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2019-04-21
Putin sulla Via della seta fa da paciere tra Trump e Kim
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Ansa
La notizia di questo vertice arriva in un periodo particolarmente delicato per il regime di Pyongyang. Soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli Stati Uniti. Il summit tra Kim Jong-un e Donald Trump tenutosi ad Hanoi lo scorso febbraio si è concluso con un nulla di fatto: le due parti non sono riuscite a trovare un compromesso per avviare il processo di denuclearizzazione della penisola coreana. E, nonostante Washington e Pyongyang stiano continuando ufficialmente a dirsi favorevoli alla distensione, le relazioni tra i due Paesi si sono alquanto raffreddate. Non solo mercoledì scorso il regime nordcoreano avrebbe infatti testato una nuova arma tattica guidata. Ma, pochi giorni fa, Pyongyang avrebbe addirittura chiesto alla Casa Bianca di ritirare Mike Pompeo dai negoziati sulla denuclearizzazione. Sarebbe infatti opinione della Corea del Nord che il segretario di Stato americano abbia, finora, rappresentato un vero e proprio ostacolo al processo di distensione. Un elemento interessante, che chiama direttamente in causa le correnti interne all'amministrazione statunitense. Nonostante Pompeo sia stato sino ad oggi il principale protagonista del disgelo tra i due vecchi avversari, non va comunque dimenticato che – l'anno scorso – venne nominato alla guida del Dipartimento di Stato proprio per il suo profilo interventista e tendenzialmente bellicoso: un profilo non poi così estraneo alle galassie neoconservatrici dell'establishment di Washington. Del resto, la sua figura serviva primariamente a rimpiazzare quella di Rex Tillerson, che – guarda caso – sposava una linea di cauto realismo dal sapore kissingeriano. L'astio mostrato da Pyongyang verso Pompeo potrebbe allora evidenziare che l'attuale segretario di Stato americano non sia poi così incline verso questa distensione. E che probabilmente sulla questione nordcoreana dalle parti della Casa Bianca si stiano fronteggiando linee contrastanti.
In questo quadro, è evidente che, dal punto di vista di Pyongyang, l'incontro tra Kim e Putin abbia tra i principali obiettivi quello di un bilanciamento rispetto agli Stati Uniti. E, non a caso, tra le questioni affrontate in questo vertice dovrebbe comparire anche quella della denuclearizzazione della penisola coreana. Certo: non bisogna ritenere che si tratti di un evento assolutamente inedito. Sebbene in modo altalenante, il legame tra Russia e Corea del Nord risale ai primordi della Guerra Fredda e – nonostante un irrigidimento dei rapporti ai tempi di Boris Eltsin – le relazioni si sono man mano rinsaldate dal 2000 (in seguito all'ascesa di Vladimir Putin). Non solo in termini geopolitici ma anche economici: benché negli scambi commerciali con Pyongyang la parte del leone sia svolta da Cina, Pakistan e India, non bisogna infatti dimenticare che Mosca importi attualmente beni nordcoreani per un valore complessivo di circa 3,7 milioni di dollari. È quindi chiaro che, rinsaldando i rapporti con il Cremlino, Kim Jong-un punti non soltanto a infliggere uno schiaffo politico a Washington ma anche probabilmente a incrementare il volume dei propri scambi, oltre che ad attrarre investimenti russi. Approfittandone così per diminuire lievemente la propria dipendenza economica da Pechino.
Anche Putin, dal canto suo, nutre non poche speranze. Innanzitutto c'è una chiara ambizione sul fronte diplomatico: è infatti altamente probabile che il presidente russo voglia giocare la carta della sua equidistanza tra Pyongyang e Seul per proporsi come mediatore e facilitare in questo modo un processo di pacificazione interno alla penisola coreana. Un obiettivo accarezzato non solo in termini di prestigio ma anche per allontanare parzialmente Corea del Nord e Corea del Sud rispettivamente da Pechino e Washington. Si tratta del resto di una strategia che Putin ha mostrato di coltivare già in passato. Da una parte ha spesso enfatizzato il rapporto di cordialità intrattenuto con entrambe le Coree. Dall'altra, non ha tuttavia risparmiato ad entrambe alcune critiche. Non solo Putin si è espresso contro il dispiegamento del sistema antimissilistico americano Terminal High Altitude Area Defense in Corea del Sud ma ha anche disapprovato gli esperimenti nucleari attuati in passato da Pyongyang. Inoltre, al di là della questione relativa alla denuclearizzazione, parrebbe proprio che al centro dei pensieri del Cremlino ci sia anche la realizzazione della Trans-Korean Main Line: un circuito ferroviario che di fatto estenderebbe la Transiberiana alla penisola coreana. Un'infrastruttura importantissima che potrebbe inserirsi nel quadro del progetto cinese della Nuova Via della Seta. In questo senso, rafforzare i rapporti con Pyongyang diviene evidentemente parte integrante di una strategia più complessiva. Da alcuni anni, Putin sta infatti cercando di rilanciare la propria iniziativa geopolitica ed economica nella regione asiatica: una via intrapresa per trovare sbocchi alternativi a un Occidente (tanto americano quanto europeo) che sembra farsi sempre più ostile nei confronti di Mosca.
