2022-04-10
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: la tavola di Pasqua
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Anche senza Sergio Mattarella - è al terzo forfait consecutivo - stasera il Teatro alla Scala fa il record d’incasso: quasi 3 milioni con biglietti pagati fino a 3.200 euro. È tanto? Forse è addirittura poco. Perché il melodramma, la lirica, sono uno dei massimi valori della cultura e dello stile italiani. Quanto all’assenza del presidente della Repubblica, si rincorrono le voci più disparate.
L’anno scorso e quello prima doveva essere a Parigi per la riapertura di Notre-Dame. Stavolta voci di corridoio dicono che potrebbe entrarci la scelta fatta dal direttore artistico, Riccardo Chailly, al suo ultimo anno a Milano, in concordia col nuovo sovrintendente, Fortunato Ortombina, di mettere in scena un’opera che non piaceva neppure a Stalin: Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitri Shostakovich. Ma Chailly, fermissimo nel proposito, ha ricordato che tra Scala e Russia c’è un legame inscindibile fin dai tempi di Arturo Toscanini.
La Prima del teatro meneghino è da sempre però anche un evento politico; tant’ è - absit iniura verbis - che scatta il comma Nanni Moretti: mi si nota di più se ci sono o se non ci sono? Non ci sarà con tutta probabilità il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ed è atteso il forfait del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Il sindaco Giuseppe Sala nel palco reale starà larghissimo. Stipato all’inverosimile con «mises» da settimana della moda sarà invece il foyer. E da lì si dovrebbe partire per fare un ragionamento. Ad esempio: la parte di Katerina è affidata a Sara Jakubiak, americana che ha studiato in Germania, dove è stata consacrata. Viene da chiedersi: che fine hanno fatto i grandissimi soprani italiani? E dopo Luciano Pavarotti (al netto che a Pesaro ne abbiano ingabbiato la statua in una pista di pattinaggio con uno sfregio che ha fatto il giro del mondo) che è accaduto?
Tra tre giorni la cucina italiana sarà riconosciuta patrimonio immateriale mondiale dell’umanità dall’Unesco, un evento che ha una ricaduta economica assai rilevante. Ma anche il canto lirico italiano è dal 2023 patrimonio mondiale dell’umanità e viene da chiedersi non solo se si realizzerà - com’è auspicabile - una sinergia tra canto e piatto che definisce al massimo livello possibile il valore Italia, ma perché ciò che vale per la tagliatella non vale per «l’intermezzo» di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni una coinvolgente tarantella? Perché il teatro lirico da tempo soffre in Italia di sottovalutazione e di asfissia economica. È settore larghissimamente sovvenzionato e politicizzato (il caso di Beatrice Venezi ne è viva e sguaiata testimonianza) che ha perduto dinamicità imprenditoriale. Una dimostrazione è stato il centenario pucciniano, scivolato via senza troppa attenzione. Eppure Giacomo Puccini fu genio assoluto.
Ci sarà, stasera a Milano, il ministro della Cultura, Alessandro Giuli. E da lui parte una iniziativa per il rilancio dei teatri d’opera. La riforma dovrebbe esser varata entro il prossimo anno: il sottosegretario Giancarlo Mazzi - ne sa di organizzazione di concerti - ha scritto che 12 dei palcoscenici oggi Fondazioni liriche diventeranno Gran teatri d’opera. Nuovo sistema sinergico di vendita dei biglietti, un corpo di ballo nazionale, obbligo di avere direttore artistico e direttore marketing. Si cambiano i consigli di amministrazione con meno poteri ai sindaci e più ai ministeri della Cultura e dell’Economia. E si punta a una gestione manageriale, perché dei 420 milioni del Fus (Fondo unico per lo spettacolo), l’opera se ne «mangia 200 e serve cambiare. Peraltro, dopo il Covid, i palcoscenici lirici hanno avuto un rinascimento, ma hanno bisogno di un vigoroso ammodernamento. Il sold out di stasera della Scala dimostra che la lirica è un buon affare.
