2024-10-04
Gli arabo-americani abbandonano la Harris
La storica base elettorale dei dem, irritata dall’arrendevolezza di Washington su Teheran e dalla gestione della crisi di Gaza, vira su Donald Trump nella speranza di un ritorno alla logica degli Accordi di Abramo. Un vero boomerang per il voto in Michigan e Wisconsin.Gli Accordi di Abramo potrebbero giocare un ruolo cruciale in vista delle presidenziali americane di novembre. Per capire come ciò sia possibile, occorre fare un passo indietro e partire da alcuni sommovimenti in corso nell’elettorato d’Oltreatlantico. Secondo un sondaggio dell’Arab American institute, Donald Trump è passato in vantaggio nel voto degli arabo-americani: in particolare, il tycoon sarebbe al 46%, mentre Kamala Harris si fermerebbe al 42%. Si tratta di una svolta notevole, visto che, nel 2020, gli arabo-americani che votarono per Joe Biden furono il 59%. A rendere ancora più significativi questi risultati c’è il fatto che Trump sta riuscendo contemporaneamente a mantenere la sua storica base elettorale di ebrei americani: secondo il Jewish democratic council of America, il candidato repubblicano avrebbe il 25% di questo elettorato contro il 68% della Harris. Quattro anni fa, secondo l’organizzazione J Street, Trump aveva invece ottenuto il 21% del voto ebraico a fronte del 77% raccolto da Biden (ricordiamo d’altronde che storicamente circa tre quarti dell’elettorato ebraico negli Usa tende a votare dem alle presidenziali). Addirittura, nello Stato di New York, Trump, secondo il Siena College, sarebbe attualmente avanti alla Harris nel voto ebraico di dieci punti: a giugno, era invece Biden a essere in testa con un vantaggio del 6%. Un altro aspetto interessante risiede nel fatto che, stando a un sondaggio condotto da Nishma research a fine settembre, il 68% degli ebrei haredi negli Stati Uniti avrebbe intenzione di votare per il tycoon. Insomma, Trump cresce tra gli arabo-americani e, al contempo, risulta saldo anche nel voto ebraico. Questa situazione può apparire paradossale, ma non è così.Innanzitutto, una parte consistente del mondo arabo-americano è furiosa per come l’amministrazione Biden-Harris sta gestendo la crisi di Gaza. La vicepresidente ha cercato di corteggiare l’estrema sinistra filopalestinese, non partecipando al discorso tenuto da Benjamin Netanyahu al Congresso in luglio e, soprattutto, evitando di scegliere come vice il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro: democratico centrista ebreo e significativamente filoisraeliano. Nonostante un tale appeasement verso i pro Pal, queste galassie sono rimaste ostili alla Harris. Il mese scorso, l’organizzazione che ne raccoglie alcune, l’Uncommitted movement, ha, sì, duramente criticato Trump ma ha anche annunciato che non darà alla vicepresidente il proprio endorsement. Per la Harris si configura un grosso problema. Tale elettorato, storicamente dem, ha infatti un peso notevole in alcuni Stati in bilico, come il Michigan e il Wisconsin: aree, queste, dove la vicepresidente non può permettersi defezioni a sinistra, se non vuole fare la fine di Hillary Clinton nel 2016. Non a caso, mercoledì, la Harris ha incaricato il suo senior advisor, Phil Gordon, di tenere un meeting online con alcuni leader della comunità arabo americana, per rassicurarli sugli sforzi diplomatici della Casa Bianca a Gaza e in Libano: un meeting che tuttavia, secondo Reuters, avrebbe lasciato freddi questi leader, anche se ieri The Hill riferiva della nascita del comitato Arab Americans for Harris-Walz, che difficilmente riuscirà però a invertire il trend a un mese dal voto. È quindi altamente verosimile che un pezzo di arabo- americani possa avere intenzione di votare Trump semplicemente come ripicca nei confronti dell’amministrazione Biden-Harris.Eppure attenzione: il voto per ripicca potrebbe non bastare a spiegare il crescente sostegno degli arabo-americani al tycoon. In fin dei conti, Trump è molto più favorevole a Israele della sua avversaria e, in caso di vittoria, rispolvererebbe la politica della «massima pressione» su Teheran. E qui forse arriviamo al punto decisivo della questione. I Paesi sunniti, a partire dall’Arabia Saudita, sono tutt’altro che addolorati dal recente indebolimento dell’Iran avvenuto grazie alle azioni di Israele. Riad, come Gerusalemme, spera infatti in un ritorno alla logica degli Accordi di Abramo: una logica che aveva come precondizione l’indebolimento di Teheran. Nel 2020, Trump riuscì infatti a mediare la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi, facendo leva sulla loro comune paura nei confronti delle ambizioni nucleari iraniane. Biden, di contro, ha avviato un appeasement verso gli ayatollah, che ha finito per mettere in crisi l’impalcatura degli Accordi di Abramo: non a caso, il suo tentativo di mediare la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita è miserevolmente fallito. Ecco perché oggi, vedendo l’Iran azzoppato e Trump elettoralmente competitivo, Gerusalemme e Riad stanno cominciando a sperare che il processo di normalizzazione possa presto essere rimesso in piedi. Ebbene, queste dinamiche mediorientali si stanno fondamentalmente replicando tra l’elettorato d’Oltreatlantico. Quegli ebrei americani e quegli arabo americani che votano per il tycoon auspicano, assai probabilmente, un ritorno agli Accordi di Abramo. Non a caso, già a maggio alcuni alleati di Trump avevano fatto campagna tra le comunità arabe del Michigan, facendo leva proprio su quegli accordi. È quindi probabile che alcuni arabo americani siano irritati dalla politica soft dell’amministrazione Biden-Harris verso il regime khomeinista. Una politica soft che la candidata dem di fatto confermerebbe, se diventasse presidente: la Harris avrebbe infatti intenzione di nominare come consigliere per la sicurezza nazionale proprio quel Phil Gordon, che fu tra i negoziatori del controverso accordo sul nucleare con l’Iran nel 2015. La vicepresidente, insomma, rischia di pagare elettoralmente caro l’appeasement della sua amministrazione nei confronti degli ayatollah.
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