2020-03-16
Hanno lasciato ammalare e morire il Nord
Da inizio emergenza Giuseppe Conte, per non farsi mettere in ombra, ha ignorato le istanze dei governatori, che si sono dimostrate tutte giuste. In un mese siamo passati da «abbraccia un cinese» all'invio di mascherine di carta alla prima linea contro il virus. Ora il governo Swiffer fa paura. Nel pieno del contagio quelle mascherine mandate da Roma, «di carta igienica» come le ha definite l'assessore lombardo Giulio Gallera, diventano il simbolo di un'inefficienza che durante un'emergenza sanitaria è intollerabile. E alzano il livello di preoccupazione dei cittadini, gli stessi che a Bergamo, a Brescia, a Lodi vivono con la colonna sonora delle ambulanze nel silenzio, dove non c'è spazio per i flash-mob pastasciuttari che emozionano il premier Giuseppe Conte. Gli stessi che si vedono riconsegnare i loro cari, ricoverati qualche giorno prima per insufficienza respiratoria, dentro parallelepipedi bianchi con il coperchio sigillato. Già cremati. Davanti a queste scene da brivido e alle legittime rimostranze della Regione Lombardia («Mandateci almeno materiale accettabile») il ministro per le Autonomie, Francesco Boccia, si dilunga nella fredda propaganda. «Non c'è tempo né voglia per rincorrere polemiche o sciacalli. Se ci sono avvoltoi che intendono spargere altri virus in un momento così delicato sappiano che stanno gettando fango su migliaia di italiani che combattono una delle prove più dure dopo la seconda guerra mondiale». Ecco un triste culturista della politica di retroguardia. Medici e infermieri in prima linea potrebbero aggiungere che, invece di insulti gratuiti e divisivi sparsi a virus, hanno bisogno di mascherine degne di questo nome per continuare a salvare vite.Non è ancora una guerra di secessione, ma lo scontro era nell'aria. E cristallizza una realtà percepita soltanto da chi è in trincea: la Lombardia e il Veneto devono lottare non solo contro il nemico invisibile ma anche contro la burocrazia centralizzata, l'indecisionismo del governo e il subdolo tentativo di Conte di intestarsi una vittoria politica a fronte del disastro organizzativo. Il Pirellone ha chiamato Guido Bertolaso proprio per provare a smarcarsi dall'inadeguato Angelo Borrelli e per andare oltre i decreti a singhiozzo. In fondo il motto dei friulani dopo il terremoto del 1976 fu: fasin di bessoi, facciamo da soli. Roma è troppo lontana, come la Mosca delle commedie di Anton Cechov. Lo è dal primo giorno del governo Conte bis, quando notammo che la rappresentatività del Nord era minima e lo scollamento avrebbe creato pasticci dagli effetti insondabili. Siamo alla resa dei conti. Tre indizi fanno una prova ma in questa drammatica vicenda ce ne sono almeno cinque. 1 A febbraio il virus ha già aggredito Codogno ed è già stata definita la prima zona rossa. È il 21 e i governatori Attilio Fontana e Luca Zaia tentano di richiamare all'ordine, di serrare le fila dopo la folle stagione dell'involtino primavera in diretta tv e del surreale #abbracciauncinese. La risposta di Conte è una reprimenda riassumibile nella frase: «Niente restrizioni, niente panico». La reazione compatta della sinistra al governo è l'apericena o la pizzata solidale di #Milanononsiferma sponsorizzate dal sindaco Giuseppe Sala. Durante uno di questi deliranti show prende il virus anche Nicola Zingaretti. Quando Fontana, per sensibilizzare le persone a non sottovalutare il contagio, indossa maldestramente una mascherina in ufficio, viene preso in giro dall'allegra intellighenzia governativa. 2 A fine febbraio i virologi mandano un allarme su Bergamo: i contagiati sono in aumento nella media Val Seriana. Roberto Calderoli comincia a chiedere una zona rossa nella Bergamasca per contenere la diffusione dell'agente patogeno. L'Eco di Bergamo sottolinea con opportuni editoriali l'importanza di un intervento, preme sulla Regione che propone restrizioni rigide. Ancora una volta Conte si mette di traverso, nega la zona rossa in Val Seriana, flauta frasi di circostanza: «Mi appello al grande cuore del Paese». Il 7 marzo - quando a Bergamo si ammalano anche prefetto e questore - deve fermarlo da Vipiteno a Lampedusa, con la farsa della bozza sfuggita e dei treni di mezzanotte da Milano diretti a Sud.3 Il 10 marzo Fontana, Zaia e i sindaci lombardi (alcuni pure del Pd come Giorgio Gori e il presidente dell'Anci Lombardia Mauro Guerra) invocano la chiusura totale. Lo chiedono gli scienziati, gli ospedali sono sotto stress. Ancora una volta il governo si contrappone alle istituzioni locali. Fontana ripete: «Roma non capisce, non risponde». Borrelli, numero uno della Protezione civile, gela tutti con una frase da impiegato del catasto: «Vedremo nei prossimi giorni». E solo 48 ore dopo Conte è costretto a blindare l'Italia. Si intesta l'idea varando un decreto pasticciato che suscita polemiche e avrà bisogno di tre modifiche applicative.4 Da due settimane la Regione Lombardia denuncia la carenza di respiratori polmonari, di strumenti ospedalieri, di mascherine soprattutto per le cliniche più piccole. Ne arrivano 500.000, ma essendo monouso non bastano. Finite le scorte interne, è il dramma. La Germania e la Francia bloccano le esportazioni (l'emergenza comincia anche da loro), ma Roma non pianifica approvvigionamenti. Insomma non si muove, accentua la paralisi, non è questo il ritmo da emergenza. E a un passo dal collasso manda quelle «di carta igienica».5 Mancano posti letto, al Pirellone s'inventano l'idea di realizzare un ospedale alla vecchia fiera di Milano) con 500 posti di terapia intensiva. Ci sono i fondi, il progetto e le imprese che lo realizzerebbero in una settimana. La Protezione civile ferma tutto: mancano i letti. Sarebbe stata una sfida folle ma grandiosa, una risposta formidabile di quelle che creano emozione e collante sociale. Da Roma neppure il niet, solo un silenzio preoccupato per l'eventuale consenso popolare di Fontana e Gallera, centrodestra, mentre le famiglie contano i morti. Ieri Conte è tornato a parlare dalla Luna. «La nostra priorità è far lavorare medici e infermieri che con coraggio e spirito di abnegazione...», le parole stingono ed evaporano nel nulla cosmico mentre a Bergamo, a Brescia e a Lodi medici e infermieri sfiniti dalla fatica si ammalano a decine in corsia. «Serve senso dello Stato!», tuona ancora Boccia dal suo divano in pelle umana sorseggiando un drink. Quello che il governo Swiffer, dal primo giorno, non ha mai avuto.