L’ultimo bilancio ha chiuso con 130 milioni di fatturato, quasi 9 di utile e il contributo pubblico incide per un terzo: il resto sono soldi di privati. Lo stesso vale per l’Arena di Verona - genera, ha stimato Nomisma, un indotto che vale 2 miliardi e impiega quasi 6.000 persone - che deve il 71% del valore della produzione a risorse proprie, col contributo pubblico sotto il 29%. La Siae certifica che nel 2024 si sono staccati biglietti d’opera per 110 milioni, ogni spettatore ha speso in media 51 euro e ogni euro ne genera 6,3 di moltiplicatore. Un volano potente che unito, ad esempio, alla cucina, ci manda in mete nel turismo. Lo sanno bene nel resto del mondo, dove la lirica è sacra. Lo sa meno l’Italia che pure gode, grazie al melodramma, di un primato culturale: le maggiori programmazioni sono nella nostra lingua e i grandi cantanti studiano in italiano! Da qui la necessità di cambiare.
A oggi le 12 fondazioni a statuto ordinario, salvo alcune eccezioni (Arena, Opera di Roma e San Carlo di Napoli), stanno in piedi per i contributi pubblici che arrivano da più rivoli. Le due fondazioni speciali, Scala e Accademia di Santa Cecilia di Roma, dimostrano, al contrario, che con un fatturato che supera i 110 milioni si possono ottenere risultati economici soddisfacenti, oltre ad attivare un potente indotto.
C’è dunque un rinnovato interesse del governo per la lirica che parte dalla Scala. Con Cho Cho San-Madama Butterfly, appassionati e artisti intonano perciò: un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo? E la speranza!
Possiamo dire che la democrazia si è scollata sulle pensioni, materia incandescente per tutti. Toccare la previdenza significa toccare i fili sensibili del quadro elettrico europeo. Gli italiani lo sanno bene e ricordano perfettamente le cause che portarono al governo Monti e, tra le altre cose, alla riforma Fornero, che per prudenza nessun governo osa toccare, nemmeno l’attuale, nonostante certe promesse in campagna elettorale. A pattinare sul ghiaccio ora tocca ai tedeschi: il governo del cancelliere Merz rischiava il capitombolo proprio sulla riforma delle pensioni e se si è salvato è stato per l’aiutino della Sinistra radicale, che in teoria sarebbe all’opposizione. Per farla breve è accaduto che il partito del cancelliere, la Cdu, si è spaccata tra la componente giovanile, lo Junge Gruppe che conta 18 voti, e il resto del partito.
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
La nuova serie di The Rainmaker, prodotta anche da John Grisham, approda su Sky rinnovata per una seconda stagione. Dieci episodi tra Charleston e le zone d’ombra della legalità, seguendo il percorso di un Rudy Baylor più ingenuo e disincantato.
The Rainmaker ha già avuto i suoi passaggi fortunati, prima bestseller, poi pellicola a firma di Francis Ford Coppola. Ma la storia di John Grisham, parabola perfetta per descrivere la mutevolezza delle idee, specie di quelle che l'ambizione, il potere e il denaro possono plasmare a proprio piacimento, non ha finito di chiedere adattamenti. L'ultimo, voluto tra gli altri dallo stesso Grisham, annoverato tra i produttori esecutivi, ha la forma di un racconto seriale, declinato in dieci episodi e rinnovato anzitempo per una seconda stagione.
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
La Commissione europea, sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, si conferma campione della globalizzazione, con l’annuncio dell’apertura di una revisione sui dazi applicati alle auto elettriche prodotte in Cina dal Gruppo Volkswagen.
La ex potenza industriale Europa si sta trasformando in una colonia commerciale e il simbolo di questa triste parabola è la disastrosa imposizione dell’auto elettrica da parte dell’Unione europea, che ora si arricchisce di un nuovo capitolo: esentare dai dazi le importazioni delle auto Volkswagen prodotte in Cina.
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.

