
Per i «detective» gourmet i due ingredienti insieme sono un delitto. Ma non c’è niente di più meneghino della carne di vitello servita sopra i chicchi colorati dallo zafferano. Leggenda vuole che sia nato dall’intuizione di un vetraio. E fu reso opera d’arte da Marchesi.C’è un giallo nella cucina tipica milanese, un delitto irrisolto che moltissimi non riconoscono come tale, ma che altri, gli Sherlock Holmes del buon gusto, i Nero Wolfe di Crimini e ricette, vorrebbero portare alla luce e risolvere una volta per tutte. È il doppio omicidio che, secondo i detective gourmet, si consuma quotidianamente sulle tavole di centinaia di trattorie e ristoranti ambrosiani dove, servendo ai clienti nel medesimo piatto il ris giald e l’oss bus, cioè il risotto alla milanese con lo zafferano e l’ossobuco di vitello velato di salsa gremolada, anch’esso rigorosamente targato Mi, il ris e l’oss si ammazzano tra loro per incompatibilità di carattere.Nel presunto delitto siamo stati complici dei cucinieri gustando e godendo più e più volte il piatto unico. Lo abbiamo confessato a Dino Betti van der Noot, delegato dell’Accademia italiana della cucina di Milano, consigliere di presidenza dell’istituzione fondata 70 anni fa da Orio Vergani, storico della cucina meneghina. Senza sconti di pena la sua sentenza: «Servire il risotto e l’ossobuco alla milanese come piatto unico uccide sia l’uno che l’altro. Gli aromi e i sapori del ris giald e dell’oss bus sono molto precisi e molto delicati. Nel risotto è fondamentale il midollo bovino: serve come ingrediente grasso a rendere il piatto unico abbinandosi a meraviglia con i pistilli di zafferano che vanno aggiunti a cottura ultimata per non soffocare la fragranza del piatto. L’ossobuco ha in comune col risotto il midollo e già questo vieta di metterli insieme. In più ha un aroma molto sottile, dato dalla scorza di limone grattugiata nella gremolada, ma che non va d’accordo con la magia dello zafferano. Delitto nel delitto: c’è chi mette aglio nell’ossobuco, ma l’aglio non ha nulla a che fare con la cucina milanese. Era considerato un condimento per i poveri che nessuno usava, nemmeno i poveri. C’è anche una spiegazione risorgimentale in questo odio per l’aglio: al tempo del dominio austriaco, i croati che costituivano il nerbo dell’esercito asburgico facevano un uso estremo del bulbo dall’aroma penetrante, il che aumentava nei milanesi l’antipatia verso il condimento».La leggenda del risotto alla milanese la conoscono anche le pietre del pavè di corso Porta Romana. Racconta di un apprendista vetraio soprannominato Zafferano perché mescolava la spezia ai vari colori per rendere i vetri più brillanti. L’apprendista prese alla lettera le parole del suo maestro, Valerio di Fiandra, al quale erano state commissionate le vetrate del Duomo, che un giorno gli disse: «Manca solo che tu aggiunga lo zafferano al burro del risotto». Detto, fatto. Il giovinotto di belle speranze, ma povero in canna, aggiunse zafferano al riso del banchetto di nozze della figlia del capo ottenendo un beneaugurante risotto aureo che stupì per il colore gli invitati e per il sapore li entusiasmò. Correva l’anno 1574.«Storiella divertente», la liquida Betti, «ma è una balla. Quando sia nato il risotto alla milanese non si sa, ma le prime fonti scritte sono di inizio dell’Ottocento e si riferiscono a una ricetta con gli ingredienti come adesso. Il riso era più morbido e brodoso e si mangiava col cucchiaio: una minestra cotta a lungo per aumentare il volume dei chicchi nella pentola risottiera, una casseruola di rame bassa con manico e beccuccio per versare il riso giallo nel piatto». Di quel «risotto» troviamo parecchie testimonianze scritte. Felice Luraschi, cuoco letterato, inserisce il risotto giallo alla milanese ne Il nuovo cuoco milanese economico (1829), suggerendo questi ingredienti: riso, zafferano, midollo