2025-04-09
Il «profeta» Remuzzi si autoassolve. «Sul Covid errori di comunicazione»
Giuseppe Remuzzi (Imagoeconomica)
Il prof che nel 2022 negava pecche e additava i no vax, ora esalta sul «Corriere» l’eredità della pandemia: «Noi esperti in confusione? No, imparavamo». Peccato spacciassero le loro opinioni come verità assolute.Ora, va bene che sul Covid si è verificata una sorta di rimozione collettiva e che la memoria è stata in qualche modo resettata. Ma, adesso, stiamo davvero esagerando. Che la classe politica e medica responsabile del disastro e colpevole della più feroce e insensata discriminazione della storia repubblicana cerchi di occultare le proprie responsabilità è cosa disgustosa ma facilmente spiegabile, ingiustificabile ma comprensibile (nel senso che si può capire perché lo facciano). Ma che ora chi ha sbagliato tutto venga premiato o si metta addirittura a far lezione, è semplicemente intollerabile.Eppure ieri il Corriere della Sera ha avuto la faccia tosta di pubblicare uno smisurato articolo in cui Giuseppe Remuzzi del Mario Negri celebrava «l’eredità positiva del Covid», spiegando che non bastano «vaccini e mascherine» ma bisogna pure «comunicare bene». Occorre un notevole sforzo per arrivare in fondo al pezzo, bisogna vincere il prurito e il rigetto e forzarsi a sorvolare sui consueti slogan antiscientifici che il professore continua a sciorinare. L’opera, però, risulta comunque istruttiva.«Si è molto discusso», scrive Remuzzi, «degli esperti in tv che “si contraddicevano”, “cambiavano idea da un giorno all’altro”, “avevano ciascuno idee diverse da ciascun altro”. Tutto questo, dicono, ha contribuito a creare confusione. Davvero? Io penso di no. All’inizio qualcuno di noi ha sbagliato, ma stavamo imparando strada facendo; del resto, ha sbagliato anche il più bravo di tutti, Anthony Fauci, che sulle prime considerava improbabile che il virus arrivasse fino agli Stati Uniti. Leggevamo di tutto in quel periodo, in una maniera quasi compulsiva, da una settimana all’altra lo scenario cambiava, e noi ne sapevamo sempre di più; abbiamo provato a condividerle queste conoscenze, senza renderci conto che questo ci allontanava dalla gente».Capito? Loro imparavano strada facendo, hanno talvolta sbagliato. Ma hanno provato a condividere le conoscenze. Fantastico. Solo una domanda: perché, se imparavate strada facendo, ogni volta avete presentato le vostre opinioni come verità assolute, certezze granitiche su cui non si poteva nutrire alcun dubbio? Sarebbe interessante avere una risposta, ma ovviamente non arriverà.«Una cosa abbiamo imparato, noi medici, dal Covid: che d’ora in poi dovremo saper comunicare “l’incertezza” e dovranno saperlo fare anche chi governa la sanità e le istituzioni. Un esempio? Si sarebbe dovuto spiegare che nessuna misura di prevenzione è perfetta, ma che solo combinando diversi approcci ci si protegge davvero». Bravo, bravissimo: bisogna sapere comunicare l’incertezza. Solo che le incertezze erano negate oltre ogni logica, si portava avanti una narrazione unica incuranti delle contraddizioni e degli errori marchiani. Ma aspettate che non è finita. «Molte persone, anche molto colte», insiste Remuzzi, «non capivano in quei momenti perché gli “esperti” avessero visioni diverse su quando fare il richiamo (quattro settimane, sei settimane, due mesi). La ragione è molto semplice: non avevamo dati per poterlo dire con certezza, bisognava che passassero le settimane per saperlo, che si fossero misurati gli anticorpi, che si capisse di che tipo di anticorpi a si stava parlando. […]. A chi ci chiedeva “Diteci una buona volta quando dobbiamo fare il richiamo” avremmo dovuto rispondere candidamente: “Calma, per adesso non lo sappiamo”. Insomma, avremmo dovuto saper comunicare “l’incertezza”, l’abbiamo imparato, la prossima volta non succederà».Certo, ci sarà una prossima volta e loro saranno pronti: non saranno incerti. A questo punto non osiamo immaginare che cosa faranno: campi di sterminio per non