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2024-12-17
L’Ue vuole sanzionare chi ha votato «male». Per i tagliagole invece condono tombale
Il neo presidente georgiano Mikheil Kavelashvili (Ansa)
È vero: in politica estera, spesso, tocca essere più realisti del re. Dialogare con i cattivi. Fare patti col diavolo. Ma allora, perché tirare in ballo i valori, i principi, le procedure, i diritti? Anziché sembrare furbi, si appare ipocriti. E in questo esercizio di doppiezza, l’Europa è maestra.
Ieri, a margine del Consiglio Affari esteri, che ha dato il via libera al quindicesimo pacchetto di sanzioni contro la «guerra ibrida» della Russia, l’Alto rappresentante dell’Ue ha evocato l’ipotesi di misure che colpiscano anche la Georgia. «Le cose non stanno andando nella giusta direzione», ha osservato Kaja Kallas. «Discuteremo di quali conseguenze il governo georgiano potrà affrontare per aver usato repressione contro l’opposizione. La prima questione riguarda le sanzioni e la seconda se limitare i visti». La politica estone ha pure proposto «una lista di persone da sanzionare». L’accordo non c’è: Ungheria e Slovacchia si oppongono. Secondo il ministro degli Esteri magiaro, Péter Szijjártó, Bruxelles si è inalberata «solo perché un partito conservatore, patriottico e orientato alla pace» l’ha spuntata alle urne. «Siamo 27 democrazie con le nostre idee», ha sospirato alla fine la Kallas. «Quindi, ci vuole tempo. Il presidente Salomé Zourabichvili è in carica fino al 29 dicembre. Nel frattempo potrebbero accadere molte cose». Ad esempio? Un golpetto che mantenga in sella la leader filoccidentale, anziché far salire al potere l’ex calciatore Mikheil Kavelashvili, eletto per succedere alla Zourabichvili e gradito a Mosca?
Il problema è sempre il solito: i cittadini si ostinano a votare male. A fine ottobre, il partito Sogno georgiano, filorusso, ha ottenuto la maggioranza. Secondo l’opposizione, le elezioni erano truccate. In un altro Paese già parte dell’Ue, la Romania, la Corte costituzionale ha preso il toro per le corna, annullando l’esito delle presidenziali, vinte dal candidato pro Russia, per il sospetto di interferenze malevole nella campagna elettorale, tramite il social TikTok. Un’operazione ovviamente eterodiretta dal Cremlino.
Sì, c’è ragione di dubitare delle consultazioni a Tbilisi: i rapporti preliminari degli osservatori internazionali hanno parlato di segretezza del voto compromessa, di «incongruenze procedurali», di «intimidazioni e pressioni» sugli elettori. Figuriamoci se Vladimir Putin se ne sta buono, quando può provare a condizionare Stati che preferisce rimangano nella sua orbita. Ma perché l’Europa, se ci tiene a democrazia e diritti umani, si sforza di andare incontro alla Siria riconquistata dai ribelli islamisti?
È stata l’Italia, ieri, a chiedere che si aprano «canali di dialogo con Hts», la formazione guidata da Abu Muhammad al-Jolani, e che si arrivi a una «graduale e condizionata rimozione delle sanzioni», imposte ai tempi di Bashar al-Assad. L’Ue ha spedito a Damasco una delegazione diplomatica per confrontarsi con il jihadista ripulito. L’inviato Onu, Geir Pedersen, che si è visto con il premier ad interim, Mohammad al-Bashir, aveva già auspicato la rapida rimozione delle sanzioni. La Kallas, raccogliendo il suggerimento olandese, ha reso ancor più smaccata la strumentalità dei piani europei: condizionare l’abrogazione delle sanzioni e il riconoscimento della nuova leadership all’espulsione dei russi dalle basi militari siriane, nonché all’allontanamento dall’Iran. Il nemico del mio nemico è mio amico. Può avere senso, eh. In fondo, bisogna prendere atto della realtà: il «tappo» è saltato; non c’è più Assad ad addomesticare l’Isis; anzi, visto come è stato deposto, forse non è mai stato davvero in grado di contenere i terroristi. L’autorità è legittima se chi se la piglia sa anche tenersela. D’accordo. Almeno, però, non ci si aggrappi a valori, principi, procedure, diritti. Non è il momento opportuno.
