
È guerra civile in Libia. Le milizie del generale Haftar hanno sferrato un assalto deciso e stazionano ormai alle porte di Tripoli. Il governo di Al Serraj promette una reazione durissima ma intanto accusa l'Eliseo di appoggiare i rivali. Ci sono decine di morti, anche fra i civili, e per ora una tregua pare impossibile.
La cartolina che arriva da Tripoli ha il colore fosco della guerra civile: combattimenti nelle strade alla periferia della città, scuole chiuse, batterie di missili e aerei che bombardano, morti e feriti. Nella capitale la gente prende d'assalto i supermercati facendo scorte di benzina e prodotti di prima necessità, mentre l'Onu invoca una tregua umanitaria e gli Usa ritirano il corpo diplomatico e le truppe. Anche l'Eni, in accordo con la Farnesina, ha deciso di evacuare il personale italiano. Perché la Libia è ormai una nazione piombata nel caos, dove le ragioni del conflitto si dissolvono nella violenza e nella confusione. Il generale Khalifa Haftar, sordo agli appelli internazionali, continua la sua marcia su Tripoli.
L'autoproclamato Libyan national army, da lui comandato, sta conquistando pezzo dopo pezzo l'intero territorio. L'uomo forte della Cirenaica ora sferra l'attacco finale alla capitale per spodestare il governo di unità nazionale, riconosciuto dalla comunità mondiale e guidato dal premier Fayez Al Serraj. Ma quest'ultimo - con appoggio di diverse milizie fra cui quelle di Misurata - resiste e reagisce. I combattimenti imperversano soprattutto nelle zone di Saraj e Edraiby, circa 9 chilometri a sud-ovest della capitale.
Il generale Haftar sta utilizzando dei missili, piazzati a un'ottantina di chilometri a sud del centro della città. «Haftar ha piazzato una batteria di missili a Garian ed è già morta una donna a Wadi el Rabie», ha detto all'Ansa una fonte governativa. Un video con il lancio di missili è anche stato diffuso su Twitter. Le forze «ribelli» confermano inoltre di aver condotto un primo raid aereo, ma il governo di unità nazionale annuncia l'inizio di una controffensiva per «epurare le città dalle forze illegittime». L'operazione è stata chiamata «Volcano to anger», ovvero vulcano della rabbia. Un nome che non fa sperare in nulla di buono e dà il via a una vera guerra civile.
Proprio a causa della confusione che regna nel Paese, il Comando militare americano in Africa spiega con una nota di avere «temporaneamente evacuato» un contingente di forze statunitensi dalla Libia. «La sicurezza sul terreno sta diventando sempre più complicata e imprevedibile», dice il generale dei marine Thomas Waldhauser, «continueremo a monitorare le condizioni sul terreno e a valutare la fattibilità di una rinnovata presenza militare degli Stati Uniti, a seconda dei casi». La realtà, dietro la cortina delle parole diplomatiche, è che gli americani si ritirano da una regione che, dopo la caduta di Muammar Gheddafi, è sempre più pericolosa e ingovernabile. A conferma di ciò sui media sono apparse foto di unità navali Usa che trasferiscono il personale da Janzur, mentre alcuni diplomatici americani hanno già lasciato Palm City, a una ventina di chilometri dalla capitale.
Il premier Al Serraj, in un discorso in televisione, accusa il suo rivale di tradimento: «Abbiamo steso le nostre mani verso la pace ma dopo l'aggressione da parte delle forze di Haftar e la sua dichiarazione di guerra contro le nostre città e la nostra capitale non troverà nient'altro che forza e fermezza».
Ma soprattutto al Serraj ha presentato all'ambasciatrice francese, Béatrice du Hellen, una «forte protesta», accusando l'Eliseo di sostenere la brigata del generale Haftar. È quanto riferisce Al Jazeera, sottolineando che Al Serraj ha chiesto formalmente all'ambasciatrice di riferire la sua protesta direttamente al presidente, Emmanuel Macron. Parigi replica senza però entrare nel merito: la protesta «non riflette il tenore dell'incontro» fra il premier libico e la rappresentante diplomaticai. Fonti del Quai d'Orsay infatti spiegano che «si trattava di un incontro fissato di comune accordo».
Sarebbe di almeno 21 morti, tra cui quattro civili, il bilancio provvisorio degli scontri. Non si conosce il numero dei feriti, stimati tuttavia in centinaia.
La situazione ha spinto l'Onu a lanciare un appello «a tutte le parti militari» a rispettare una «tregua umanitaria» di due ore per consentire «l'evacuazione di feriti e civili» dalle zone teatro dei combattimenti. Richiesta che - stando alle fonti sul terreno - sarebbe stata ignorata da ambo le parti in conflitto. Intanto l'inviato Onu per la Libia, Ghassan Salamé, annuncia che si terrà ugualmente la Conferenza nazionale sulla Libia in programma dal 14 al 16 aprile a Ghadames, nel sud ovest del Paese: «A meno che circostanze considerevoli non ce lo impediscano». Il che è molto probabile, viste le notizie che arrivano da Tripoli. La conferenza mira a stilare una roadmap per far uscire la Libia dal caos e dalla crisi politica ed economica in cui è piombata dopo la cacciata del regime di Gheddafi del 2011.
La guerra in Libia ovviamente preoccupa le centinaia di italiani che vivono e lavorano nel Paese, tanto che alcuni imprenditori hanno già lasciato Tripoli e diverse imprese stanno valutando cosa fare di fronte all'avanzata del generale Haftar. L'Eni ha già deciso di evacuare il personale italiano dai suoi impianti, ciò malgrado le rassicurazioni di Haftar che avrebbe dispiegato «un'unità speciale incaricata della sicurezza delle imprese straniere e locali». Anche il vicepremier Matteo Salvini si dice preoccupato: «Non tanto per la questione dell'immigrazione, perché ormai hanno capito che l'Italia ha iniziato a difendere i suoi confini via terra e via mare, ma perché ci sono tanti italiani che stanno lavorando lì. L'intervento armato, le bombe, i cannoni sarebbero un dramma».
Anche il premier Giuseppe Conte, in una telefonata con il segretario generale Onu Antonio Guterres, esprime la sua preoccupazione per gli ultimi sviluppi. E da Dinard, in Francia, i ministri degli esteri del G7 mostrano unità, esortando «tutte le parti coinvolte a interrompere immediatamente ogni azione militare e ogni ulteriore movimento verso Tripoli» e ribadendo che non esiste una soluzione militare. «Stiamo seguendo il dossier Libia da tempo e lo stiamo seguendo anche nelle ultime fasi», commenta Conte, «un'evoluzione che ci preoccupa. Sicuramente stiamo cercando di rappresentare soprattutto al generale Haftar e agli altri interlocutori la necessità di evitare conflitti armati, non possiamo permetterci una guerra civile».





