2019-11-09
Guerra totale di Di Maio sullo scudo. «Se il Pd lo vota c’è un problema»
L'idea di reintrodurre l'immunità su Ilva spacca la maggioranza. I dem pensano a un emendamento ad hoc e sono pronti allo scontro duro con i pentastellati, che reagiscono alzando la posta: così può cadere tutto.Il «Corriere» racconta le perplessità di Sergio Mattarella sui cambi di linea circa l'acciaieria tarantina. Eppure, Costituzione alla mano, l'ultima parola è sempre stata del Quirinale.Lo speciale contiene due articoliTutti contro tutti nella maggioranza su Ilva, mentre all'orizzonte si fatica a scorgere una soluzione stabile e rassicurante. Giuseppe Conte, al di là della sua trasferta a Taranto tra le proteste, si è attestato da 36 ore su una linea da doppio binario. Per un verso, ha aperto al reinserimento dello scudo legale (fingendo di non vedere le lacerazioni nella sua coalizione), ma per altro verso tiene a sottolineare che il problema - a suo avviso - non è questo. In altre parole, secondo lo spin che Palazzo Chigi vorrebbe veicolare, si tratta di togliere ad Arcelor Mittal quello che il governo chiama «l'alibi dello scudo», e mostrare che - in realtà - l'azienda ha deciso di disimpegnarsi indipendentemente dall'immunità giuridica. Morale: Conte ha chiesto 48 ore (ne sono rimaste 24) per studiare una formula che renda lo scudo non più una norma ad hoc ritagliata per il caso Ilva, ma un principio generale ed astratto, valido per ogni impresa che si trovi in una situazione analoga. Resta da capire (ci verremo) come il premier possa pensare che i grillini digeriscano una soluzione di questo tipo.Assai diverso l'atteggiamento del Pd, il cui nervosismo - testimoniato da ricostruzioni che nessuno ha smentito - ha segnato l'ultima drammatica riunione del Consiglio dei ministri. Così, il capogruppo alla Camera Graziano Delrio vorrebbe predisporre una norma sull'immunità come emendamento da inserire nel primo «treno» legislativo utile, a partire dal decreto fiscale. Da più parti, si segnala ai dem che questo potrebbe portare a uno strappo definitivo con i 5 stelle: ma l'interpretazione di alcuni è che il Nazareno, Nicola Zingaretti in testa, stavolta sia determinato a combattere, anche a costo di far saltare tutto e di liberarsi di un'alleanza sempre meno sostenibile. Poi ci sono i renziani, forse i più avventurosi e spericolati nelle loro piroette. Hanno votato a loro volta, in Senato, lo sciagurato emendamento della grillina Barbara Lezzi per togliere l'immunità, ma ora sono i primi a strillare per rimetterla. Ieri si è distinta con una offensiva mediatica in questo senso il ministro Teresa Bellanova, che a Radio Rai ha dichiarato: «Il governo deve fare una cosa molto semplice e doverosa, dimostrare serietà: va tolto ogni alibi a Mittal. Quando Mittal ha sottoscritto l'accordo con l'allora ministro Di Maio, le norme in vigore prevedevano le esimenti penali per tutti i lavori di ambientalizzazione. Mittal ha preso a pretesto le modifiche successive per dire che blocca la produzione: per quello che mi riguarda, deve essere messa di fronte alle sue responsabilità, lo Stato deve ripristinare le norme com'erano, e a Mittal deve essere tolto ogni alibi, perché Taranto e l'acciaio italiano non si possono permettere migliaia di esuberi. Questo è il punto, ogni altra riflessione in questo momento rischia di essere un favore all'azienda».Sull'altro lato della barricata si colloca Luigi Di Maio, ormai autoconfinatosi su posizioni estreme, nel tentativo disperato di non far scoppiare i gruppi parlamentari grillini, ormai simili a due polveriere. «La linea di Conte», ha detto il ministro degli Esteri, «è quella che ha permesso di smascherare Mittal. Questo tema del pretesto neanche Mittal l'ha usato e ora vedo che una parte del sistema, anche mediatico, invece di stare con i lavoratori dimostra di stare con Mittal». Quindi, per Di Maio, c'è stata troppa enfasi sull'immunità, che non va reintrodotta (anche se Conte, come abbiamo visto, dice il contrario). Di Maio, che ha riunito i ministri del suo partito, ha ammonito pesantemente il Pd: «Se il Pd presenta un emendamento sullo scudo, è un problema per il governo». Sempre nella giornata di ieri, il capo politico M5s, ormai apertamente contestato dai suoi deputati e senatori, ieri ha incontrato i direttivi dei due gruppi alla Camera e al Senato, nel tentativo di placare gli animi. Operazione ardua: alla Camera, il caos è tale che i grillini non riescono nemmeno a eleggere un capogruppo. Al Senato, è stata impressionante la facilità con cui la Lezzi e altri pasdaran hanno imposto la linea più fondamentalista. Così, almeno nella serata di ieri, appariva francamente improbabile che i gruppi parlamentari grillini potessero adattarsi a digerire una nuova formulazione dello scudo. Al contrario, c'è qualcosa che eccita l'istinto statalista e antimercato grillino: è l'evocazione della nazionalizzazione, apertamente citata dai ministri