Ieri, in effetti, sono venute fuori le prove di esecuzioni sommarie compiute da gruppi vicini alla formazione di Jolani. Secondo fonti che si trovano nelle zone di Damasco, Homs, Hama, Idlib, Latakia e Tartus, citate dall’Ansa, almeno 20 persone sono state massacrate. Tra loro c’erano civili considerati compromessi con Assad, come il «faccendiere» Abu Ali Ashur, trascinato per strada, spinto vicino a un secchio dell’immondizia, preso a schiaffi e calci. O i militari senza divisa giustiziati a Rabia, nell’area di Hama. I combattenti si sarebbero accaniti sui «maiali alawiti», la setta sciita privilegiata dal rais. Ma tra le vittime figurerebbero pure dei cristiani. Sarebbe il caso di Saaman Sotme e sua moglie Helen Khashouf, di Jamisliye, insediamento nella regione di Tartus: i combattenti avrebbero fatto irruzione in casa loro e li avrebbero uccisi a sangue freddo.
D’accordo: nel nome degli interessi di parte, in politica estera tocca scendere a patti col demonio. Ne siamo consapevoli. Possiamo accettarlo. Basta che i nostri governanti non ci trattino da scemi.
Trump: «Basta con la carneficina, parleremo con Putin e Zelensky»
Risultati raggiunti, obiettivi per il 2025 e avvertimenti all’Occidente. Nel giorno in cui dal Consiglio Affari esteri è arrivato il via libera dell’Ue al quindicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia che andrà a colpire 54 persone, 52 navi coinvolte nel trasporto di attrezzature militari e 30 entità giudicate responsabili di azioni che minano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina, Vladimir Putin è intervenuto a tutto tondo sui temi che riguardano il conflitto tra Mosca e Kiev, facendo il punto di quella che è la situazione attuale al fronte e di cosa si aspetta che accadrà nei primi mesi del prossimo anno.
«Le nostre truppe mantengono saldamente l’iniziativa strategica lungo l’intera linea di contatto e stanno accelerando la loro avanzata nel Donetsk», ha affermato ieri lo zar. «Il 2024 è stato un anno fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi in Ucraina dove le nostre forze hanno conquistato 189 centri abitati». Parole confermate immediatamente dopo dal ministro della Difesa, Andrei Belousov, il quale, oltre a specificare che nel corso di quest’anno l’esercito russo è riuscito a penetrare in quasi 4.500 chilometri quadrati di territorio ucraino e che ora sta guadagnando circa 30 chilometri quadrati al giorno, ha rilanciato gli obiettivi dichiarati da Putin lo scorso giugno: «Occuperemo interamente le regioni di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia entro il 2025, anno in cui contiamo di vincere la guerra». Il leader del Cremlino si è poi rivolto a Stati Uniti e Unione europea, accusando gli alleati di Kiev di interferire più del dovuto negli equilibri del conflitto: «Gli Usa incoraggiano l’escalation per spingerci verso la linea rossa. Nella loro volontà di indebolirci e infliggerci una sconfitta strategica, continuano a pompare il regime illegittimo di Kiev di armi e soldi inviando mercenari e consulenti militari». Reagendo invece all’ipotesi di soldati europei pronti a combattere in territorio ucraino, Putin ha avvertito: «A breve lanceremo la produzione in serie dei missili balistici ipersonici Oreshnik che abbiamo testato lo scorso 21 novembre a Dnipro. Se gli Stati Uniti dispiegheranno missili a corto e medio raggio, in qualsiasi regione del mondo, la Russia farà lo stesso».
