2023-10-31
Grana per Putin: vampata jihadista in Russia
Per alcuni, il conflitto tra Israele e Hamas favorirebbe Mosca, che può avere mano libera in Ucraina. Ma il brutto incidente in Daghestan smentisce tutti: gli islamisti della Federazione rischiano di mandare a monte l’intesa tra lo zar e Gerusalemme. Teheran ha contattato la Santa Sede per risolvere insieme la questione palestinese.Lo speciale contiene due articoli.L’assalto della folla in Daghestan contro un aereo proveniente da Israele ha portato all’arresto di 60 persone. Si tratta di un episodio che fa riflettere. Il primo elemento da sottolineare risiede, ovviamente, in un preoccupante aumento di sentimenti antisraeliani e antisemiti in giro per il mondo. Un secondo aspetto riguarda gli impatti destabilizzanti che la crisi mediorientale in corso potrebbe avere sulla Russia. Non è infatti escludibile che l’incremento della tensione a Gaza possa rinfocolare quelle spinte jihadiste che, in territorio russo, continuano a covare sotto la cenere. E ci riferiamo, in particolare, al Caucaso settentrionale. Da questo punto di vista, l’assalto all’aeroporto in Daghestan potrebbe rappresentare un campanello d’allarme per Vladimir Putin. Ricordiamo che il Daghestan è una repubblica russa a maggioranza musulmana che, insieme ad altre repubbliche dell’area, fu protagonista di un’insurrezione jihadista durata, a fasi alterne, dal 2010 al 2017: una spina nel fianco del governo russo che continua a temere un ritorno della minaccia islamista. Ad agosto 2021, il think tank americano Jamestown Foundation sostenne che la caduta di Kabul in mano ai talebani avrebbe potuto riaccendere il jihadismo nel Caucaso settentrionale: in particolare, il pensatoio ipotizzò che i gruppi ribelli islamici della Russia meridionale avrebbero potuto riprendere le armi e che un gran numero di nord-caucasici, recatisi in Afghanistan a combattere insieme ai talebani, avrebbe potuto fare ritorno in patria «per cercare di promuovere lì la jihad». Ieri, Putin ha accusato Kiev e i «servizi speciali occidentali» di aver avuto un ruolo nel fomentare l’assalto all’aeroporto, mentre le autorità del Daghestan hanno sostenuto che l’aggressione sarebbe stata organizzata dal canale online di un oppositore del Cremlino riparato in Ucraina, Ilya Ponomarev: un’accusa tuttavia respinta da quest’ultimo, che ha replicato di non avere più il controllo del canale in questione da oltre un anno. Non è quindi improbabile che, alla base del grave episodio dell’aeroporto, vi siano ragioni (almeno in parte) connesse a spinte islamiste. D’altronde, al di là del Daghestan, la crisi di Gaza sta creando delle fibrillazioni anche in altre repubbliche russe a maggioranza musulmana. Nella Repubblica di Cabardino-Balcaria è stato incendiato e vandalizzato un centro culturale ebraico in costruzione, mentre nella Karacaj-Circassia alcuni manifestanti hanno chiesto l’espulsione della locale popolazione ebraica. Sarà un caso, ma entrambe queste repubbliche furono interessate dall’insurrezione jihadista avviata nel 2010. Infine, secondo la testata Realnoe Vremya, la comunità musulmana del Tatarstan ha intenzione di promuovere una raccolta fondi per gli abitanti di Gaza, mentre il suo mufti avrebbe recentemente parlato di «genocidio del popolo palestinese». E attenzione: per Putin il problema non deriva solo dall’eventuale risveglio di gruppi islamisti. Anche un suo alleato come il leader ceceno, Ramzan Kadyrov, ha assunto posizioni molto critiche di Israele. «Sosteniamo la Palestina. E siamo contrari a questa guerra, che a differenza di altri conflitti può degenerare in qualcosa di più grande», ha detto il 9 ottobre, aggiungendo: «Se necessario, le nostre unità sono pronte ad agire come forza di mantenimento della pace per ripristinare l’ordine e contrastare eventuali fomentatori». Parole rispetto a cui il Cremlino cercò quasi di gettare acqua sul fuoco, precisando: «Abbiamo legami storici di lunga data con i palestinesi, continuiamo i nostri contatti, ma allo stesso tempo abbiamo anche rapporti con lo Stato di Israele». Eppure il 17 ottobre, Kadyrov è tornato alla carica, affermando: «Se il regime israeliano pensa che la Palestina è sola e che può farne quello che vuole, si sbaglia gravemente». Ricordiamo che, oltre a essere uno stretto alleato di Putin, il leader ceceno è uno dei protagonisti dell’invasione russa dell’Ucraina. Per lo zar si tratta di una situazione spinosa. La sua politica mediorientale, nell’ultimo decennio, era basata sul tentativo di andare più o meno d’accordo con tutti, per mantenere in piedi una fitta rete d’influenza al servizio degli interessi russi. Non ha infatti solo rafforzato i legami con gli alleati storici (Iran e Siria), ma, pur a fronte talvolta di qualche attrito, ha consolidato i rapporti anche con Arabia Saudita e Israele. Non a caso, proprio con lo Stato ebraico ha avviato un «meccanismo di deconflitto» in Siria nel 2015. Adesso, la crisi in corso è foriera di rilevanti rischi per Putin. Al di là del pericolo di nuove tensioni jihadiste in territorio russo, i rapporti di Mosca con Gerusalemme si stanno deteriorando, soprattutto dopo che una delegazione di Hamas è stata recentemente