2022-07-14
Psicodramma grillino sullo strappo. Il governo è appeso a una telefonata
Giuseppe Conte (Imagoeconomica)
Giuseppe Conte stretto tra i senatori che invocano l’Aventino in Senato e le minacce dei dem. La chiamata con Mr Bce riapre spiragli: «Stanno ancora trattando». Entra a gamba tesa pure il Vaticano: «Serve un esecutivo stabile».Una giornata letteralmente estenuante come quella di ieri non basta per sciogliere il nodo sul voto di fiducia di oggi al Senato sul decreto Aiuti. Una telefonata tra Mario Draghi e Giuseppe Conte, ieri pomeriggio, riapre almeno per qualche ora quei giochi che, al termine del primo round del consiglio nazionale del M5s, durato l’intera mattinata, sembravano chiusi, con la stragrande maggioranza dei pentastellati orientata a uscire dall’Aula al momento del voto. Al Senato, ricordiamolo, non è possibile fare come alla Camera, dove i grillini hanno votato sì alla fiducia ma non hanno partecipato al voto sul decreto (sul quale si erano astenuti anche a maggio in Consiglio dei ministri). A Palazzo Madama si vota tutto insieme, non ci sono scappatoie. Conte e Draghi, i due premier di questa folle legislatura, i due protagonisti del braccio di ferro, si sentono intorno alle 16, discutono dei famigerati nove punti considerati irrinunciabili da Giuseppi per continuare a sostenere il governo, votando sì alla fiducia sul dl Aiuti: «Draghi», commenta un big pentastellato, «sta valutando se accettare le nostre proposte». Proposte che sono, lo ricordiamo, l’intoccabilità del reddito di cittadinanza; l’introduzione del salario minimo; il contrasto al precariato; più aiuti a famiglie e imprese con scostamento di bilancio e taglio del cuneo fiscale; il proseguimento sul percorso della transizione ecologica; lo sblocco delle cessioni di crediti per il superbonus; l’applicazione del cashback fiscale; un intervento di agevolazione per chi è in debito con il fisco e l’introduzione di una clausola sulle leggi delega. «Il M5s», dice alla Verità una fonte dell’esecutivo informata dei contenuti del colloquio, «non ha ancora deciso cosa fare. Si è parlato dell’agenda di governo, sui vari punti si sta lavorando e approfondendo». «Stanno trattando», sintetizza un addetto ai lavori molto bene informato, «ma si cammina sul filo del rasoio». Conte è intrappolato tra la voglia matta di molti suoi senatori di uscire dall’Aula e le pressioni enormi che arrivano dall’interno e dall’esterno, con Draghi che continua a brandire l’ascia di guerra minacciando un suo addio al governo in caso di uscita del M5s. Lo stesso Enrico Letta, paladino della stabilità, ieri pomeriggio ci mette il carico: «Lo dico sommessamente», sottolinea il segretario dei dem, «non voglio venga visto come un ricatto, ma se una forza politica come il Movimento 5 stelle lascia il governo si va al voto». Trattasi di ricatto (politico) bello e buono, oltre che di una sgrammaticatura istituzionale molto grave: la decisione sullo scioglimento delle camere spetta al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non a un segretario di partito, ma il leader del Pd, evidentemente in accordo con lo stesso Draghi, gioca la carta della paura del voto per tentare di riportare Conte sulla (secondo lui) retta via. C’è da capirlo, Letta: un M5s all’opposizione di un governo che si appresta ad affrontare una crisi economica sanguinosa costituirebbe una spina nel fianco, dal punto di vista dei consensi, per il Pd, appiattito più di ogni altro partito su Draghi. È il senatore dem Andrea Marcucci a bacchettare pubblicamente il suo segretario: «I comportamenti del M5s», twitta Marcucci, «non ci hanno mai autorizzato a fare previsioni. Ricordiamoci però che nel momento successivo ad una eventuale loro uscita dall’Aula, la palla passa direttamente nelle mani del capo dello Stato. Ragionare sulla fine della legislatura, è quanto meno prematuro». Marcucci non fa altro che fotografare la realtà: se pure il M5s oggi uscisse dall’Aula non votando la fiducia, e se Conte si spingesse a ritirare i ministri dall’esecutivo, uscendo dalla maggioranza, il governo potrebbe infatti contare su 456 voti alla Camera (la soglia minima per ottenere la fiducia è 316) e 214 al Senato (la soglia è 161). Basterebbe sostituire i tre ministri M5s (Stefano Patuanelli all’Agricoltura, Fabrizio D’Incà ai Rapporti col Parlamento e Fabiana Dadone all’Agricoltura) per andare avanti senza troppi problemi. Tra l’altro, come ben sa chi ha un minimo di dimestichezza con il funzionamento delle istituzioni, trattandosi di ministri non di primo piano non sarebbe necessario rifare il governo da capo, ma basterebbe un rimpastino per continuare la navigazione. Una buona notizia per Giuseppi arriva in serata: il tribunale di Napoli rigetta il ricorso degli attivisti contro le votazioni online sulle modifiche apportate allo statuto che hanno preceduto l’elezione di Conte alla carica di presidente. Anche il Vaticano si fa sentire: «Credo», dice il segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Pietro Parolin, «che nello scenario attuale più un governo è stabile più riuscirà a fare fronte alle tante sfide che si pongono e che sono davvero epocali, che nessuno poteva immaginare. Ci vuole responsabilità, dobbiamo metterci tutti a lavorare insieme. E non dividerci». Tra tante parole, l’unico fatto concreto è che ieri I senatori del M5s presenti nella commissione Bilancio si sono astenuti sul parere al decreto Aiuti. Il deputato grillino Francesco Berti intanto dice addio a Conte e passa con Luigi Di Maio. Alle 20 ricomincia il Consiglio nazionale, Conte riferisce i contenuti della telefonata con Draghi. A seguire, riunisce i parlamentari. Oggi al Senato non saranno ammessi giochetti: stavolta è dentro o fuori, per il M5s è arrivata l’ora delle decisioni.