Tuttavia ieri, quando manca poco più di un mese all’insediamento ufficiale alla Casa Bianca, è intervenuto nuovamente sulla questione ucraina Donald Trump. Il tycoon non vuole perdere tempo e ha fatto sapere di essere intenzionato a trovare un accordo che soddisfi entrambe le parti prima di assumere l’incarico presidenziale: «La carneficina in Ucraina deve finire», ha detto. «Parleremo con il presidente russo Vladimir Putin e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky». Soffermandosi poi sul leader di Kiev, Trump ha spiegato di non averlo invitato al giuramento così come anche il presidente cinese Xi Jinping, dicendo però che gli piacerebbe averli entrambi alla cerimonia. La notizia più importante che filtra dalle dichiarazioni di The Donald, però, riguarda un dietrofront sul permesso assegnato dall’amministrazione Biden all’Ucraina di utilizzare le armi a lungo raggio per colpire obiettivi sul suolo russo: «La situazione in Ucraina è più difficile di quella in Medio Oriente: consentire a Kiev di lanciare missili a 200 miglia all’interno della Russia è stato un grande errore», ha affermato Trump, aprendo così alla possibilità di revocare il via libera.
Nel frattempo a Bruxelles, in occasione del Consiglio Ue, si è tornato a discutere di peacekeeping, sebbene ancora non si intraveda una prospettiva concreta di un cessate il fuoco. L’alto rappresentante Ue, Kaja Kallas, ha detto che «non se ne può discutere ora perché la Russia non ha cambiato i suoi obiettivi»; mentre dal Cremlino dicono che «è prematuro parlare di uno schieramento di peacekeeper in Ucraina dopo un cessate il fuoco, perché Kiev rifiuta qualsiasi negoziato».
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L’Europa contro Tbilisi che resta pro Mosca. I jihadisti intanto giustiziano i cristiani, ma se cacciano i russi finirà l’embargo.Il Cremlino minaccia l’Occidente, però ammette: «Le spese militari hanno un limite».Lo speciale contiene due articoli.È vero: in politica estera, spesso, tocca essere più realisti del re. Dialogare con i cattivi. Fare patti col diavolo. Ma allora, perché tirare in ballo i valori, i principi, le procedure, i diritti? Anziché sembrare furbi, si appare ipocriti. E in questo esercizio di doppiezza, l’Europa è maestra.Ieri, a margine del Consiglio Affari esteri, che ha dato il via libera al quindicesimo pacchetto di sanzioni contro la «guerra ibrida» della Russia, l’Alto rappresentante dell’Ue ha evocato l’ipotesi di misure che colpiscano anche la Georgia. «Le cose non stanno andando nella giusta direzione», ha osservato Kaja Kallas. «Discuteremo di quali conseguenze il governo georgiano potrà affrontare per aver usato repressione contro l’opposizione. La prima questione riguarda le sanzioni e la seconda se limitare i visti». La politica estone ha pure proposto «una lista di persone da sanzionare». L’accordo non c’è: Ungheria e Slovacchia si oppongono. Secondo il ministro degli Esteri magiaro, Péter Szijjártó, Bruxelles si è inalberata «solo perché un partito conservatore, patriottico e orientato alla pace» l’ha spuntata alle urne. «Siamo 27 democrazie con le nostre idee», ha sospirato alla fine la Kallas. «Quindi, ci vuole tempo. Il presidente Salomé Zourabichvili è in carica fino al 29 dicembre. Nel frattempo potrebbero accadere molte cose». Ad esempio? Un golpetto che mantenga in sella la leader filoccidentale, anziché far salire al potere l’ex calciatore Mikheil Kavelashvili, eletto per succedere alla Zourabichvili e gradito a Mosca? Il problema è sempre il solito: i cittadini si ostinano a votare male. A fine ottobre, il partito Sogno georgiano, filorusso, ha ottenuto la maggioranza. Secondo l’opposizione, le elezioni erano truccate. In un altro Paese già parte dell’Ue, la