Stefano Patuanelli e Roberto Speranza, e non esclusa dallo stesso Giuseppe Conte l'altra sera a Porta a porta. Resta da capire – nella forma – come sia possibile aggirare i paletti della normativa europea che proibisce gli aiuti di Stato, e soprattutto - nella sostanza - chi possa essere così folle da affidare a una gestione di fatto politica (sostanzialmente, a guida Pd-M5s) un'azienda immensa, in un mercato mondiale, quello dell'acciaio, difficilissimo e ultracompetitivo. Pensare che i comizi della Lezzi possano convincere investitori e mercato può rivelarsi una cosa peggiore di un'illusione: un incubo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/guerra-totale-di-di-maio-sullo-scudo-se-il-pd-lo-vota-ce-un-problema-2641266612.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="colle-inquieto-sui-decreti-che-emana" data-post-id="2641266612" data-published-at="1757403335" data-use-pagination="False"> Colle inquieto sui decreti che emana Un grande classico dei giornali mainstream, ormai un vero e proprio genere letterario, è quello che potremmo chiamare il lamento del quirinalista sofferente. Così, in presenza di una crisi politica o di un nodo irrisolto economico e sociale, una narrazione estenuata e doloristica ci propone «le inquietudini del Colle», i «turbamenti del Quirinale», nei casi più gravi «l'irritazione» riferita da non meglio precisati «ambienti» del Colle più alto. In genere, tuttavia, per confortare il lettore, il finale dell'articolo lascia aperta la porta a una soluzione, naturalmente ispirata - spiega il quirinalista - dalla «saggezza del presidente». Tic e stereotipi giornalistici a parte, ieri era una di quelle giornate. Il giorno prima, come si sa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si era recato dal capo dello Stato per riferirgli sulla vertenza Ilva. Sulla quale - a onor del vero - fino a ieri non si era sentito granché dalle massime istituzioni dello Stato, mentre nei giorni precedenti il presidente della Repubblica si era assai impegnato in una sorta di dibattito indiretto e a distanza con il cardinale Camillo Ruini, per difendere la posizione culturalmente e politicamente cara a Sergio Mattarella, quella del cattolicesimo cosiddetto democratico e di sinistra. Ieri è stato dunque il giorno del recupero, per così dire: e su molti taccuini, presumibilmente su ispirazione dell'ufficio stampa del Quirinale, diverse penne si sono simultaneamente affrettate ad annotare la preoccupazione del capo dello Stato per l'Ilva e le altre crisi aziendali, e l'invito al governo a cercare soluzioni rapide. Ma il retroscena del Corriere della Sera è andato oltre, con un passaggio da segnare con un circoletto rosso: il capo dello Stato – spiega Marzio Breda, autore dell'articolo – «resta in allarme anche per come si è gestita la partita negli ultimi anni, da parte di diversi esecutivi». E ancora: «Dubbi ne ha parecchi, Mattarella». Ecco qua: «Al pari di tanti altri, Mattarella è rimasto colpito, per esempio, dalla contraddittoria sequenza dei decreti legge ad hoc (da quello contenuto nel decreto crescita all'ultimo, risalente al 3 settembre, quando la crisi politica era ancora aperta) e dei successivi emendamenti mirati che si sono succeduti nei mesi scorsi». E qui c'è qualcosa che - forse - al Corriere e alle sue fonti dev'essere sfuggito. Lasciamo da parte gli emendamenti parlamentari, che sono totalmente responsabilità dei deputati o dei senatori che li presentano. Ma, quando si tratta di decreti legge, il capo dello Stato ha poteri ben precisi e fortissimi: è lui – come dice la Costituzione – a «emanarli». Tradotto: può non firmare, ed è titolare di una penetrante funzione di controllo, su cui la dottrina ha lungamente riflettuto. Quando poi si tratta di una legge (che il Presidente «promulga»), il Capo dello Stato può anche rinviare tutto alle Camere. Il rinvio di una legge (Francesco Cossiga, riferiscono gli archivi, lo fece 22 volte) impone alle Camere una nuova deliberazione. Anche in termini di moral suasion, non si contano i casi in cui il Quirinale abbia sollecitato un governo a modificare un decreto, ad esempio per evitare l'affollarsi di troppi temi disomogenei. Su un altro piano, in termini propositivi, il Presidente può anche inviare un messaggio alle Camere, segnalando un tema. In modo meno forte, ma pur sempre politicamente significativo (Sergio Mattarella lo ha fatto ad esempio sui provvedimenti voluti da Matteo Salvini in materia di sicurezza e immigrazione), il capo dello Stato può anche, in sede di promulgazione di una legge, aggiungere delle annotazioni, che fatalmente hanno un riverbero nel dibattito politico. Morale: in termini formali o informali, l'attuale Costituzione attribuisce al capo dello Stato una serie amplissima di poteri. A che serve - mesi dopo - far trapelare stupore e delusione su un quotidiano?
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Ll’Assemblea nazionale francese (Ansa)