Funzionari indagati per le maschere. Trema la struttura commissariale

Funzionari indagati per le maschere. Trema la struttura commissariale
Mario Benotti
Indagini a una svolta, nuovi avvisi di garanzia in arrivo: fari della magistratura puntati sulle maxi commissioni da oltre 70 milioni e sulla qualità dei dispositivi di protezione importati dalla Cina. Coinvolti pubblici ufficiali.
È partito il conto alla rovescia. I ben informati raccontano che a breve ci sarà la prima vera svolta della complessa inchiesta sulle mascherine cinesi intermediate da una strana banda di imprenditori: il «prof. Dott.» senza laurea, l'ecuadoriano pluridenunciato e aspirante «canaparo», l'ingegnere aerospaziale sotto inchiesta a San Marino, il banchiere rinviato a giudizio per bancarotta, il cinese fantasma (è sparito da Roma subito dopo le perquisizioni di dicembre).

A questi signori si è rivolto il commissario straordinario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri. L'indagine, iniziata a fine estate, ha portato all'apertura di nuovi filoni. Tra le ipotesi di reato non ci sono più solo il traffico illecito di influenze e la ricettazione. Anche il numero degli indagati è cresciuto rispetto agli otto iniziali. Sul registro delle notizie di reato del fascicolo principale, il 36684 del 2020, sono finiti uno o più pubblici ufficiali. Una notizia che potrebbe far tremare i polsi a diversi dirigenti e funzionari della struttura commissariale, ma anche a chi ha rilasciato le certificazioni delle mascherine sulla base della documentazione cinese, senza effettuare ulteriori controlli. Con il risultato di far circolare per l'Italia dispositivi di protezione individuale che, in alcuni casi, non avrebbero la necessaria capacità di filtraggio o per dirla con Marco Zangirolami, direttore del laboratorio Fonderia Mestieri di Torino, mascherine che sono «una merda».

Le fattispecie contestate non sono ancora definitive essendo l'indagine in costante evoluzione. Gli inquirenti, che sono partiti ipotizzando la corruzione, stanno battendo anche altre strade. Per esempio tra le piste seguite c'è quella della frode nelle pubbliche forniture. Questo reato si concretizzerebbe se si dimostrasse la scarsa qualità dei dispositivi cinesi e l'acquisto a prezzi diversi dal reale valore di mercato. In una mail sequestrata a uno degli indagati emergeva che per un lotto da 100 milioni di mascherine Ffp2 acquistate dal commissario a 2,16 euro l'una, 46 centesimi erano di commissione, il 21,3% del prezzo d'acquisto, una percentuale monstre.

Per trovare riscontro a questa accusa occorrerà prelevare presso i magazzini del commissario e delle regioni campioni delle mascherine acquistate in Cina e farle esaminare in laboratorio per testarne la reale capacità di filtraggio. In questa fase istruttoria sono previste discovery graduali degli atti per consentire agli inquirenti di raccogliere nuovi elementi di prova, senza, però, dover scoprire tutte le proprie carte. Gli inquirenti, infatti, procedono con grande prudenza. Ricordiamo che a dicembre sono stati sequestrati documenti e apparati elettronici, ma non le provvigioni versate agli indagati, nonostante nei decreti di perquisizione venisse contestato il pagamento di «remunerazioni indebite» collegate alle «relazioni personali» dell'indagato Mario Benotti, capofila dei mediatori dell'affare, con Arcuri.

I nostri lettori sanno a memoria che questo affare da 1,25 miliardi di euro per 801 milioni di mascherine ha portato nelle tasche dei broker in contatto con Arcuri almeno 72 milioni di euro (pari al 5,76% dell'importo complessivo ) di provvigioni, ma forse molti di più a voler credere ad alcune mail di maggio e giugno rinvenute dagli investigatori durante le perquisizioni del 4 dicembre in cui l'ecuadoriano Jorge Solis e il cinese Zhongkai Cai facevano riferimento a 203 milioni, ovvero il 16,24% del totale, escludendo un'ulteriore fetta che Cai avrebbe trattato direttamente con le società di import export di Pechino, soldi che non sarebbero mai giunti in Italia.

Inizialmente la Procura di Roma, dopo aver ricevuto la segnalazione di operazione sospetta dall'unità antiriciclaggio della Banca d'Italia, ha contestato la corruzione. Con quell'accusa, il 9 novembre, ha iscritto anche Arcuri e Antonio Fabbrocini, dirigente di Invitalia e componente del team addetto ad «acquisti, contratti e gestione fornitori» della struttura commissariale.

Il 4 dicembre nei decreti di perquisizione l'ipotesi di reato per sei indagati era diventata traffico illecito di influenze, mentre per Arcuri e Fabbrocini era stata chiesta l'archiviazione. Ma, se da una parte il proscioglimento per i due manager di Invitalia non è ancora arrivato, nel registro delle notizie di reato è finito, come detto, il nome di uno o più pubblici ufficiali.

Per scrollarsi di dosso la contestazione di traffico illecito di influenze, Benotti, giornalista Rai in aspettativa, ha chiesto l'incidente probatorio per dimostrare che a coinvolgerlo nell'affare era stato direttamente Arcuri, da lui conosciuto ai tempi in cui lavorava come consigliere di sottosegretari e ministri Pd. Un personaggio poliedrico Benotti, ben introdotto presso la segreteria di Stato vaticana e nel mondo della politica. Entrò a Palazzo Chigi come segretario particolare di Sandro Gozi con un contratto da 40.000 euro annui, sventolando un curriculum con una laurea che pare non aver mai conseguito. Quindi si è dedicato, con alterne fortune, all'attività imprenditoriale sino a quando, nel marzo del 2020, Arcuri gli ha affidato la salute degli italiani.

Nei giorni scorsi la trasmissione Fuori dal coro ha testato due mascherine importate grazie a Benotti & c. e tali protezioni hanno lasciato passare 30% o il 50% delle particelle anziché il 6. Di quello stesso lotto sono state distribuiti nel nostro Paese quasi 3 milioni di pezzi, anche se non è chiaro chi li stia usando. Purtroppo il commissario non accetta di dare chiarimenti ai giornalisti su questa e altre delicate questioni.

Ci auguriamo che il premier Mario Draghi spieghi ad Arcuri che chi gestisce miliardi di euro di denaro pubblico deve trasformare i propri uffici in una casa di vetro e non paventare, come hanno fatto gli avvocati del commissario, il rischio di «un indebito e generalizzato controllo da parte della stampa sull'attività della Pubblica amministrazione».

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