
Mario Morelli, eletto ieri presidente della Corte costituzionale, interviene sul referendum e detta l'agenda politica: quella del Pd.Partecipò all'istruttoria del processo sullo scandalo Lockheed, quello sulla fornitura di aerei C130 all'Aeronautica militare, che travolse politica e vertici militari negli anni Settanta. E, soprattutto, fu l'estensore della sentenza sull'interruzione di alimentazione e idratazione a Eluana Englaro, nel 2008. La prima pietra di un percorso culminato lo scorso anno, con la parziale abrogazione del reato di aiuto al suicidio. Adesso, il giudice Mario Rosario Morelli, 79 anni, il più anziano tra i colleghi, succede a Marta Cartabia alla presidenza della Corte costituzionale. È stato eletto ieri a maggioranza, con nove voti: quattro in più di Giancarlo Coraggio, mentre Giuliano Amato ne ha ricevuto uno. Saranno i suoi vice. Dall'8 marzo 2018, Morelli era il numero due della Consulta.Di sicuro, non è l'inizio di una nuova era. Il magistrato rimarrà al suo posto soltanto fino al 12 dicembre prossimo, quando scadrà il suo novennio. Una sorta di Celestino V in toga, destinato a rimanere al «soglio» soltanto per circa 100 giorni. Ma, a differenza dell'asceta molisano, il giurista romano, appena nominato, ha deciso di entrare subito a gamba tesa nella partita politica in corso.Durante la conferenza stampa successiva all'investitura, infatti, Morelli ha dichiarato: «Il taglio degli eletti è una riforma che incide sulla Costituzione in maniera relativa e va completata con provvedimenti che, con sequenza diacronica, devono seguire». Al netto dei bizantinismi, il messaggio è cristallino: dopo il referendum, occorre una riforma costituzionale organica. E, guarda caso, chi è che ce l'ha già quasi pronta? Il Partito democratico. Era assodato che il sì dei dem, da sempre contrari al giro di vite populista sponsorizzato dai grillini, dovesse essere barattato con un successivo intervento legislativo più radicale. Qualche giorno fa, l'Agi riportava anche i dettagli dell'operazione che hanno in mente al Nazareno: introdurre l'istituto della sfiducia costruttiva; conferire al presidente del Consiglio la facoltà di proporre al capo dello Stato non solo la nomina, ma anche la revoca dei ministri; differenziare le funzioni delle due Camere, integrando al Senato rappresentanti delle Regioni e specializzandolo; valorizzare le sedute comuni, ma attribuendo a Montecitorio il voto finale su tutte le leggi. Dunque, un presidente della Consulta, fresco di elezione, a quattro giorni dal voto, segna immediatamente l'agenda da seguire da martedì prossimo in poi. In più, singolare coincidenza, ad aver tracciato un percorso di riforma è appunto il partito di Nicola Zingaretti (quello uscito sconfitto dalle ultime politiche, ma ormai in Italia certe circostanze sono un dettaglio trascurabile). Possibile che tutto ciò sia considerato normale? Nessuno che sollevi una questione d'opportunità? Nessuno che, non diciamo si stracci le vesti, ma almeno si strappi simbolicamente un capello? Cosa sarebbe successo se, al posto di Morelli, si fosse trovato un magistrato (veramente) cattolico, che si fosse pronunciato sulla necessità di tutelare la libertà d'espressione di chi dissente dal pensiero Lgbt, mentre in Parlamento si sta battagliando sul ddl Zan? Un precedente storico c'è: basta andare a riguardarsi cosa scrissero le associazioni arcobaleno, quando, nel 2011, Giorgio Napolitano portò alla Corte la ciellina Cartabia, al tempo nota per la sua contrarietà alle nozze gay e alla retorica dei «nuovi diritti».Bisogna tuttavia riconoscere che Morelli non ha inventato nulla di nuovo. Durante la presidenza di Giorgio Lattanzi, la Consulta, chiamata a pronunciarsi sul caso Cappato, inviò il famoso ultimatum all'Aula: o approvate una legge sul fine vita, o decideremo autonomamente. Era evidente quali fossero le coordinate della normativa richiesta dai giudici: nella sostanza, una legittimazione dell'eutanasia. Non è stato il neopresidente a introdurre per primo la pratica per cui i magistrati costituzionali spiegano agli onorevoli su cosa debbano lavorare. Negli ultimi tempi, con la Cartabia, la Corte ha invero insistito molto su quella che ha presentato come un'articolazione del principio di «leale collaborazione» tra istituzioni. A questo punto, non ci si può nemmeno più stupire se si sentono certe frasi da una toga della Consulta: «C'è una classe di diritti che dobbiamo far rispettare, che non nascono dall'alto, ma sono richiesti dalla coscienza sociale». Insomma, per Morelli, che non a caso s'intestò la sentenza sulla povera Eluana, i diritti non sono quelli scolpiti nella Carta costituzionale, ma sono quelli che di volta in volta emergono dalla società. Peccato che, mentre la Costituzione è lì da 70 anni, semplice, inequivoca, le istanze promosse dalla società necessitano di una procedura trasparente e il più possibile condivisa, prima di essere trasformate in «diritti». Per farla breve: chi stabilisce cosa emerge e cosa non emerge dalla «coscienza sociale» e cosa, dunque, è meritevole di tutela? La Corte. Ovvero, Morelli. È l'assaggio di quello che ci aspetta di qui ai prossimi anni.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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