2024-06-27
Alla ricerca di se stessi nell’Ultima Thule: Mabire e la religione nordica
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Jean Mabire (Getty Images)
Appena tradotta in italiano una guida al pantheon norreno dell’autore francese, che fu «fratello maggiore» degli intellettuali che fondarono la Nouvelle Droite.Il mondo delle divinità nordiche rappresenta un serbatoio eterno di riferimenti mitologici, canoni narrativi e frammenti di immaginario che non cessa di affascinarci. Basti solo pensare, tanto per fare un riferimento recente, alla splendida pellicola The Northman, del 2022, diretta da Robert Eggers, trasposizione cinematografica della storia di Amleth così come narrate nelle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus. O a Ragnarok, serie televisiva danese-norvegese in cui la lotta tra dèi norreni e giganti viene trasposta in un teen drama contemporaneo a tinte green. Ma serie tv, fumetti, romanzi a tema nordico non si contano, che si tratti di prodotti storicamente fondati o di opere fantasy alla Game of Thrones, che comunque a quelle atmosfere estetiche vanno ad attingere. La ragione di tale popolarità è semplice: si tratta di un bagaglio mitico che da una parte, soprattutto per noi mediterranei, suona «esotico», ma dall'altro coglie indubbiamente qualcosa di molto più familiare, una sorta di memoria ancestrale solo parzialmente obliata, esattamente come quei germani che a Tacito apparivano portatori di usanze spesso bislacche, ma non di meno gli ricordavano virtù e mentalità che la romanità aveva perduto. Quello che Tacito non poteva sapere e che noi invece sappiamo, è che questa sensazione simultanea di lontananza e vicinanza ha un fondamento nel comune passato indoeuropeo che lega popoli mediterranei e nordici, così come le antiche civiltà iraniche o indiane.Al pantheon nordico è dedicato un libro appena uscito per i tipi di Moira, Gli dei maledetti, del francese Jean Mabire. Scomparso nel 2006, Mabire non è stato solo un brillante e prolifico scrittore: nato nel 1927, è stato una delle anime del mondo identitario europeo, diffondendo per decenni il pensiero suo regionalista, ecologista, radicato, di matrice attiva, concreta, scoutistica. Insieme a Dominique Venner è stato il «fratello maggiore» della generazione di giovani che a fine anni Sessanta diede vita alla Nouvelle Droite. Con questo pedigree, non stupisce che un autore del genere sia finito a interessarsi a Odino, Thor e i loro fratelli. Come riconosce Mabire stesso:«Se c'è un libro che dovevo scrivere, è proprio questo. Normanno di origine e di passione, fondatore della rivista Viking, collaboratore di Heimdal o di Haro che ne hanno ripreso il testimone, autore di una storia dei Normanni e di un'epopea dei Vichinghi, cronista delle esplorazioni polari, familiare alle Saghe - almeno quelle tradotte in francese - pellegrino fervente verso il sole iperboreo dell'ultima Thule, navigatore il cui compasso sentimentale si ostina da qualche decennio a segnare sempre il Nord, dovevo rendere agli dèi di Asgard la vita che mi avevano un tempo offerto. Da un po’ sognavo di raccontare i loro viaggi, per renderli familiari e popolari, come si addice a dèi del nostro clan».Si capisce bene come l’autore non abbia inteso svolgere una mera ricognizione erudita in terra mitologica. Per quanto Gli dei maledetti possa funzionare anche semplicemente come «enciclopedia», come introduzione divulgativa al tema di cui sopra, è evidente come Mabire abbia voluto realizzare un’opera militante, decisamente partecipe. Lo riconosce lo stesso autore francese: «Per affrontare la mitologia "barbara", oserei quasi dire che bisogna già possedere la fede. Non la credenza in un dogma e ancora meno la sottomissione a una cappella, ma uno slancio dell'anima verso un altrove che gli antichi posizionavano nell’Ultima Thule, ai limiti settentrionali del mondo conosciuto. Affrontare davvero l'universo spirituale nordico, di cui la mitologia è solo un aspetto, non può essere solo un passatempo o una curiosità, ma è una scoperta ed una ricerca, che alcuni hanno paragonato alla ricerca del Graal. Ma senza la mistica, il Graal qui è solo un calice». Quanto al confronto Nord-Sud cui si accennava in apertura, è lo stesso Mabire a chiarire: «Opporre in un confronto assoluto il Sud e il Nord porta a mutilare gravemente un'eredità comune. […] Chiunque abbia una certa familiarità con la mitologia mediterranea non troverà nella mitologia scandinava un clima significativamente diverso. Superato il primo momento di sorpresa, causato soprattutto dalla sonorità di nomi insoliti per chi non conosce le lingue germaniche, non è necessario insistere troppo a lungo su questo punto. Apollo e Balder non sono nemici, ma fratelli, o almeno cugini».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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