario di un Occidente oramai pieno di metastasi, di piccole strutture flessibili e autonome, ma non per questo autocefale e sganciate dalle direttive provenienti dall'interno del Califfato. Prospettiva tanto più spaventosa, se si riflette sull'età di Shalabi e degli altri due estremisti colpiti da decreto di espulsione: tutti ragazzi di poco più che 20 anni, totalmente accecati dal fanatismo religioso. È un segnale chiaro, che abbiamo ricevuto pure dalla Francia, dal Belgio e dagli altri Paesi funestati da vili attentati: sono proprio i più giovani quelli che ci odiano. Nel caso del miliziano «abruzzese», un ragazzo arrivato in Italia da poco. Nelle banlieu parigine o nelle periferie islamizzate di Bruxelles, addirittura immigrati di seconda generazione, istigati dai fenomeni di ghettizzazione provocati da decenni di politiche delle porte spalcante, oltre che disgustati da quelli che considerano i disvalori occidentali. O capiamo, o rischiamo di fare una brutta fine. Perché il nemico non ce l'abbiamo più alle porte. Ce l'abbiamo dentro casa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ho-visto-i-massacri-in-iraq-e-dico-dialogare-con-lislam-e-impossibile-2621111918.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="volontaria-italiana-rapita-in-kenya" data-post-id="2621111918" data-published-at="1765440307" data-use-pagination="False"> Volontaria italiana rapita in Kenya Cercava la «donna bianca» il gruppo di uomini armati di fucili Ak 47 che nella serata di martedì ha fatto irruzione nel villaggio di Chakama, a circa 60 chilometri a ovest di Malindi. Con il passare delle ore, assume i contorni di un'azione mirata il rapimento della ventitreenne milanese, Silvia Costanza Romano, avvenuto nelle contea di Kilifi, non lontano dalla costa sud orientale del Kenya. A confermarlo sono diversi testimoni che erano presenti nel piccolo centro abitato al momento dell'azione, in cui sono rimaste ferite cinque persone, tra cui due bambini. Ronald Kazungu Ngala, uno dei ragazzi la cui istruzione è sostenuta dalla Onlus per cui lavora la ragazza italiana, racconta che gli uomini che l'hanno rapita cercavano proprio lei e l'hanno schiaffeggiata e legata, prima di portarla via. La banda avrebbe prima fatto irruzione nell'ufficio della organizzazione con fucili e machete, intimando che fosse detto loro dov'era la donna bianca, poi si sarebbero diretti in una stanza adiacente dove l'hanno trovata. I rapitori si sono poi dileguati insieme l'ostaggio attraverso il fiume Galana. Silvia Romano lavorava come volontaria per l'organizzazione Africa Milele Onlus, con sede a Fano, nelle Marche, che si occupa di progetti di sostegno all'infanzia. La giovane italiana era tornata in Kenya agli inizi di novembre, dopo averci già lavorato per alcuni mesi, per partecipare a un progetto di cooperazione internazionale. Uno dei suoi ultimi post su Facebook la ritrae sorridente, alle spalle di una capanna di legno in un villaggio, mentre veste degli abiti tipici africani. La Farnesina ha confermato il rapimento ma intende mantenere il più stretto riserbo sulla vicenda «nell'esclusivo interesse della connazionale». Intanto, la Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine. Nel procedimento si ipotizza il reato di sequestro di persona per finalità di terrorismo. Il vice ministro degli Esteri Emanuela Del Re ha parlato di «vicenda gravissima». «Ci stiamo lavorando, fatemi dire il meno possibile», ha detto il ministro dell'Interno Matteo Salvini al termine di un'audizione al Copasir. In base a quanto si apprende i carabinieri del Ros sono già in contatto con le autorità keniote. Dal canto suo, la polizia locale del Paese africano sembra avere pochi dubbi sulla nazionalità dei rapitori. «Sono di origine somala», ha dichiarato il comandante, Fredrick Ochieng, aggiungendo che non possibile «puntare il dito con certezza in direzione di un gruppo specifico», anche se la pista islamica sembra la più accreditata. La ragazza conosceva bene le condizioni di quella parte del Kenya, tuttavia Davide Ciarrapica, fondatore della Onlus Orphan's dream, ha riferito all'Ansa che circa un mese fa le aveva sconsigliato di andare nel villaggio di Chakama perché non è un posto sicuro. Va inoltre considerato che il Kenya è uno dei Paesi africani più interessati del terrorismo di matrice islamica. Sentito dalla Verità, Marco Cochi, ricercatore del Cemis e autore del libro sul jihadismo africano Tutto cominciò a Nairobi, ricorda che dal 2017 il gruppo terroristico somalo Al Shabaab ha intensificato le operazioni nel vicino Kenya. «Una serie di sanguinosi attacchi hanno costretto il governo kenyota a raddoppiare gli sforzi per contrastare la nuova offensiva estremista». Cochi spiega che nella parte costiera del Paese è attiva la cellula Jaysh Ayman, che prende il nome dal fondatore Maalim Ayman. Il gruppo è attivo dal 2009 e al suo interno hanno militato anche diversi foreign fighter. «La fazione Jaysh Ayman ha avuto un ruolo significativo sia nell'attacco del 2014 ad un bar di Mpeketoni, in cui morirono oltre 40 persone», aggiunge Cochi, «sia nella strage compiuta il 2 aprile 2015 all'Università di Garissa, dove furono uccise 148 persone, quasi tutti studenti».