Un piano certamente ambizioso. Ma non indolore. Questo nuovo avvicinamento tra il Cremlino e la Corea del Nord non sarà probabilmente digerito dalle parti di Washington. Non solo perché Putin tende ad inserirsi in un processo diplomatico di cui la Casa Bianca aveva sinora detenuto l'iniziativa. Ma anche perché, nei mesi passati, gli Stati Uniti hanno più volte accusato Mosca di aver indebitamente aggirato le sanzioni comminate al regime di Pyongyang. In particolare, ad aprile del 2018, alcuni senatori repubblicani sostennero che la Russia continuasse a rifornire la Corea del Nord di petrolio. La situazione si fece non poco incandescente, tanto da far nascere un dibattito politico tra Washington e Mosca sugli obiettivi dello strumento sanzionatorio: se per gli americani l'obiettivo di queste misure sarebbe quello di mettere sotto pressione i regimi avversi nella speranza di mutarne atteggiamenti o leadership, per i russi la sanzione presenterebbe la semplice (e limitata) finalità di punire comportamenti specifici. Il punto è che, al di là delle divergenze di opinione, l'iperattivismo russo in Asia rischia di allontanare ulteriormente gli Stati Uniti da Mosca. Bisognerà quindi vedere in che modo Putin giocherà le sue carte sul dossier nordcoreano. Se punterà a estromettere Washington oppure a coinvolgerla. Le incognite all'orizzonte restano tuttavia numerose.
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Il leader nordcoreano, Kim Jong-un, dovrebbe incontrarsi con Vladimir Putin in Russia entro la fine di aprile. A renderlo noto è stato il portavoce del presidente russo, Dmitri Peskov, il quale pochi giorni fa ha riferito ai giornalisti: «Si sta preparando l'incontro. Non appena avremo informazioni su tutti i dettagli, come quando, dove, eccetera, le condivideremo con voi». Stando a quanto riportano alcune testate, i due leader potrebbero incontrarsi a Vladivostok, prima che Putin vada a Pechino per il forum "One Belt, One Road" previsto il 26 e il 27 aprile.La notizia di questo vertice arriva in un periodo particolarmente delicato per il regime di Pyongyang. Soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli Stati Uniti. Il summit tra Kim Jong-un e Donald Trump tenutosi ad Hanoi lo scorso febbraio si è concluso con un nulla di fatto: le due parti non sono riuscite a trovare un compromesso per avviare il processo di denuclearizzazione della penisola coreana. E, nonostante Washington e Pyongyang stiano continuando ufficialmente a dirsi favorevoli alla distensione, le relazioni tra i due Paesi si sono alquanto raffreddate. Non solo mercoledì scorso il regime nordcoreano avrebbe infatti testato una nuova arma tattica guidata. Ma, pochi giorni fa, Pyongyang avrebbe addirittura chiesto alla Casa Bianca di ritirare Mike Pompeo dai negoziati sulla denuclearizzazione. Sarebbe infatti opinione della Corea del Nord che il segretario di Stato americano abbia, finora, rappresentato un vero e proprio ostacolo al processo di distensione. Un elemento interessante, che chiama direttamente in causa le correnti interne all'amministrazione statunitense. Nonostante Pompeo sia stato sino ad oggi il principale protagonista del disgelo tra i due vecchi avversari, non va comunque dimenticato che – l'anno scorso – venne nominato alla guida del Dipartimento di Stato proprio per il suo profilo interventista e tendenzialmente bellicoso: un profilo non poi così estraneo alle galassie neoconservatrici dell'establishment di Washington. Del resto, la sua figura serviva primariamente a rimpiazzare quella di Rex Tillerson, che – guarda caso – sposava una linea di cauto realismo dal sapore kissingeriano. L'astio mostrato da Pyongyang verso Pompeo potrebbe allora evidenziare che l'attuale segretario di Stato americano non sia poi così incline verso questa distensione. E che probabilmente sulla questione nordcoreana dalle parti della Casa Bianca si stiano fronteggiando linee contrastanti. In questo quadro, è evidente che, dal punto di vista di Pyongyang, l'incontro tra Kim e Putin abbia tra i principali obiettivi quello di un bilanciamento rispetto agli Stati Uniti. E, non a caso, tra le questioni affrontate in questo vertice dovrebbe comparire anche quella della denuclearizzazione della penisola coreana. Certo: non bisogna ritenere che si tratti di un evento assolutamente inedito. Sebbene in