Questo parametro viene usato per colpevolizzare i cittadini e addossar loro la colpa di basse retribuzioni. Ma i problemi sono strutturali, dal cambio agli investimenti.
Questo parametro viene usato per colpevolizzare i cittadini e addossar loro la colpa di basse retribuzioni. Ma i problemi sono strutturali, dal cambio agli investimenti.C’è un enorme elefante nella stanza: il percettore di un reddito fisso da pensione o lavoro dipendente da marzo deve fronteggiare un’inflazione superiore del 6% rispetto agli stessi mesi del 2021 e il suo reddito non si muove di un centesimo. Questi sono i fatti. Con l’aggravante che il suo paniere di spesa è diverso da quello Istat, ed è ragionevole ipotizzare che componenti come prodotti energetici e alimentari freschi - in crescita costante rispettivamente del 40% e 8% circa - abbiano un’incidenza relativamente superiore.Le risposte che riceve sono essenzialmente tre: la prima arriva dalla Commissione Ue, che gli dice che può attingere ai suoi risparmi; la seconda è quella del governo, che gli dice che ci sono risorse soltanto a saldi di bilancio invariati, cioè imponendo nuove tasse e tagliando spese, all’insegna di una sempiterna guerra tra poveri; la terza gli arriva dagli imprenditori, o meglio dai loro non proprio disinteressati corifei, che gli dicono che il suo salario non può crescere perché la sua produttività è bassa.Il grafico in pagina è generalmente equiparato alle tavole della legge, e la discussione è chiusa.Facile immaginare le perplessità di chi riceve una simile risposta e si chiede perché, a partire dalla fine degli anni Novanta, si sia aperta una significativa forbice tra la crescita della produttività del lavoro italiana, che è rimasta impercettibile, e quella di altri Paesi a noi comparabili. Le cifre parlano chiaro: dal 1995 al 2020, la crescita media annua in Italia e Spagna è stata dello 0,4%, in Francia e Germania, rispettivamente 1,2% e 1,3%. L’errore metodologico è a monte: l’idea che la produttività sia un «primo motore immobile» da cui origina il bene o il male, come un fuoco sacro che si accende o smette di ardere per imperscrutabile motivi, è smentita dall’evidenza empirica. Essa non è causa, ma effetto dell’operare di numerosi fattori. In primis, è il risultato di un rapporto: tra il valore aggiunto, cioè il valore della produzione di beni e servizi al netto del costo dei beni intermedi, e le ore lavorate. In altre parole, è il valore che viene destinato alla remunerazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) per ogni ora lavorata, con l’essenziale precisazione che tale valore è considerato al netto dell’inflazione.Ora mettiamoci nei panni di chi viene tacciato di scarsa produttività e sa che la sua azienda, per esempio, ha dovuto attendere mesi per ricevere un’autorizzazione decisiva per l’apertura di una nuova sede, oppure che ha dovuto produrre a singhiozzo per l’assenza di ordini in un mercato stagnante. Oppure, passando dal manifatturiero ai servizi, pensiamo a chi ha atteso invano che il proprio negozio o albergo si riempisse di clienti. In questi casi, il maggiore o minore impegno del lavoratore è ininfluente.Sono tutti esempi che ci dimostrano come la variazione della produttività del lavoro sia il risultato di fattori ambientali, strutturali e tecnologici tra cui spicca la domanda di beni e servizi e l’offerta di lavoro precario e sottopagato. È troppo facile e perfino fuorviante dire - come si legge nell’intervista del professor Pietro Ichino rilasciata ieri a ItaliaOggi - che «l’andamento delle retribuzioni è strettamente correlato con quello della produttività del lavoro. Se questa non cresce, difficilmente possono crescere quelle». E quindi spiegare la stagnazione salariale con quella della produttività. Spiegazione che non regge, perché anche quando la produttività è cresciuta più delle retribuzioni, queste ultime non l’hanno seguita. Non regge nemmeno il solito ritornello del nanismo delle imprese e dell’insufficiente livello di spese in ricerca e sviluppo, fenomeni preesistenti alla stagnazione della produttività, che non hanno impedito alla produttività di reggere il ritmo dei nostri concorrenti per buona parte degli anni Novanta. Ma soprattutto è una spiegazione che non tiene conto dell’effetto negativo sulla produttività determinato da un’offerta di lavoro poco qualificato, molto flessibile nelle modalità di impiego e sottopagato. La riforma Treu degli anni Novanta e il Jobs act sono legati da un filo rosso e hanno modificato in quel senso il mercato del lavoro. Tuttavia, si è purtroppo trascurato che ogni fattore produttivo, lavoro in primis, deve essere scarso e ben pagato per essere impiegato in modo efficiente.Ichino convince ancora meno quando attribuisce il ritardo del nostro Paese alla scarsa apertura agli investimenti diretti esteri e «a mantenere in vita enti pubblici, così come aziende private, poco o per nulla produttivi più a lungo di quanto accada negli altri Paesi» e propone trasferimenti (coatti?) dei lavoratori da imprese meno produttive a più produttive.Tutto, pur di non ammettere che il sistema produttivo italiano - caso unico al mondo di Pmi con vocazione internazionale - è stato privato della fondamentale leva competitiva del cambio e, da allora, vive di moderazione salariale. Ma oggi è arrivato il diavolo dell’inflazione e, notoriamente, non porta con sé anche i coperchi.