Christine Lagarde (Ansa)
Come accade, ad esempio, in quel carrozzone chiamato Unione europea dove tutti, a partire dalla lìder maxima, Ursula von der Leyen, non dimenticano mai di inserire nella lista delle priorità l’aumento del proprio stipendio. Ne ha parlato la Bild, il giornale più letto e venduto d’Europa, raccontando come la presidente della Commissione europea abbia aumentato il suo stipendio, e quello degli euroburocrati, due volte l’anno. E chiunque non sia allergico alla meritocrazia così come alle regole non scritte dell’accountability (l’onere morale di rispondere del proprio operato) non potrà non scandalizzarsi pensando che donna Ursula, dopo aver trasformato l’Ue in un nano economico, ammazzando l’industria europea con il folle progetto del Green deal, percepisca per questo capolavoro gestionale ben 35.800 euro al mese, contro i 6.700 netti che, ad esempio, guadagna il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.
Allo stesso modo funzionano le altre istituzioni dell’Unione europea. L’Ue impiega circa 60.000 persone all’interno delle sue varie istituzioni e organi, distribuiti tra Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Corte di giustizia dell’Unione europea e il Comitato economico e sociale). La funzione pubblica europea ha tre categorie di agenti: gli amministratori, gli assistenti e gli assistenti segretari. L’Ue contrattualizza inoltre molti agenti contrattuali. Secondo i dati della Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 2019, questi funzionari comunitari guadagnano tra 4.883 euro e 18.994 euro mensili (gradi da 5 a 16 del livello 1).
Il «vizietto» di alzarsi lo stipendio ha fatto scuola anche presso la Banca centrale europea (Bce), che ha sede a Francoforte, in Germania, ed è presieduta dalla francese, Christine Lagarde. Secondo quanto riassunto nel bilancio della Bce, lo stipendio base annuale della presidente è aumentato del 4,7 per cento, arrivando a 466.092 euro rispetto ai 444.984 euro percepiti nel 2023 (cui si aggiungono specifiche indennità e detrazioni fiscali comunitarie, diverse da quelle nazionali), ergo 38.841 euro al mese. Il vicepresidente Luis de Guindos, spagnolo, percepisce circa 400.000 euro (valore stimato in base ai rapporti precedenti, di solito corrispondente all’85-90% dello stipendio della presidente). Gli altri membri del comitato esecutivo guadagnano invece circa 330.000-340.000 euro ciascuno. Ai membri spettano anche le indennità di residenza (15% dello stipendio base), di rappresentanza e per figli a carico, che aumentano il netto effettivo. Il costo totale annuale del personale della Bce è di 844 milioni di euro, valore che include stipendi, indennità, contributi previdenziali e costi per le pensioni di tutti i dipendenti della banca. Il dato incredibile è che questa voce è aumentata di quasi 200 milioni in due anni: nel 2023, infatti, il costo totale annuale del personale era di 676 milioni di euro. Secondo una nota ufficiale della Bce, l’incremento del 2024 è dovuto principalmente a modifiche nelle regole dei piani pensionistici e ai benefici post impiego, oltre ai normali adeguamenti salariali legati all’inflazione, cresciuta del 2,4 per cento a dicembre dello scorso anno. La morale è chiara ed è la stessa riassunta ieri dal direttore, Maurizio Belpietro: per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, ma se si tratta dello stipendio dei funzionari Ue, il discorso non vale.
Stessa solfa alla Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo: gli stipendi variano notevolmente a seconda della posizione (avvocato, cancelliere, giudice, personale amministrativo), ma sono generalmente elevati, con giuristi principianti che possono guadagnare da 2.000 a 5.000 euro al mese e stipendi più alti per i magistrati, anche se cifre precise per i giudici non sono facilmente disponibili pubblicamente. Gli stipendi si basano sulle griglie della funzione pubblica europea e aumentano con l’anzianità, passando da 2.600 euro per il personale esecutivo a oltre 18.000 euro per alcuni alti funzionari.