modo altalenante, il legame tra Russia e Corea del Nord risale ai primordi della Guerra Fredda e – nonostante un irrigidimento dei rapporti ai tempi di Boris Eltsin – le relazioni si sono man mano rinsaldate dal 2000 (in seguito all'ascesa di Vladimir Putin). Non solo in termini geopolitici ma anche economici: benché negli scambi commerciali con Pyongyang la parte del leone sia svolta da Cina, Pakistan e India, non bisogna infatti dimenticare che Mosca importi attualmente beni nordcoreani per un valore complessivo di circa 3,7 milioni di dollari. È quindi chiaro che, rinsaldando i rapporti con il Cremlino, Kim Jong-un punti non soltanto a infliggere uno schiaffo politico a Washington ma anche probabilmente a incrementare il volume dei propri scambi, oltre che ad attrarre investimenti russi. Approfittandone così per diminuire lievemente la propria dipendenza economica da Pechino. Anche Putin, dal canto suo, nutre non poche speranze. Innanzitutto c'è una chiara ambizione sul fronte diplomatico: è infatti altamente probabile che il presidente russo voglia giocare la carta della sua equidistanza tra Pyongyang e Seul per proporsi come mediatore e facilitare in questo modo un processo di pacificazione interno alla penisola coreana. Un obiettivo accarezzato non solo in termini di prestigio ma anche per allontanare parzialmente Corea del Nord e Corea del Sud rispettivamente da Pechino e Washington. Si tratta del resto di una strategia che Putin ha mostrato di coltivare già in passato. Da una parte ha spesso enfatizzato il rapporto di cordialità intrattenuto con entrambe le Coree. Dall'altra, non ha tuttavia risparmiato ad entrambe alcune critiche. Non solo Putin si è espresso contro il dispiegamento del sistema antimissilistico americano Terminal High Altitude Area Defense in Corea del Sud ma ha anche disapprovato gli esperimenti nucleari attuati in passato da Pyongyang. Inoltre, al di là della questione relativa alla denuclearizzazione, parrebbe proprio che al centro dei pensieri del Cremlino ci sia anche la realizzazione della Trans-Korean Main Line: un circuito ferroviario che di fatto estenderebbe la Transiberiana alla penisola coreana. Un'infrastruttura importantissima che potrebbe inserirsi nel quadro del progetto cinese della Nuova Via della Seta. In questo senso, rafforzare i rapporti con Pyongyang diviene evidentemente parte integrante di una strategia più complessiva. Da alcuni anni, Putin sta infatti cercando di rilanciare la propria iniziativa geopolitica ed economica nella regione asiatica: una via intrapresa per trovare sbocchi alternativi a un Occidente (tanto americano quanto europeo) che sembra farsi sempre più ostile nei confronti di Mosca. Un piano certamente ambizioso. Ma non indolore. Questo nuovo avvicinamento tra il Cremlino e la Corea del Nord non sarà probabilmente digerito dalle parti di Washington. Non solo perché Putin tende ad inserirsi in un processo diplomatico di cui la Casa Bianca aveva sinora detenuto l'iniziativa. Ma anche perché, nei mesi passati, gli Stati Uniti hanno più volte accusato Mosca di aver indebitamente aggirato le sanzioni comminate al regime di Pyongyang. In particolare, ad aprile del 2018, alcuni senatori repubblicani sostennero che la Russia continuasse a rifornire la Corea del Nord di petrolio. La situazione si fece non poco incandescente, tanto da far nascere un dibattito politico tra Washington e Mosca sugli obiettivi dello strumento sanzionatorio: se per gli americani l'obiettivo di queste misure sarebbe quello di mettere sotto pressione i regimi avversi nella speranza di mutarne atteggiamenti o leadership, per i russi la sanzione presenterebbe la semplice (e limitata) finalità di punire comportamenti specifici. Il punto è che, al di là delle divergenze di opinione, l'iperattivismo russo in Asia rischia di allontanare ulteriormente gli Stati Uniti da Mosca. Bisognerà quindi vedere in che modo Putin giocherà le sue carte sul dossier nordcoreano. Se punterà a estromettere Washington oppure a coinvolgerla. Le incognite all'orizzonte restano tuttavia numerose.
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Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.
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Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
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