Romania, la Corte costituzionale ha preso il toro per le corna, annullando l’esito delle presidenziali, vinte dal candidato pro Russia, per il sospetto di interferenze malevole nella campagna elettorale, tramite il social TikTok. Un’operazione ovviamente eterodiretta dal Cremlino.Sì, c’è ragione di dubitare delle consultazioni a Tbilisi: i rapporti preliminari degli osservatori internazionali hanno parlato di segretezza del voto compromessa, di «incongruenze procedurali», di «intimidazioni e pressioni» sugli elettori. Figuriamoci se Vladimir Putin se ne sta buono, quando può provare a condizionare Stati che preferisce rimangano nella sua orbita. Ma perché l’Europa, se ci tiene a democrazia e diritti umani, si sforza di andare incontro alla Siria riconquistata dai ribelli islamisti?È stata l’Italia, ieri, a chiedere che si aprano «canali di dialogo con Hts», la formazione guidata da Abu Muhammad al-Jolani, e che si arrivi a una «graduale e condizionata rimozione delle sanzioni», imposte ai tempi di Bashar al-Assad. L’Ue ha spedito a Damasco una delegazione diplomatica per confrontarsi con il jihadista ripulito. L’inviato Onu, Geir Pedersen, che si è visto con il premier ad interim, Mohammad al-Bashir, aveva già auspicato la rapida rimozione delle sanzioni. La Kallas, raccogliendo il suggerimento olandese, ha reso ancor più smaccata la strumentalità dei piani europei: condizionare l’abrogazione delle sanzioni e il riconoscimento della nuova leadership all’espulsione dei russi dalle basi militari siriane, nonché all’allontanamento dall’Iran. Il nemico del mio nemico è mio amico. Può avere senso, eh. In fondo, bisogna prendere atto della realtà: il «tappo» è saltato; non c’è più Assad ad addomesticare l’Isis; anzi, visto come è stato deposto, forse non è mai stato davvero in grado di contenere i terroristi. L’autorità è legittima se chi se la piglia sa anche tenersela. D’accordo. Almeno, però, non ci si aggrappi a valori, principi, procedure, diritti. Non è il momento opportuno. Ieri, in effetti, sono venute fuori le prove di esecuzioni sommarie compiute da gruppi vicini alla formazione di Jolani. Secondo fonti che si trovano nelle zone di Damasco, Homs, Hama, Idlib, Latakia e Tartus, citate dall’Ansa, almeno 20 persone sono state massacrate. Tra loro c’erano civili considerati compromessi con Assad, come il «faccendiere» Abu Ali Ashur, trascinato per strada, spinto vicino a un secchio dell’immondizia, preso a schiaffi e calci. O i militari senza divisa giustiziati a Rabia, nell’area di Hama. I combattenti si sarebbero accaniti sui «maiali alawiti», la setta sciita privilegiata dal rais. Ma tra le vittime figurerebbero pure dei cristiani. Sarebbe il caso di Saaman Sotme e sua moglie Helen Khashouf, di Jamisliye, insediamento nella regione di Tartus: i combattenti avrebbero fatto irruzione in casa loro e li avrebbero uccisi a sangue freddo.D’accordo: nel nome degli interessi di parte, in politica estera tocca scendere a patti col demonio. Ne siamo consapevoli. Possiamo accettarlo. Basta che i nostri governanti non ci trattino da scemi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/georgia-ue-elezioni-2670478434.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trump-basta-con-la-carneficina-parleremo-con-putin-e-zelensky" data-post-id="2670478434" data-published-at="1734422910" data-use-pagination="False"> Trump: «Basta con la carneficina, parleremo con Putin e Zelensky» Risultati raggiunti, obiettivi per il 2025 e avvertimenti all’Occidente. Nel giorno in cui dal Consiglio Affari esteri è arrivato il via libera dell’Ue al quindicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia che andrà a colpire 54 persone, 52 navi coinvolte nel trasporto di attrezzature militari