Il problema, va precisato, non risiede nel fatto che le persone competenti siano pagate bene, com’è giusto che sia, ma che svolgano bene il proprio lavoro e soprattutto che ci sia trasparenza sui salari. Dei risultati delle politiche di Von der Leyen e Lagarde i giudici non sono esattamente entusiastici, ma il conto lo pagano, come al solito, i cittadini europei.
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Carlo Cottarelli (Ansa)
Punto secondo. I trattati europei prevedono che l’oro debba essere posseduto dalla banca centrale di ogni singolo Paese? No, basta che sia gestito dall’istituto, prova ne sia che in Francia è di proprietà dello Stato ma la Banque de France è autorizzata a inserirlo per legge nel proprio attivo.
Già qui si capisce che il punto numero uno non è un dogma, ma una scelta politica. Infatti, se a Parigi è stabilito che i lingotti custoditi nei caveau della banca centrale sono dello Stato e non dell’istituto, il quale può iscriverli a bilancio nello stato patrimoniale, è evidente che ciò che sta chiedendo il governo italiano non è affatto una cosa strana, ma si tratta di un chiarimento necessario a stabilire che l’oro non è di Bruxelles o di Francoforte e neppure di via Nazionale, dove ha sede la nostra banca centrale, ma degli italiani.
È così difficile da comprendere? La Bce, scrive Cottarelli, non capisce perché l’Italia voglia specificare che le riserve sono dello Stato e «solo» affidate in gestione alla Banca d’Italia. E si chiede: quali vantaggi ci sarebbero per il popolo italiano se diventasse proprietario dell’oro? «Gli effetti pratici», si risponde il professore, «almeno nell’immediato, sarebbero nulli». Provo a ribaltare la domanda di Cottarelli: quali svantaggi ci sarebbero se all’improvviso il popolo italiano scoprisse che l’oro non è suo ma della Banca d’Italia e un giorno la Bce decidesse di annettersi le riserve auree degli istituti centrali? La risposta mi sembra facile: gli effetti pratici non sarebbero affatto nulli per il nostro Paese, che all’improvviso si troverebbe privato di un capitale del valore di circa 280 miliardi di euro.
Cottarelli chiarisce che il timore della Bce è dovuto al fatto che l’emendamento alla legge di Bilancio, con cui si vuole sancire che la proprietà dell’oro è del popolo italiano, in teoria potrebbe consentire al governo, al Parlamento o al popolo italiano la vendita dei lingotti. «Sarebbe demenziale», sentenzia il professore, perché l’oro «è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze». È vero ciò che sostiene l’ex senatore del Pd. Peccato che nessuno abbia mai parlato di vendere le riserve auree (anzi, nel passato ne parlò Romano Prodi, che mi risulta stia dalla stessa parte politica di Cottarelli), ma soltanto di stabilire di chi siano, se della Banca d’Italia, e dunque vigilate dalla Bce, o del popolo italiano.
Il professore però fa anche un’altra affermazione assolutamente vera: l’oro è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze. Ma chi stabilisce quando è gravissima un’emergenza? E, soprattutto, chi può decidere di usare quella riserva strategica? Il governo, il Parlamento, il popolo italiano o la Banca d’Italia su ordine della Bce? È tutto qui il nocciolo del problema: se l’oro è nostro ogni decisione - giusta o sbagliata - spetta a noi. Se l’oro è della Banca d’Italia o della Bce, a stabilire che cosa fare della riserva strategica sarà l’istituto centrale, italiano o europeo. In altre parole: dobbiamo lasciare i lingotti italiani in mano alla Lagarde, che magari di fronte a un’emergenza decide di darli in garanzia per comprare armi da destinare agli ucraini?
Tanto per chiarire che cosa significherebbe tutto ciò, va detto che l’Italia è il terzo Paese al mondo per riserve auree. Il primo sono gli Stati Uniti, poi c’è la Germania, quindi noi. La Francia ne ha meno, la Spagna quasi un decimo, Grecia, Ungheria e Romania hanno 100 tonnellate o poco più, contro le nostre 2.400. Guardando i numeri è facile capire che il nostro oro fa gola a molti e metterci le mani, sottraendolo a quelle legittime degli italiani, sarebbe un affarone. Per la Bce, ovviamente, non certo per noi. Quanto al debito pubblico, che Cottarelli rammenta dicendo che se siamo proprietari dei lingotti lo siamo anche dell’esposizione dello Stato per 3.000 miliardi, è vero. Siamo tra i più indebitati al mondo: quinti in valore assoluto. Ma avere debiti non è una buona ragione per regalare 280 miliardi alla Lagarde, considerando soprattutto che circa il 70 per cento dei nostri titoli di Stato sono nelle mani di famiglie e istituzioni italiane, non della Bce.
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