Ansa
Dimenticata la «sensibilità istituzionale» che mise al riparo l’Expo dalle inchieste: ora non c’è Renzi ma Meloni e il gip vuole mettere sotto accusa Milano-Cortina. Mentre i colleghi danno l’assalto finale al progetto Albania.
Non siamo più nel 2015, quando Matteo Renzi poteva ringraziare la Procura di Milano per «aver gestito la vicenda dell’Expo con sensibilità istituzionale», ovvero per aver evitato che le indagini sull’esposizione lombarda creassero problemi o ritardi alla manifestazione. All’epoca, con una mossa a sorpresa dall’effetto immediato, in Procura fu creata l’Area omogenea Expo 2015, un’avocazione che tagliò fuori tutti i pm, riservando al titolare dell’ufficio ogni decisione in materia.
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Dopo il Ponte tocca ai Giochi. Per il gip sarebbe «incostituzionale» il decreto con cui il governo ha reso «ente di diritto privato» la Fondazione Milano-Cortina. Palla alla Consulta. Si rifà viva la Corte dei Conti: la legge sugli affitti brevi favorirà il sommerso.
Da luglio la decisione sembrava bloccata nei cassetti del tribunale. Poi, due giorni dopo l’articolo della Verità che segnalava la paralisi, qualcosa si è sbloccato. E così il giudice delle indagini preliminari Patrizia Nobile ha accolto la richiesta della Procura di Milano e ha deciso di rimettere alla Corte Costituzionale il decreto legge del governo Meloni che, nell’estate 2024, aveva qualificato la Fondazione Milano-Cortina 2026 come «ente di diritto privato». La norma era stata pensata per mettere la macchina olimpica al riparo da inchieste e blocchi amministrativi, ma ora finisce sotto la lente della Consulta per possibile incostituzionalità.
Il ministro della giustizia libico Halima Abdel Rahman (Getty Images)
Il ministro della giustizia libico, Halima Abdel Rahman, alla «Verità»: «L’arresto del generale dimostra che il tempo dei gruppi armati fuori controllo è finito e che anche la Rada deve sottostare al governo di Tripoli». Pd e M5s attaccano ancora l’esecutivo. Conte: «Italia umiliata».
Il caso di Osama Almasri Anjim, arrestato e rinviato a giudizio delle autorità libiche ha scatenato una dura polemica politica fra governo e opposizione. L’ex capo di una delle più potenti milizie di Tripoli a gennaio scorso era stato rimpatriato con un volo di Stato dopo essere stato arrestato in esecuzione di un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Il governo aveva motivato il suo allontanamento con la pericolosità del soggetto, che era stato accolto a Tripoli da centinaia dei suoi fedelissimi con bandiere e scariche di kalashnikov.
Ansa
Raid Idf contro Hezbollah. Witkoff: «Il Kazakistan aderirà agli Accordi di Abramo».
Uno dei principali esponenti di Hamas, Moussa Abu Marzouk, ha rivelato che la sua organizzazione e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) hanno raggiunto un’intesa preliminare per la creazione di un comitato provvisorio incaricato di gestire la Striscia di Gaza in nome dell’Anp. La notizia, riportata dal Times of Israel, segna un possibile punto di svolta nella complessa governance dell’enclave palestinese, sebbene permangano numerose incognite. Secondo quanto dichiarato da Abu Marzouk all’emittente amica Al Jazeera, il nuovo organismo avrebbe la responsabilità di sovrintendere ai valichi di frontiera e di coordinare le forze di sicurezza locali, sotto la presidenza di un ministro dell’Anp.






