L’eventuale successo di Xi Jinping come mediatore renderebbe più difficile per Roma sospendere il memorandum del 2019. Di cui il nostro Paese può fare a meno, visto il progressivo calo degli investimenti esteri di Pechino.
L’eventuale successo di Xi Jinping come mediatore renderebbe più difficile per Roma sospendere il memorandum del 2019. Di cui il nostro Paese può fare a meno, visto il progressivo calo degli investimenti esteri di Pechino.La guerra in Ucraina, la mediazione di papa Francesco, la presenza di Volodymyr Zelensky contemporaneamente a Roma da Giorgia Meloni e in Vaticano. Infine, il tour europeo della diplomazia cinese per intestarsi un accordo di pace. Tutto si tiene nei pochi chilometri che vanno da Ciampino fino a Palazzo Chigi e poi oltre Tevere in una giornata in cui la politica italiana ha una valenza più che mai internazionale. Sia in una prospettiva di mantenimento della linea che si cela dietro l’invio di armi sia in quella che potrebbe finire con il sostenere la pace. Ciò che vale la pena analizzare è però il convitato di pietra presente a Roma anche se non invitato da nessuno. Ci riferiamo alla Cina e al ruolo che andrebbe a conquistarsi in caso assurgesse a tutti gli effetti a mediatore tra Russia e Ucraina. Un successo geopolitico di Pechino avrebbe una ricaduta nei rapporti con l’Ue e, per quanto riguarda l’Italia, nel prosieguo eventuale del memorandum sulla Via della seta firmato a marzo del 2019.È risaputo che l’accordo di poche pagine firmato tra Giuseppe Conte, Sergio Mattarella e Xi Jinping scade la prossima primavera, a marzo del 2024. Se però non si interviene prima della fine dell’anno il testo si rinnoverà in automatico. È altrettanto noto che gli Stati Uniti hanno fatto sapere che Roma dovrebbe interrompere l’anomalia (siamo l’unico Paese Ue ad aver aderito) e azzerare l’accordo. Era successo anni fa con Mike Pompeo in visita a Roma. È accaduto di nuovo quando pochi giorni fa è stato in visita dalla Meloni lo speaker della Camera, il repubblicano Kevin McCarthy. Lo stesso politico americano si è recato in Vaticano per incontrare il Papa ritenendo che gli accordi tra la Segreteria di Stato e Pechino sulla nomina dei vescovi non siano un elemento del tutto estraneo al contesto politico che ha spinto il governo Conte a firmare l’accordo nel 2019. Ovviamente l’attuale esecutivo ha una posizione del tutto diversa. Non sembra per nulla intenzionato a mantenere in piedi un accordo così delicato, in quanto coinvolge le infrastrutture, ma al tempo stesso - immaginiamo - non vuole perdere occasioni di business e di commercio con il Dragone. Qui vale la pena andare a prendere i numeri e sfatare qualche mito. Nel corso degli ultimi 20 anni, il nostro Paese ha beneficiato di investimenti diretti cinesi per un valore vicino ai 16 miliardi di euro. Tanto quanto è toccato alla Francia, la metà della Germania e molto meno della Gran Bretagna che ha sfiorato gli 80 miliardi di investimenti. La Spagna è ferma a 5,5, più della Grecia e meno dell’Irlanda, che viaggia sugli 8 miliardi. All’Ungheria quasi tre miliardi. I picchi degli investimenti di Pechino si sono segnati nel 2014, 2015 e 2016, quando da noi Franco Bassanini, allora in Cdp, e Matteo Renzi vendettero un terzo di Cdp Reti a China State Grid per l’importo di 2 miliardi. Un vero affare. Non per noi, ma per loro. Basti pensare che in soli cinque anni hanno ricevuto indietro oltre 2,3 miliardi di dividendi e se ora dovesse vendere ne riceverebbero non meno di 3. Se poi analizziamo lo studio pubblicato da Rhodium group, vediamo che i flussi di investimenti di Pechino sono scemati ovunque. L’Italia, pur dentro la Belt and road initiave, non ha avuto alcun beneficio. Certo, nel frattempo il partito comunista cinese per motivi valutari ha posto numerosi limite agli investimenti esteri e soprattutto gran parte degli obiettivi della stagione precedente (dal 2012 al 2018) i cinesi li avevano già conseguiti in precedenza. Il progetto era infatti succhiare know how e tecnologia. Dunque resta aperto l’altro fronte, quello del commercio e dell’export. Qui si c’è stata una impennata rispetto al periodo pre Covid. Si è passati da circa 12 a oltre 16 miliardi. Però è impressionante quanto è aumentato l’import di prodotti cinesi. Siamo passati dai 32 miliardi del 2020 ai 57 dello scorso anno. Insomma, di chi è maggior beneficio? In parte nostro, ma nulla che non possa essere bilanciato. Certamente sarebbe un errore rompere i rapporti, ma non serve un memorandum per fare business. Per questo basta il Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio a cui la Cina ha aderito (pur facendosene beffe) nel lontano 2001. È chiaro che a Pechino serve che l’Italia resti nella Via della seta. Dopo la tecnologia serve il controllo delle infrastrutture. Una combinazione fondamentale per le future sfide. Dalle quali il nostro Paese rischia di rimanere tagliato fuori se non prende una decisione. Pensiamo a chi si è seduto nel cda di Terna e delle altre controllate di Cdp Reti. Si chiama Qinjing Shen ed è il rappresentante di State Grid in Italia. Ecco, lungo le reti passeranno dati sempre più sensibili e sviluppi dell’Intelligenza artificiale. Investiranno mai fondi Usa legati ad agenzie federali se sanno che un rappresentante del Pcc siede nel cda e riceve informazioni sensibili? La risposta è semplice ed è «no». Per questo i prossimi mesi sono molto delicati per le scelte a cavallo tra Est e Ovest. Se la Cina guadagnasse il ruolo di mediatore di pace in Ucraina, per metà dell’intellighenzia italiana sarebbe ancora più facile remare a favore di Pechino. L’esperienza delle porcherie del periodo Covid e delle mascherine a prezzi maggiorati potrebbe non servirci a nulla. Di solito chi sta con la Cina a pié sospinto lo fa per interessi personali, più che per il senso dello Stato.
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