2021-08-27
Dal gigante iraniano di 2 metri e mezzo alla nuotatrice scampata alle bombe del padre
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Le Paralimpiadi di Tokyo 2020 portano alla luce storie di vita: come quella di Morteza Mehrzad, pallavolista iraniano alto 2,45 metri a causa di una patologia che lo ha fatto crescere troppo, o quella di Haven Shepherd, nuotatrice vietnamita naturalizzata americana rimasta senza le gambe da neonata dopo il tentativo del padre di sterminare l'intera famiglia con due bombe a mano.Lo sport ha il grande potere di emozionarci attraverso le imprese compiute dai protagonisti, ma non solo. Dietro ogni atleta, normodotato o disabile che sia, si cela una storia di vita. Se poi l'atleta in questione, attraverso gli sforzi, gli allenamenti e i sacrifici, riesce a guadagnarsi la ribalta di un palcoscenico internazionale come le Olimpiadi o le Paralimpiadi, accade che le storie vengono alla luce e offrono spunti di riflessione oltre che di narrazione.È il caso di una ragazza di 18 anni, nata il 10 marzo del 2003 in Vietnam, nella provincia di Quang Nam, con il nome di Do Thi Thuy Phuong, e oggi atleta paralimpica della nazionale di nuoto americana con il nome di Haven Shepherd. La storia di Haven racconta di un'amputazione di entrambe le gambe sotto le ginocchia all'età di 14 mesi, quando il padre, dopo che era stato smascherato il suo tradimento, decise di porre fine alla sua vita, a quella della moglie e della piccola Do Thi, legando i tre corpi e facendoli saltare in aria con l'esplosione di due bombe a mano. Una storia di follia che si concluse con la morte dei due genitori e le gravi ferite alla neonata che dovette subire le mutilazioni e ricevere cure specifiche e costose per la sua sopravvivenza. Per un breve periodo Do Thi venne affidata ai nonni, fino alla fine del 2004 quando una coppia di americani, Rob e Shelly Shepherd, volarono in Vietnam e tornarono nel Missouri con la piccola Do Thi, adottata e accolta nella sua nuova famiglia come settima figlia. La nuova vita di Do Thi riparte da lì con il nome di Haven Shepherd e una passione smisurata per il nuoto che con il passare degli anni, degli allenamenti, dei sacrifici e dell'immensa forza di volontà la porterà a Tokyo 2020.Storia di ben altro tenore, ma comunque carica di significato, quella di Morteza Mehrzad, pallavolista della nazionale iraniana di sitting volley. Morteza, che la medaglia d'oro alle Paralimpiadi l'ha già vinta cinque anni fa a Rio de Janeiro e che quest'anno, all'età di 34 anni, vuole il bis a Tokyo, è la seconda persona vivente più alta del mondo con i suoi 2 metri e 45 centimetri di altezza (più alto di lui soltanto il turco Sultan Kösen con i suoi 2,51 metri). Una misura che è causata da una patologia di cui il pallavolista iraniano è affetto, l'acromegalia, ossia una malattia rara - si parla di un range di 60-120 casi ogni milione di abitanti - che aumenta in maniera eccessiva la produzione dell'ormone della crescita in età postpuberale, e quindi quando non è più prevista la crescita della statura in quanto le cartilagini di coniugazione si sono già saldate in via definitiva. Morteza ha cominciato a crescere così tanto dal 2003, quando aveva 16 anni, e a questo si è anche aggiunto una brutta caduta dalla bicicletta che gli ha causato un problema alla gamba destra bloccandone lo sviluppo, così che ora risulta più corta di quella sinistra di ben 15 centimetri, obbligandolo all'uso di una stampella per poter riequilibrare le due gambe.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)