vaccinati? Giova ricordare, giusto per avere chiaro il quadro della situazione, che Remuzzi - a proposito di cautela e incertezza - è il signore che nel 2022 sentenziava: «Chi è novax non dovrebbe operare in campo sanitario». Alla faccia dell’incertezza.Ieri, sul Corriere, Remuzzi ha spiegato di aver capito che «all’esterno di solito non ci si ammala: la prossima volta, di persone sole in macchina o che passeggiano nei boschi con la mascherina, non ne vedremo». Un fenomeno vero: sta ammettendo, nei fatti, che i lockdown non sono serviti e che sarebbe stato meglio far circolare liberamente le persone invece di farle stare in casa ad ammalarsi. E la leggerezza con cui lo dice è impressionante: come se non ci fossero state multe e restrizioni, come se in virtù delle idee sbagliate sue e dei suoi colleghi non avessimo vessato una generazione di giovani e bambini, come se una marea di persone non fossero state sottoposte a una persecuzione terrificante.Adesso Remuzzi sostiene che, sulle prime, fosse giusto chiudere le scuole «ma le si sarebbe potute riaprire presto». Dice che le mascherine servono, «ma quelle protettive, però, N95 o equivalenti». Eppure nel 2022 dichiarava: «Negli ospedali e nelle Rsa la mascherina andrebbe tenuta sempre, anche fuori pandemia, per proteggere i pazienti fragili. Aggiungo che, in questa fase, sarebbe raccomandabile anche per la popolazione generale continuare a indossare la mascherina negli ambienti affollati e poco areati».Sempre nel 2022, il luminare negava che i medici avessero commesso errori. Adesso, però, viene a spiegarci che avrebbero dovuto comunicare meglio. A tale proposito, ci permettiamo di portargli un piccolo esempio di come sia stata gestita la comunicazione negli anni della pandemia e ci perdonerà se, a titolo esemplificativo, utilizziamo alcune sue dichiarazioni. Alla fine di dicembre del 2023, il professore spiegò in una intervista che «i vaccini Rna-messaggero per il Covid durano poco», cioè ammise che i sieri «funzionicchiavano». Poi, però, aggiunse: «L’unico modo per combattere il Covid è il vaccino. Non ti protegge completamente dal contrarre l’infezione, ma dalla gravità della malattia. E, in un futuro molto vicino, il ringraziamento dovuto agli studiosi che lo hanno creato sarà ancora più grande».Già, il Covid si combatte solo con il vaccino. Peccato che Remuzzi stesso, ancora nel 2021, avesse concesso al sottoscritto una intervista (mai smentita) in cui illustrava il protocollo farmacologico messo a punto al Mario Negri da lui e da alcuni suoi colleghi. Disse il professore: «Il nostro protocollo di cura si può utilizzare, il primo dei nostri studi è stato pubblicato e se un lavoro è stato pubblicato i medici possono andare a vederlo e, se sono convinti, possono utilizzarlo. A questo serve la letteratura». Il professore spiegò che, secondo le ricerche svolte al Mario Negri, la terapia a base di antinfiammatori (non steroidei, i Fans), avviata precocemente, avrebbe ridotto il rischio di ospedalizzazione per Covid dell’85-90%. In pratica avrebbe sostanzialmente risolto il problema.Avete letto bene: prima dichiarò di aver messo a punto un protocollo di cura utile, che si sarebbe potuto sviluppare e che poteva già essere utilizzato. Poi, chissà perché, smise completamente di parlarne e si limitò a ripetere che l’unica via di uscita fosse il vaccino, anche se proteggeva poco. Viene da pensare, allora, che la realtà sia diversa da come oggi Remuzzi la vuole descrivere. Il punto non è che hanno «sbagliato a comunicare». Al contrario: hanno comunicato alla perfezione ciò che gli era stato imposto di comunicare.Il problema, dunque, non era che mancassero certezze o bravi comunicatori: mancavano professionisti coraggiosi e integerrimi che avessero il fegato di ammettere i fallimenti e dire la verità. I pochi che questo coraggio lo hanno avuto sono gli unici che possono permettersi, ora, di dare lezioni. Agli altri si addice di più il silenzio.
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