e 30 entità giudicate responsabili di azioni che minano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina, Vladimir Putin è intervenuto a tutto tondo sui temi che riguardano il conflitto tra Mosca e Kiev, facendo il punto di quella che è la situazione attuale al fronte e di cosa si aspetta che accadrà nei primi mesi del prossimo anno. «Le nostre truppe mantengono saldamente l’iniziativa strategica lungo l’intera linea di contatto e stanno accelerando la loro avanzata nel Donetsk», ha affermato ieri lo zar. «Il 2024 è stato un anno fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi in Ucraina dove le nostre forze hanno conquistato 189 centri abitati». Parole confermate immediatamente dopo dal ministro della Difesa, Andrei Belousov, il quale, oltre a specificare che nel corso di quest’anno l’esercito russo è riuscito a penetrare in quasi 4.500 chilometri quadrati di territorio ucraino e che ora sta guadagnando circa 30 chilometri quadrati al giorno, ha rilanciato gli obiettivi dichiarati da Putin lo scorso giugno: «Occuperemo interamente le regioni di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia entro il 2025, anno in cui contiamo di vincere la guerra». Il leader del Cremlino si è poi rivolto a Stati Uniti e Unione europea, accusando gli alleati di Kiev di interferire più del dovuto negli equilibri del conflitto: «Gli Usa incoraggiano l’escalation per spingerci verso la linea rossa. Nella loro volontà di indebolirci e infliggerci una sconfitta strategica, continuano a pompare il regime illegittimo di Kiev di armi e soldi inviando mercenari e consulenti militari». Reagendo invece all’ipotesi di soldati europei pronti a combattere in territorio ucraino, Putin ha avvertito: «A breve lanceremo la produzione in serie dei missili balistici ipersonici Oreshnik che abbiamo testato lo scorso 21 novembre a Dnipro. Se gli Stati Uniti dispiegheranno missili a corto e medio raggio, in qualsiasi regione del mondo, la Russia farà lo stesso». Tuttavia ieri, quando manca poco più di un mese all’insediamento ufficiale alla Casa Bianca, è intervenuto nuovamente sulla questione ucraina Donald Trump. Il tycoon non vuole perdere tempo e ha fatto sapere di essere intenzionato a trovare un accordo che soddisfi entrambe le parti prima di assumere l’incarico presidenziale: «La carneficina in Ucraina deve finire», ha detto. «Parleremo con il presidente russo Vladimir Putin e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky». Soffermandosi poi sul leader di Kiev, Trump ha spiegato di non averlo invitato al giuramento così come anche il presidente cinese Xi Jinping, dicendo però che gli piacerebbe averli entrambi alla cerimonia. La notizia più importante che filtra dalle dichiarazioni di The Donald, però, riguarda un dietrofront sul permesso assegnato dall’amministrazione Biden all’Ucraina di utilizzare le armi a lungo raggio per colpire obiettivi sul suolo russo: «La situazione in Ucraina è più difficile di quella in Medio Oriente: consentire a Kiev di lanciare missili a 200 miglia all’interno della Russia è stato un grande errore», ha affermato Trump, aprendo così alla possibilità di revocare il via libera. Nel frattempo a Bruxelles, in occasione del Consiglio Ue, si è tornato a discutere di peacekeeping, sebbene ancora non si intraveda una prospettiva concreta di un cessate il fuoco. L’alto rappresentante Ue, Kaja Kallas, ha detto che «non se ne può discutere ora perché la Russia non ha cambiato i suoi obiettivi»; mentre dal Cremlino dicono che «è prematuro parlare di uno schieramento di peacekeeper in Ucraina dopo un cessate il fuoco, perché Kiev rifiuta qualsiasi negoziato».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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