ricevuta dal ministero degli Esteri russo. Spinto dal dossier ucraino, Putin sta cercando di rinsaldare l’asse antiamericano per indebolire Washington. Tuttavia questa strategia rischia di azzoppare seriamente la sua politica mediorientale: una politica che vedeva proprio nel rapporto con Israele un pilastro importante. E, mentre lo zar perde terreno nella regione, Pechino tenterà di approfittarne. Ciononostante, pur rendendosi conto di questo rischio, Mosca non può oggi fare a meno del Dragone. Non a caso, il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, ha preso parte allo Xiangshan Forum di Pechino, usando l’occasione per criticare l’Occidente. «La linea occidentale di costante escalation del conflitto con la Russia comporta la minaccia di uno scontro militare diretto tra le potenze nucleari», ha detto. Accuse velate agli Usa sono arrivate anche dal vicepresidente della Commissione militare centrale cinese, Zhang Youxia, secondo cui «alcuni Paesi» punterebbero a indebolire Pechino. «I militari cinesi non permetteranno mai l’indipendenza di Taiwan», ha anche detto. Ciononostante, pur invocando maggiore cooperazione strategica con Mosca, Zhang ha aperto allo sviluppo di legami militari con Washington, la quale ha mandato una propria delegazione allo Xiangshan Forum.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/grana-per-putin-vampata-jihadista-2666101609.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="liran-chiama-il-vaticano-per-gaza-e-dietro-spunta-lombra-della-cina" data-post-id="2666101609" data-published-at="1698705431" data-use-pagination="False"> L’Iran chiama il Vaticano per Gaza. E dietro spunta l’ombra della Cina La Santa Sede e la Repubblica islamica dell’Iran si sono confrontate sulla crisi di Gaza. Stando a quanto riferito dal direttore della Sala stampa vaticana, Matteo Bruni, ieri mattina «si è svolta una conversazione telefonica tra monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali, e Hossein Amir-Abdollahian, ministro degli Affari esteri della Repubblica islamica dell’Iran, richiesta da quest’ultimo». «Nella conversazione», ha proseguito Bruni, «monsignor Gallagher ha espresso la seria preoccupazione della Santa Sede per quanto sta accadendo in Israele e in Palestina, ribadendo l’assoluta necessità di evitare di allargare il conflitto e di addivenire alla soluzione dei due Stati per una pace stabile e duratura nel Medio Oriente». «Crediamo che la crisi palestinese debba essere fondamentalmente risolta e che la soluzione politica sia indire un referendum sotto l’egida dell’Onu tra tutti i residenti originari della Palestina, includendo cristiani, ebrei e musulmani», ha detto Abdollahian durante il colloquio, secondo quanto riportato dall’account X del ministero degli Esteri iraniano.Al di là della telefonata in sé, l’aspetto politicamente più interessante è che sia stata Teheran a chiedere una conversazione con i vertici vaticani sulla crisi di Gaza. D’altronde, già lo scorso 23 ottobre Abdollahian aveva inviato a Gallagher una lettera molto critica nei confronti di Israele. Senza infine trascurare che ad aprile 2022 i due avevano avuto un’altra telefonata, discutendo, tra le altre cose, della questione palestinese. Sotto questo aspetto, non è escludibile che, dietro le quinte, sia stata la Cina ad aver agito come collegamento. Si tratta solo di un’ipotesi, sia chiaro. Ma è un’ipotesi che vale la pena di prendere in considerazione. Pechino sta invocando da giorni un cessate il fuoco e la soluzione dei due Stati. Inoltre, vanta legami significativi sia con la Santa Sede sia con Teheran. Era marzo 2021, quando la Cina ha siglato con l’Iran un accordo di cooperazione venticinquennale. Dall’altra parte, non è un mistero che, a settembre 2018, fu firmato il controverso accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi: un accordo che è stato finora rinnovato due volte, nel 2020 e nel 2022. Ora, è indubbiamente comprensibile che la Santa Sede si attivi per cercare delle soluzioni politiche e diplomatiche alla crisi in corso. Ed è altrettanto comprensibile che parli con tutti gli attori internazionali senza preclusioni. Bisogna però prestare anche molta attenzione. Come riferito dal New York Times e dal Wall Street Journal, Teheran non è estranea al brutale attacco contro Israele del 7 ottobre. Senza poi trascurare che i suoi legami con Hamas ed Hezbollah sono arcinoti. Il regime khomeinista ha d’altronde tutto l’interesse a sfruttare la crisi in atto per il proprio tornaconto, puntando a spingere i Paesi arabi verso posizioni di netta divergenza con lo Stato ebraico. Un discorso analogo vale per la Cina. La Repubblica popolare ha votato a favore di una recente risoluzione dell’Onu per invocare un cessate il fuoco, ma si è schierata contro un emendamento volto a inserire in quella stessa risoluzione una condanna di Hamas. È quindi assai improbabile che Pechino stia agendo per motivazioni autenticamente umanitarie. Il fondato sospetto è che si stia scaltramente muovendo con l’unico obiettivo di indebolire l’influenza occidentale sul Medio Oriente.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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