
L'ex Guardasigilli di Fi, morto ieri a 91 anni, intuì per primo la corrosione del sistema. E negli anni di Tangentopoli, come oggi, il Quirinale non arginò il partito delle Procure.«Fino a quando un giudice sarà collega di un pm, col quale magari si sposa, mi chiedo se le camere di consiglio le fanno a letto». Aveva capito tutto, Alfredo Biondi, dalle aberrazioni procedurali del rito ambrosiano durante Tangentopoli allo scandalo Palamara. Divisione delle carriere mai vista, politicizzazione delle Procure, favori e promozioni come al mercato del pesce: lui ci arrivò per proprietà transitiva, anticipò la corrosione del sistema, vide il piano inclinato sul quale si era avviata la giustizia italiana. E in fondo ha avuto la soddisfazione di prendersela, la ragione, anche se nessuno gliel'ha mai data.L'ultimo dei liberali classici è morto a 91 anni con il sorriso sulle labbra di chi - da pisano trasferito a Genova - per una battuta si giocherebbe dieci euro. E si sarebbe divertito anche a leggere qualche coccodrillo che si aggira a bocca aperta per il Web, firmato dagli stessi cronisti che negli anni di Mani pulite pendevano dalle labbra dei pm, inneggiavano al popolo dei fax, si eccitavano per quello delle monetine e auspicavano la rivoluzione dei girotondi per mandare a casa il governo Berlusconi. Da principe del Foro, in quel 1994 rivissuto tra falsi miti e amnesie, lui era ministro della Giustizia. E fu la prima vera vittima del costituendo partito delle Procure.È il 13 luglio, Biondi firma il decreto che limita la custodia cautelare in carcere (solo in caso di pericolo di fuga) per gli accusati di corruzione e concussione. Un provvedimento autenticamente garantista nel pieno della bufera giacobina, teso a limitare la strategia del «dimmi ciò che voglio sapere o butto via la chiave» cara ai pm più famosi d'Italia. In un anno si sono suicidati in prigione in attesa di giudizio Renato Amorese, Sergio Moroni, Gabriele Cagliari, più Raul Gardini (in casa). La sinistra giustizialista è contraria e nella stessa maggioranza la Lega bossiana fibrilla per paura di perdere consensi. Scaramucce politiche fino a quando, 24 ore dopo, Antonio Di Pietro si presenta in televisione in maniche di camicia con un foglio firmato anche da Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco: è la ribellione dei pm descamisados alla legge, condita con la minaccia di dimissioni. È la prima manifestazione organica di un potere che si sovrappone al Parlamento con il favore della minoranza rumorosa, della stampa compatta e del Quirinale, perché Oscar Luigi Scalfaro fa pressioni affinché il decreto venga ritirato. Manca solo un'etichetta infamante per indurre Biondi a cedere. La porge il sistema mediatico, sempre formidabile nelle semplificazioni: battezza il provvedimento «decreto salvaladri» e il gioco è fatto. La legge viene lasciata decadere. Nasce il partito dei giudici, si salda un fronte che va dalla sinistra forcaiola alle Procure passando per le redazioni più famose. Lo scenario dello scandalo Palamara. Biondi intuisce la deriva e butta lì l'infelice battuta: «A giurisprudenza dicono che se non studi diventi pubblico ministero». La risposta è una calunnia, quella di alzare il gomito. I buoni non fanno prigionieri.
Mattia Furlani (Ansa)
L’azzurro, con 8,39 metri, è il più giovane campione di sempre: cancellato Carl Lewis.
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L’azienda sanitaria To4 valuta in autonomia una domanda di suicidio assistito perché manca una legge regionale. Un’associazione denuncia: «Niente prestazioni, invece, per 3.000 persone non autosufficienti».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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