di bue, noce moscata, brodo e formaggio grattugiato. Alla fine dell’Ottocento Pellegrino Artusi, nella sua celeberrima Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, consiglia ben tre ricette di risotto alla milanese. Nella seconda («un risotto più complicato, ma più saporito»), mantiene il midollo e il brodo, toglie la noce moscata ma aggiunge un bel po’ di burro e il vino bianco che nella terza ricetta sostituisce con «la marsala». Artusi raccomanda la mantecatura finale con altro burro e parmigiano.Il risotto alla milanese, uscito dalla gabbia dei ricettari, approda in letteratura grazie alla sfida in versi di due amiconi: il giornalista di giudiziaria del Corriere della Sera Augusto Guido Bianchi e il poeta Giovanni Pascoli. Il cronista, avvezzo tanto a tribunali e criminali quanto a pentole e fornelli, provoca il poeta inviandogli la «ricetta perfetta» del risotto alla milanese: «Cento grammi buoni di burro e di cipolla qualche poco. Quando il burro rosseggia, allor vi poni il riso crudo; quanto ne vorrei e mentre tosta l’aglio e scomponi. Del brodo occorre poi: ma caldo assai; messine un po’ per volta, che bollire deve continuo, né asciugarsi mai. Nel tutto, sulla fine, diluire di zafferano un poco tu farai perché in giallo lo abbia a colorire. Il brodo tu graduare ben saprai, perché denso sia il riso, allor che è cotto. Di grattugiato ce ne vuole assai. Così avrai di Milan pronto il risotto».Pascoli gli risponde da Castelvecchio, dettando una ricetta dove lo zafferano è protagonista, ma aggiunge altri ghiotti ingredienti: «Amico, ho letto il tuo risotto in… ai! È buono assai, soltanto un po’ futuro, con quei tuoi “tu farai, vorrai, saprai”! Questo, del mio paese, è più sicuro perché presente. Ella (Mariù) ha tritato un poco di cipolline in un tegame. V’ha messo il burro del color di croco e zafferano (è di Milano!): a lungo quindi ha lasciato il suo cibrèo sul fuoco. Tu mi dirai: “Burro e cipolle?”. Aggiungo che v’era ancora qualche fegatino di pollo, qualche buzzo, qualche fungo. Che buon odor veniva dal camino! Io già sentiva un poco di ristoro, dopo il mio greco, dopo il mio latino! Poi v’ha spremuto qualche pomodoro; ha lasciato covare chiotto chiotto in fin c’ha preso un chiaro color d’oro. Soltanto allora ella v’ha dentro cotto il riso crudo, come dici tu. Già suona mezzogiorno. Ecco il risotto romagnolesco che mi fa Mariù».Di revisione in revisione, arriviamo a Carlo Emilio Gadda che, da buon milanese e miglior gourmet, si misura col risotto allo zafferano. Ne dettò la sua personale ricetta nel 1959 su Il gatto selvatico, la rivista dell’Eni. Titolo dell’articolo: «Risotto patrio. Rècipe». Gadda trascura niente. Consiglia il riso da usare, il vialone, illustrandone i valori nutrizionali e gastronomici. Raccomanda di adoperare una casseruola tonda di rame stagnato. Ingredienti: spicchi di cipolla tenera, un quarto di ramaiolo di brodo di manzo, burro lodigiano quantum prodest, secondo il numero dei commensali. «Al primo soffriggere di codesto modico apporto butirroso-cipollino, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due-tre pugni a persona. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria “personalità”: non impastarsi e neppure aggrumarsi. In una scodella sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè. E brodo zafferanato dovrà per tal modo aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, 20-22 minuti, abbia a risultare giallo- arancio».Nel 1981 il risotto alla milanese diventa un capolavoro di gioielleria gastronomica con Gualtiero Marchesi che adagia sui pistilli rossi una foglia d’oro. «Il nuovo cuoco», afferma, «oltre a saper cucinare un cibo, lo dispone nel piatto soddisfacendo un equilibrio di volumi, consistenze, colori».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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